La Venere di Milo e l’Età del frammento.

Tra Saffo (7 RP., 11 D. – Ath. XIII, 571d) e Kavafis (Nel mese di Athyr)

Il termine «frammento» deriva da fragmentum (trad. «frammento», «pezzo»; al plur. «resti», «avanzi», «spoglie»), dal verbo frangĕre (trad. «infrangere», «rompere», «dilaniare»). Quando si parla di frammento e di frammentarietà, o frammentismo, ci si riferisce a qualcosa di superstite, un qualcosa che ci è rimasto. È una testimonianza, parte di un tutto ch’è andato perduto. È nello stesso identico momento non solo presenza, ma anche assenza. Il frammento è presenza di se stesso e, allo stesso tempo, fantasma di qualcos’altro, di una organicità che non c’è più e che difficilmente vi sarà ancora, dunque testimonia anche, inevitabilmente, una mancanza.

Il frammentismo è uno dei tanti Titani che regge gli studia humanitatis, li nutre e li anima, eppure, dietro questo colosso sempiterno, si nasconde una Sfinge enigmatica che tormenta e pungola le pulsioni dei poeti e dei filologi. Il frammento è la buia stella che indica e confonde, è la trama di Penelope che si cuce e si scuce senza tregua, senza soluzione.

In qualsiasi forma si possano plasmare, queste particelle, nella loro incompletezza, assumono uno statuto di autorità indiscusso e imprescindibile, rivelandoci, piuttosto, le debolezze delle lebenswerk dinnanzi al Tempo, mostrandoci come l’uomo e le sue forze si risolvano in un gioco di lasciti e di perdite, inevitabile, incalcolabile né a monte e né a riva.

È il passato, l’antichità, soprattutto greca e latina, ad assumere lo statuto di paradigma involontario, e per questo ingenuo, del frammentismo. È qui, in questi resti e brandelli di dèi e guerrieri, che l’incompiuto e il carente gettano il seme profondo e vigorosissimo degli studia humanitatis. Si pensi ai grammatici e ai filologi alessandrini che nella ricca biblioteca si affaccendarono sui papiri letterari, ricercando, emendando e sistematizzando un sapere già frammentario, già problematico.

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Ritratto femminile, detto “Saffo”. Copia romana da originale greco dell’età classica, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori. Foto di Marie-Lan Nguyen, Pubblico Dominio

Oggi, quando prendiamo un frammento di Saffo (7 RP., 11 D. – Ath. XIII, 571d), per esempio, abbiamo modo di leggerlo in questo stato:

«(…) e ora canterò questo bel canto

per la delizia delle mie compagne»

(trad. E. Mandruzzato)

L’intera opera saffica è frammentaria per nostra sfortuna, ma è anche questo che le rende una cifra estremamente originale.

Quale sarà stato il canto che Saffo avrebbe voluto intonare alle sue amiche?

L’incompletezza e la mancanza non diventano solo cifre distintive di un epoca, o di un autore, o di un genere letterario, ma entrano in noi, assimilandosi e assumendo il vuoto delle nostre mancanze. La sconnessione dall’intero, pur conservandone una parte, e, dunque, quel limite delle litterae, intrinseco alla briciola di testo, riflette le nostre più profonde mancanze e le interpreta nel modo più autentico che si possa, cioè ingenuamente.

Il frammentismo saffico si potrebbe definire “naturale”, dove naturale diventa il processo di perdita della totalità letteraria, senza filtri artistici, senza volontà dell’autore.

Cosa ben diversa avviene in questa nostra altra epoca, altra età del frammento, dove il vuoto interiore dell’animo, dell’esistenza e dell’umana essenza cerca di creare artisticamente questo monco sentire. È un frammentismo innaturale, artificiale, il nostro, perché lo si vuole evidente, artistico, dunque sentimentale.

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Konstantinos Kavafis. Fotografia scattata ad Alessandria d’Egitto (1929), Pubblico Dominio

Prendo come paradigma del frammentismo contemporaneo una lirica di Kostantinos Kavafis, Nel mese di Athyr:

«A malapena leggo scorrendo il marmo antico
SIGN[OR]E GESV CRISTO. Un ANI[M]A discerno.
NEL ME[SE DI] ATHYR LVCI[O] DI QVI MI[GRAV]A.
In luogo dell’età, poi: V[IS]SE EGLI ANNI –,
L’XX col VII rivela che presto ne migrava.
In mezzo alle lacune LV[I]… vedo, e ALESSANDRINO.
Dopo, tre righe restano, e mutile esse pure:
poco vi colgo ancora – L[A]CRIME NOSTRE, PIANTO
e nuovamente, LACRIME, e AI MESTI [A]MICI SV[OI].

Quel Lucio, dunque, pare che ci fosse chi lo amava.
Così, nel mese di Athyr, Lucio di qui migrava.» 

(trad. M. Scorsone)

Kostantinos Kavafis col bastone e cappello in mano. Fotografia Fettel and Bernard, Cavafy archive, scattata ad Alessandria d’Egitto (1896), Pubblico dominio

In tal modo, nella finzione poetica, Kavafis, adoperando mirabilmente le tecniche filologiche della congettura e della integrazione (ope ingenii), ci mostra il percorso poetico-esistenziale dell’artista contemporaneo, che sente il vuoto, lo percepisce, ma cerca di integrarlo con “puntelli” che, seppur fragili, restano e mantengono in piedi l’epigrafe funeraria. L’epigrafe che Kavafis si sforza di leggere, indagando un senso, facendo quadrare le lettere, cercando la coincidenza inesistente fino in fondo tra segno e significato, è la ricerca infinita della nostra epoca, rivelandoci che, forse, alla fine, il frammento è proprio dentro di noi, fin da sempre. Siamo eterne Veneri di Milo che si guardano allo specchio frantumato.

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Venere di Milo (o Afrodite di Milo), marmo pario, databile all’incirca al 130 a. C. e conservata al Museo del Louvre. Dettaglio, foto di Marie-Lan Nguyen (2007), Pubblico dominio

Bibliografia

Aa. Vv., Lirici Greci dell’età arcaica, (a cura di) Enzo Mandruzzato, Milano, 1994.

K. Kavafis, Che siano tanti i mattini d’estate. Il canone: poesie 1897-1933, (a cura di) Massimo Scorsone, Milano, 2012.

S. Settis, Futuro del “classico”, Torino, 2004.

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