Geografie di Antonella Anedda – recensione
Con il suo ultimo libro, Antonella Anedda pronuncia il suo sì all’energia ancestrale della metamorfosi: Geografie – questo il titolo del suo recente lavoro pubblicato da Garzanti – è una raccolta di prose poetiche, di visioni da centellinare per allenare lo sguardo a cogliere i segreti dell’invisibile e il mistero indecifrabile del divenire. L’attraversamento che queste pagine incoraggiano è duplice: da un lato, esso si riferisce a un viaggio verso lo spazio esterno, e propone dunque un movimento da compiere nelle terre dell’esteriore; dall’altro lato, inevitabilmente esso implica la necessità di accogliere dentro di sé suggestioni e orizzonti che i luoghi percorsi spalancano – un moto, questo, che agisce sui cardini più intimi dell’io, sulle sue vaste profondità.
Suona dolente la voce che qui intona il suo canto di saggezza e che con grazia si accorda alle domande della natura, ai ritmi che suggerisce, alle melodie che dal tempo prima del tempo propaga. Con accuratezza l’autrice seleziona, si avvicina, osserva, analizza i dettagli; poi, con eleganza, compie quei passi indietro necessari per contemplare la complessità e restituire una visione d’insieme. Anche così si percepisce la maturità di questo sguardo che non si accontenta, che indaga con intelligenza, che si confronta in maniera dialettica con il particolare e l’universale.
Questa tensione, che anima e sostanzia la struttura del volume, finisce per investire anche la questione della lingua, intesa nella sua autenticità sorgiva: ogni luogo visitato accende la fantasia poetica di Anedda, facendo germogliare parole, espressioni immaginifiche di cui l’autrice riscopre l’etimologia e il portato simbolico, in uno slancio inesausto che la spinge ogni volta a ricondurne il valore alla sua esperienza di vita. Il discorso intreccia magistralmente dimensione privata e pubblica, memoria personale e istanze collettive: il ricordo di viaggi, strade percorse, mari solcati si dischiude per incanto e lascia affiorare interrogativi che hanno a che fare con l’umano, urgenze che incalzano questo tempo e che, per la loro potenza, sanno poi trascendere nell’assoluto. I mutamenti che l’io narrante (o poetante) rintraccia e porta alla luce non sono soltanto quelli reconditi dell’io, ma anche quelli lenti della geologia, quelli burrascosi della politica e quelli, ormai tragicamente inarrestabili, che interessano il clima.
Chi scrive registra ferite e contraddizioni, terrore e sgomento. Mitilene è il luogo in cui risplende la luna di Saffo, ma è anche lo spazio impoetico in cui oggi i profughi affermano il loro diritto a esistere, testimoniano con la loro condizione la necessità della fuga. Chi osserva, acquisisce consapevolezza, e a suo modo cambia, perché a mutare è innanzitutto il suo sguardo. E in questo modo impara, per esempio, che per non confinare un territorio insulare al concetto di isolamento bisogna esercitare vista e linguaggio: solo così si potrà superare il limite della solitudine suggerito dall’idea di isola e cogliere anzi la sua natura esposta, proiettata verso il continente taumaturgico, salvezza che contiene. E qui emergono le letture, il dialogo ideale con voci altre, che fanno ribollire il testo fino a renderlo materia incandescente e risonante.
«Cosa sono i luoghi? Come li portiamo dentro di noi? Come ci modellano la mente? Mentiamo ricordandoli. (…) A volte spaventano a morte senza motivo. Il motivo è proprio la morte. Se riflettiamo sono insostenibili. Qualcosa mentre guardi e ami quel determinato luogo stringe la gola. Tutto grida: dove nascondersi?» Le considerazioni dense e penetranti di Antonella Anedda non lasciano scampo: confrontarsi con gli interrogativi che con acutezza si pone significa sentirsi inchiodati all’improrogabilità di quelle domande, significa dir di sì a un proposito indifferibile, la ricerca di un senso. Traguardo irraggiungibile, probabilmente, ma al quale non si può non tendere.
«Dove nascondersi dal pensiero che non smette di rappresentare, mostrare, intrecciare, infeltrirsi. La difficoltà di uscire da sé stessi contempla la necessità di farsi strada tra la moltiplicazione delle immagini, del racconto ininterrotto, delle rappresentazioni del tempo, nel tempo», riflette lucidamente l’autrice a proposito del terrore, il panico che ci fa sentire smarriti come in una foresta. E conclude: «per questo al tempo del tempo meglio contrapporre gli spazi senza tempo, azzerare la memoria contro la sua potenza. Alla spirale sostituire la distesa, la prospettiva, l’orizzonte. Alla storia, appunto, la geografia». Ed ecco spiegata l’intenzione del titolo, che consiste in uno slancio verso l’alterità, verso mondi da esplorare, verso sempre nuovi cominciamenti che, al netto dell’inesorabile sgretolarsi, non esauriscano mai il regno molteplice delle possibilità.

Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.