Quando parliamo della materia dei nostri studi, siamo portati a rivendicarne con vigore la bellezza e l’unicità, quasi a riaffermarne la dignità rispetto ad altre discipline. È una trappola in cui talvolta sono caduti anche grecisti e latinisti, appassionatamente impegnati nella battaglia che, nel volgere delle diverse stagioni, li ha visti difendere l’utilità dell’oggetto delle loro ricerche. Ebbene, dimenticate le tronfie e compiaciute esaltazioni del mondo classico. Mettete da parte l’immagine dell’antico come scrigno inaccessibile da custodire al riparo dal tempo e dai suoi vorticosi turbinii. Giorgio Ieranò, in un recente volume edito da Marsilio, propone un’immersione avventurosa tra tradizione e modernità, nel magma ribollente del linguaggio: Le parole della nostra storia. Perché il greco ci riguarda – questo il titolo del saggio – è in effetti un’indagine svolta all’insegna dell’autenticità, un’analisi onesta che, lungi dal celebrare la presunta purezza della lingua, ne attesta lucidamente le contaminazioni, mettendone così in evidenza la perdurante vitalità.

Apollo citaredo. Marmo, parti originali (torso e gamba destra): copia romana della prima metà di I sec. d.C. da un originale ellenistico. Molto restaurato nel XVII sec. da Ippolito Buzzi (1562–1634): testa (dal tipo Apollo del Belvedere), collo, spalla destra, braccio sinistro e lira, gamba sinistra e mantello. Roma, Palazzo Altemps, Collezione Ludovisi, Inv. 8594. Foto © Marie-Lan Nguyen / Wikimedia Commons, in pubblico dominio

Non una trattazione erudita sull’etimologia delle parole ancora in uso, dunque, ma la storia avvincente della loro tradizione, tra scarti quasi impercettibili e tradimenti profondi, per rispondere alla domanda: siamo solo eredi o anche inventori? Ieranò orienta il suo (e il nostro) cammino secondo quattro cardini particolarmente significativi – l’anima, il sacro, la cultura, la politica – per poi approdare alle voci di recente conio: per esprimere concetti che i greci non avevano elaborato, i moderni hanno infatti plasmato termini nuovi a partire da parole antiche. «Gli antichi non avevano utopie, non soffrivano di nostalgia, non erano xenofobi, ma neppure ecologisti. O forse lo erano, pur non avendo le parole per dirlo? Ma può esistere un concetto, o un sentimento, prima che nasca la parola per designarlo? Utopia, nostalgia, xenofobia, ecologia sono tutti termini inventati dai moderni, tra il Rinascimento e gli inizi del XX secolo. […] La missione che ha portato gli americani nello spazio si chiamava “Apollo”. E anche agli avventurosi pionieri dei viaggi spaziali non potevamo che attribuire un nome greco. Li abbiamo chiamati i “navigatori delle stelle”: gli astronauti.»

Missione Apollo, Buzz Aldrin sulla luna. Giorgio Ieranò mostra i moderni abbiano plasmato termini nuovi a partire da parole antiche. Come  Foto NASA modificata, in pubblico dominio

D’altra parte, sono numerose anche le parole greche che usiamo ancora, attribuendo loro, però, un significato che non coincide precisamente con quello originario: un caso emblematico è quello rappresentato dall’equivoco cui dà adito la discussione intorno alla “democrazia” di cui ci vantiamo essere eredi, una nozione complessa e ambigua, nel presente quanto nel passato; un altro esempio è costituito dal valore primario di “tempo libero” relativo al greco scholè (da cui deriva il termine “scuola”), che testimonia la distanza tra il nostro modo di intendere l’educazione e quello in vigore presso gli antichi – «un momento di libertà in cui si può, anzi si deve, essere affrancati dall’obbligo del lavoro» (nulla di più lontano dalle famigerate ‘alternanze’ che affliggono il contemporaneo).

Ieranò conclude la sua illuminante e vibrante ricerca, che segue con destrezza il dispiegarsi della nostra storia, dando spazio alla parola che sta tragicamente dominando i nostri giorni: epidemia. L’autore, da par suo, sgombra immediatamente il campo da false credenze, smaschera quella tendenza a tirare «in ballo i soliti greci come comodo paravento». Né Omero, né Sofocle, né Tucidide hanno mai usato la parola epidemìa, pur tratteggiando il racconto di devastanti pestilenze. «Dietro i profili della Milano o della New York del 2020, minacciate e svuotate dalla pandemia di Covid, ci è sembrato all’improvviso di cogliere l’ombra sinistra del campo acheo o della città di Tebe, colpite dalla punizione di Apollo. Ma i greci non erano uguali a noi. E, se anche le parole sono, o possono sembrare, le stesse, i significati sono cambiati.»

La lettura del saggio suscita riflessioni quanto mai attuali, non solo sull’uso che si è fatto delle parole in questo tempo sospeso, ma anche intorno al rapporto tra linguaggio e realtà, fermo restando il preoccupante impoverimento lessicale che ormai fiacca il modo in cui ci esprimiamo. Lo strumento linguistico è davvero in grado di plasmare il mondo, di incidere sulla nostra quotidiana condotta, riformando la mentalità di cui siamo portatori e invertendo traiettorie storicamente assodate? O si limita a essere lo specchio che riflette l’universo che abbiamo costruito, restituendoci senza pietà alcuna le contraddizioni in cui siamo imprigionati? Lo studio di Ieranò, oltre a presentare una rassegna coltissima di parole e immaginari, ci esorta a essere cittadini consapevoli di questo tempo, a non rinunciare a porci interrogativi riguardo alle questioni tuttora insolute che riguardano l’umano e che oggi tornano con prepotenza a chiedere la nostra attenzione.

Giorgio Ieranò greco parole
La copertina del saggio Le parole della nostra storia. Perché il greco ci riguarda, di Giorgio Ieranò, pubblicato da Marsilio Editori (2019) nella collana Nodi

Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.

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