Il meccanismo della bellezza nel canto della guerra: l’Iliade di Omero resa in prosa da Alessandro Baricco
In tempi in cui si cerca di evitare con ogni mezzo la guerra, eppure inconsapevolmente si finisce sempre per alimentarla, quanto può giovare la lettura attenta di un monumento alla guerra quale l’Iliade?
Forse è quanto si è chiesto Alessandro Baricco quando, nel 2004, con la sua rielaborazione in prosa dell’Iliade di Omero, si è messo nei panni di un lettore moderno e ha creato un sistema per cui l’immedesimazione in una realtà sentita troppo spesso come lontana potesse risultare più facile e la comprensione del poema più efficace.
Fondamentali in tal senso si rivelano fin da subito gli interventi personali dell’autore, segnati in corsivo nel testo e che mirano, a quanto pare, a esplicitare qualcosa che in vario modo nell’Iliade è soltanto intuibile: potremmo ravvisare in ciò un tentativo di dare una struttura che in qualche modo Baricco considera assente.
È quasi come se ogni episodio avesse in sé caratteri per lo più troppo poetici che lo scrittore esige di smorzare e lo fa servendosi di periodi brevi, frasi semplici, quali non ci sogneremmo mai di trovare nel testo omerico. Lo si potrebbe considerare, allora, un modus operandi funzionale alla ricezione in vista di uno scopo ben preciso che fa da filo rosso a ogni aggiunta personale al testo.
Se ci soffermiamo, ad esempio, sul monologo di Patroclo che, già cadavere, ripercorre il ricordo degli ultimi momenti della sua vita, l’incipit, costituito proprio da una breve descrizione opera dello scrittore contemporaneo, è illuminante.
“Il mio nome è Patroclo, figlio di Menezio. Anni fa, per aver ucciso un ragazzo come me, dovetti lasciare la mia terra, e, con mio padre, arrivai a Ftia, dove regnava il forte e saggio Peleo. Il re aveva un figlio: si chiamava Achille. Circolavano strane leggende su di lui. Che per madre aveva una dea. Che era stato allevato senza conoscere il latte di donna, nutrito solo con interiora di leone e midollo di orsi. Che sarebbe diventato il guerriero senza il quale Troia non sarebbe mai stata conquistata. Oggi le sue ossa sono mescolate con le mie, sepolte nell’isola bianca. La sua morte gli appartiene”.
Quando Patroclo deve parlare di Achille e della sua sorte, Baricco gli fa dire:
“Oggi le sue ossa sono mescolate alle mie” .
In tali parole è nascosto qualcosa che solo soffermandosi sul significato del verbo “mescolare” si può arrivare a comprendere appieno: il destino di due uomini che diventano uno solo e che, in qualche modo, assicura una gloria eterna, una forma di bellezza che va al di là della prospettiva terrena in cui il sacrificio di Patroclo coincide semplicemente con la morte.
È una scelta consapevole, quella di Patroclo, che non ha nulla a che fare con gli dèi e che, per questo, si carica ancor di più di valori etici tutti umani: a Patroclo è piaciuto morire in questo modo, è il giudizio finale sulla propria vita che Baricco attribuisce all’eroe stesso e che, tuttavia, pone prima del racconto vero e proprio, quasi a voler dare una chiave di lettura da applicare a tutto il testo.
Così, in effetti, diviene facile a questo punto scorgere in tutto il resto del racconto di Patroclo un certo orgoglio di fondo che trova il culmine nel momento in cui si arriva a uno scarto decisivo: “ E Achille mi chiamò “ che per certi versi ricalca, anche grazie alla posizione enfatica della frase che nel testo occupa un solo rigo, quasi l’idea di una chiamata divina e di una conseguente investitura.
Nell’Iliade di Baricco, però, gli dèi non ci sono. Quasi come se, scegliendo di seguire le orme di György Lukács e del suo romanzo come “epopea del mondo disertato dagli dei” , Baricco ne ascrive la categoria, affidando al solo uomo il suo destino ultimo.
Tutti gli elementi finora individuati permetterebbero, dunque, di inserire Patroclo tra i personaggi positivi. Eppure se c’è un elemento di debolezza nell’analisi che Baricco fornisce del personaggio esso è da ricercare nelle sue parole finali, quando dichiara esplicitamente che il suo lavoro vuole promuovere la costruzione di una nuova bellezza, che dipenda dalla guerra, ma che da essa allo stesso tempo rifugga in cerca di pace:
“poter cambiare il proprio destino senza doversi impossessare di quello di un altro”.
Ma non è proprio ciò che fa Patroclo, scendendo in campo al posto di Achille? Assume su di sé il destino di un altro e ne paga le evidenti conseguenze.
Quella di Patroclo, allora, è o non è la gloria cui aspirare? Egli è o non è riuscito a costruire quella bellezza che le ultime parole da lui pronunciate nel monologo fondano sulla promessa di salvezza portata a termine?
Se nell’Iliade la parola è l’arma con cui gli eroi congelano la guerra, ritardandola, quella di Baricco si rivela ugualmente un’arma a doppio taglio che, in qualche modo, sospende un giudizio certo sulla stessa figura di Patroclo. In ciò si riscontra senz’altro l’originalità di un pensiero che prende posizioni avverse alle più diffuse secondo le quali il ruolo di Patroclo si rivela fondamentale in senso positivo.
Qui, invece, Patroclo finisce per diventare solo uno dei tanti eroi che tengono in vita il meccanismo della bellezza e del “canto” della guerra.