Dove le parole finiscono

inizia la musica.

Heinrich Heine

La pietra e la piuma.

Noterelle ondivaghe sul tema del silenzio.

Divagazioni disorganiche e incoerenti da leggere a bassa voce.

Di fronte al candore lattiginoso di questa pagina bianca provo un certo sgomento. Mi accingo a scrivere parole – nere, fitte, rassicuranti – per lasciare un segno, una traccia, un’ombra. Lo spazio bianco è silenzioso e gelido, non invita ad entrare ma a restare sulla soglia. Attendere un tempo infinito. Desistere. Arretrare arrendevolmente di fronte all’impossibilità di coglierne pienamente il senso. Nel mio immaginario cromatico, l’inferno è una stanza vuota, le pareti bianche, le finestre cieche. Impossibile uscire, impossibile pensare, impossibile respirare. Il bianco mi paralizza. È una cicatrice, uno squarcio che non si rimargina e resta lì, a urlare in silenzio il suo candore. È uno spazio apparentemente innocente, come la neve che occulta il sangue rappreso sotto la sua coltre avvolgente. Come le foreste, che crescono indifferenti, affondando le radici nel marcio delle ossa. Che fine fa il bianco quando si scioglie la neve?

Campo di concentramento di Dachau, Kommandatur. Foto di Michael RoseCC BY-SA 3.0

C’era il sole quella mattina di luglio a Dachau. Un sole abbacinante che tingeva di oro i sassi del piazzale del campo. Tanti piccoli sassolini rotondi che rilucevano come coriandoli, riflettendo bagliori blasfemi. Un chiacchiericcio in sottofondo, risate mostruose di scolaresche in gita, telefonini per scattare fotografie di gruppo. Un cielo azzurro senza vergogna. Un campo di sterminio è un luogo paradossalmente affascinante. Immerso nel silenzio, abbracciato dai boschi. Costruito con criteri razionali, quasi armoniosi. Non c’è niente fuori posto, ogni cosa ha la sua funzione, logica e aberrante al tempo stesso. Ciascun elemento architettonico esprime austerità e rigore. A dominare l’immaginario geometrico il parallelepipedo: baracche, uffici, lunghi viali tra un blocco e l’altro. Le camere a gas sono defilate, per non rovinare il paesaggio con l’opprimente sentore di morte misto al puzzo di veleno per topi. I forni nelle immediate adiacenze, per velocizzare la metamorfosi in cenere. Ordine, disciplina, nessuna stortura evidente. Se non fosse per quel tacito e immane sfregio che aleggia silenzioso sulle nostre coscienze e che fatichiamo ad accantonare perché non appartiene più, ormai, solo al passato. Ritorna, riemerge, galleggia. Ma nessuno ha il coraggio di chiamarlo col suo nome. Perifrasi, lunghi giri di parole per evitare quelle giuste, quelle vere, quelle che feriscono come schegge di vetro conficcate nella carne. È il pudore degli spettatori, dei sopravvissuti, degli ignari eredi di colpe altrui.

“Grave of many thousand unknown.” Foto di Alexandre GilbertCC BY-SA 4.0

Le parole sono pietre. Concrete, materiche, pesanti. Talvolta aguzze. Nella loro scabra nudità esprimono un potenziale abnorme, sottinteso nello scarto tra significante e significato, che si traduce in atto quando sono chiamate a creare, o ricreare, il mondo. Ma anche le pietre hanno un limite. Il loro peso è di ostacolo al volo. Si affacciano sulla soglia dello spazio bianco e restano sospese, immobili. Avvizziscono in attesa di un senso, che si sfilaccia sempre più di fronte all’esperienza estrema del male. Eppure innumerevoli sono le testimonianze che hanno descritto il lager, restituendoci il suo orrore senza fine in modo che potesse concretizzarsi ai nostri occhi per non dimenticare. Parole comuni, nude, secche come rami. Parole quotidiane, non particolarmente alate né leggere, radunate insieme per raccontare l’indicibile. Senza orpelli, senza infingimenti. Parole-corpi, parole-cadaveri. Parole morte che implorano memoria. Ma la memoria è labile e il tempo ingoia ogni cosa in un enorme sbadiglio universale.

A che servono più le parole? Feticci dell’intelletto, macerie della coscienza. Detriti trascinati via dalla corrente. Lingua spezzata quella che non può più infrangere il silenzio, violare il biancore di un foglio immacolato. Lingua che si muta in suono, che si appropria di un altro codice, di un altro alfabeto, di nuovi segni per colmare la voragine. Musica che, sola, valica lo spazio bianco tentando una ricomposizione del mondo. E se le parole si sono spogliate delle loro vesti più lussuose, rinunciando ad effetti speciali e a parrucche audaci, anche il linguaggio musicale si converte ad un regime di austerità sostanziale e formale, abbandonando un sentiero melodico ormai abusato e percorrendo strade secondarie, sterrate e irte di vicoli ciechi. I due blocchi etico-musicali rilevati da Adorno nella Filosofia della musica moderna non sono che la semplificazione (apparente) di ciò che resta dell’arte dopo lo squarcio mostruoso della seconda guerra mondiale. Auschwitz rappresenta il punto di non ritorno, ma anche il punto di partenza per una nuova sperimentazione dagli esiti assolutamente inattesi. Due mondi distinti, Strawinsky e Schöenberg: da un lato l’universo sonoro totalitario che schiaccia e reprime l’individuo, limitando le sue libertà, dall’altro la solitudine dell’uomo inerme che deve confrontarsi con “tutta la tenebra e la colpa del mondo”. E nel mezzo, un linguaggio musicale che risorge dalle sue stesse ceneri e crea nuove combinazioni, nuove possibilità. Si fa largo la deframmentazione melodica, l’uso della dissonanza sospesa, irrisolta; l’incedere seriale, la variazione ritmica, l’estremizzazione degli effetti dinamici. Ogni elemento strutturale esprime l’esigenza di ricostruzione, la ricerca di un equilibrio perduto che non potrà mai essere ritrovato e di cui, nel mondo dei sopravvissuti alla Storia, non resta che qualche traccia luminosa e minima da utilizzare come portafortuna.

Invito alla prima del Quatuor pour la fin du Temps, realizzato da un detenuto dello Stalag di Görlitz. Foto di Badinguet 42CC BY-SA 4.0

Lo spazio bianco è il silenzio di una pagina vuota, di una pausa di semibreve su cui aleggia un punto coronato. Sospensione ad libitum, senza fine. Silenzio denso di presagi e di occasioni perdute, di omissioni e pudori. Silenzio che è bocca spalancata avida di sangue. Ma anche bocca ammutolita di fronte alla possibilità, pur remota, di redenzione. La sequenza del Quatuor pour la fin du Temps di Olivier Messiaen appare dominata da un’idea sinestetica in cui si fa labile il confine tra suono e colore, luce e riflesso. Scandita in otto episodi musicali, che ripercorrono le tappe di un viaggio metafisico verso altezze siderali, si apre con la liturgia del cristallo: «Entre 3 et 4 heures du matin, le réveil des oiseaux: un merle ou un rossignol soliste improvise, entouré de poussières sonores, d’un halo de trilles perdus très haut dans les arbres. Transposez cela sur le plan religieux: vous aurez le silence harmonieux du ciel»1. Improvvisi bagliori luminosi, piume leggere che si librano in volo, un senso di leggerezza che si proietta verso il cielo. Suoni trasparenti, impalpabili, che scivolano tra le dita, oltrepassando i limiti della battuta, irrefrenabili, liquidi. Il ritmo sincopato, singhiozzante, tenuto a bada dal pianoforte sorregge il canto del violoncello, che si intreccia disarmonico con il violino e il clarinetto. Quartetto anomalo di destini che si incrociano nello Stalag VIII A di Görlitz, dove nel 1941, davanti a un pubblico di prigionieri del campo di lavoro, si tiene la prima esecuzione dell’opera, rielaborata e in parte composta durante la prigionia e adattata all’organico disponibile. La Préface di Messiaen contiene numerosissime indicazioni: scelte stilistiche, musicali, filosofiche, teologiche; citazioni a cui l’autore si è ispirato nel comporre e progettare la struttura dell’opera. Ciò che colpisce è la presenza di indicazioni cromatiche, visive, immaginifiche ben lontane dalla mera disquisizione tecnico-compositiva. Ancora una volta ritorna l’immagine della pietra, con la sua concretezza materica. «Musique de pierre, formidable granit sonore; irrésistible mouvement d’acier, d’énormes blocs de fureur pourpre, d’ivresse glacée»2. Il suono prende forma di acciaio, di granito, di ghiaccio. Il furore si colora di rosso vivo, il canto si eleva ad altezze inimmaginabili: il clarinetto, l’uomo che cerca il suo paradiso, si invola; il pianoforte tenta invano di bloccarne l’ascesa, gli archi si tendono nello sforzo di sfuggire alla tirannia del ritmo incalzante che straripa, inonda, travolge. E ancora gli uccelli, con le loro piume leggere, traccia infinitesimale, frammento di vetro trasparente. Ma c’è qualcosa di più potente della musica ed è l’assenza, l’anello che non tiene, la tessera mancante che non permette di completare il mosaico: quello che emerge dall’analisi della partitura è la sua struttura lipogrammatica. Ci sono note che non vengono suonate mai, neppure mai scritte. Una contrainte metaforica, determinata dalla contingenza (nel campo mancavano determinate chiavi e c’era penuria di corde per cui gli strumenti erano necessariamente ‘monchi’), che diviene emblema del mondo contemporaneo. Il lipogramma è qualcosa di perduto, mancante, assente. È la cicatrice, il buco, la voragine. È il silenzio bianco di una pagina su cui nessuno ha ancora osato scrivere.

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Foto di cocoparisienne

1 O. Messiaen, Préface au Quatuor pour la fin du temps, 1941. «Tra le tre e le quattro del mattino, il risveglio degli uccelli: un merlo o un usignolo solista improvvisa, circondato da polveri sonore, da un alone di trilli perduti tra le alte fronde degli alberi. Spostandosi sul piano religioso si otterrà il silenzio armonioso del cielo». (traduzione mia).

2 Ivi, «Musica di pietra, formidabile granito sonoro; irresistibile movimento d’acciaio, di enormi blocchi di furore porpora, di ebbrezza ghiacciata». (traduzione mia).

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