La quiete nella non speranza e il mondo offeso: Elio Vittorini

L’espressione “mondo offeso”, ancora diffusa nel linguaggio quotidiano in alcune aree italiane, oramai rappresenta un unico sintagma che identifica un topos letterario e insieme un universo di senso legato alle opere dello scrittore siciliano Elio Vittorini, e in maniera più generale a una condizione di miseria e di infelicità comune alla società di ogni tempo.

È in Conversazione in Sicilia1, uno tra i suoi più noti romanzi, che l’autore siracusano cita più volte il termine mondo qualificandolo – o forse dovremmo dire meglio “squalificandolo” – con l’aggettivo offeso. Non lo introduce all’inizio della sua opera, ma sceglie di arrivarci attraverso un percorso semantico e metaforico particolarmente significativo, caratterizzato da antitesi e ossimori.

Conversazione in Sicilia Elio Vittorini
La copertina del romanzo Conversazione in Sicilia, di Elio Vittorini, edito da Bompiani. Immagine di Antonella Alberghina, licenza d’uso

Siamo in pieno regime fascista, in particolare le coordinate temporali sono quelle della guerra civile in Spagna durante la dittatura di Francisco Franco e i conseguenti aiuti dell’Italia al dittatore.

Il protagonista della vicenda intorno al quale ruotano gli eventi è Silvestro Ferrauto, un tipografo milanese dalle origini siciliane. È lui che parla in prima persona e manifesta il suo stato d’animo a cui si accorda perfettamente la stagione invernale:

Io ero quell’inverno in preda ad astratti furori,

queste le prime parole pronunciate da Silvestro, che cerca di spiegare il suo stato d’animo,

[…] Ma bisogna dica che erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto.

La domanda che viene da porsi è: “Come fanno dei furori a non essere eroici e vivi?”
Il termine stesso induce a pensare a qualcosa che muovendo la coscienza implica l’attivazione di vitalità e eroismo. Quelli di Silvestro invece no; sono piuttosto astratti proprio per il fatto di non concretizzarsi in nessuna immagine o significante preciso, e di rimanere vaghi, incerti, labili, sconosciuti.

Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che entrava nelle scarpe.

La stagione è compagna di questa sensazione, ne diviene complice attraverso la pioggia e la sua azione. Contrariamente alla valenza purificatrice, mondante e rasserenatrice da sempre attribuitele, la pioggia qui non ha un valore positivo; la sua frequenza e insistenza sulle scarpe rotte intensifica l’aggravarsi della situazione difficile.

e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

La vita per il protagonista è sogno e quiete. Anche qui entrambi i termini non identificano qualcosa di positivo e confortante, al contrario, con l’attributo sordo e la specifica non speranza, diventano metafora di stagnazione e rassegnazione.

Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non avere febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla.

Continua a descrivere il suo malcontento, stavolta attraverso la negazione del contrario, la litote non avere febbre di fare qualcosa.

La voce narrante prosegue con la descrizione della quiete come assenza di percezioni, di vita vissuta, di ricordi, di passato, di emozioni.

Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa essere felici, 

[…] come se mai avessi avuto un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne
[…] Altri quindici anni erano passati dopo quelli, a mille chilometri di là, dalla Sicilia e dall’infanzia, e avevo quasi trent’anni, ed era come se non avessi avuto nulla, né i primi quindici, né i secondi, ma mi agitavo dentro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe.

Ebbene, il romanzo ha inizio con un’ampia descrizione dello stato di passività e di inerzia in cui si trova Silvestro, il quale sente crescere in sé dei furori, degli impulsi verso nuovi doveri per il genere umano perduto, una reazione ancora in erba, ma che porta con sé i germi di ribellione e di rivalsa e lo induce a compiere un viaggio in Sicilia, il luogo della sua infanzia.

un piffero suonava in me e smuoveva in me topi e topi che non erano precisamente ricordi. Non erano che topi, scuri, informi, trecentosessantacinque e trecentosessantacinque, topi scuri dei miei anni, ma solo dei miei anni in Sicilia, nelle montagne, e li sentivo smuoversi in me, topi e topi fino a quindici volte trecentosessantacinque, e il piffero suonava in me, e così mi venne una scura nostalgia come di riavere in me la mia infanzia.

La nostalgia per i suoi anni trascorsi in Sicilia assume l’immagine dei topi scuri, che si smuovevano in folla dentro di lui, riportando alla memoria i suoi quindici anni, quegli stessi topi che ora il piffero suonando risvegliava.

Da qui in poi il racconto assume una dimensione simbolica, favolosa, quella del viaggio del protagonista alla volta della Sicilia, mista a visioni oniriche. Tutti i luoghi e le persone incontrate rappresentano metaforicamente e allegoricamente i valori su cui fondare la rigenerazione della società e il riscatto del mondo offeso.

Elio Vittorini
Elio Vittorini (Milano, 1949). Foto di Federico Patellani, in pubblico dominio

Note:

1Conversazione in Sicilia fu pubblicato per la prima volta a puntate dalla rivistafiorentina Letterartura nel 1938-1939 e poi con il titolo di Nome e lagrime in un unico volume a cura di un piccolo editore, Parenti. L’edizione di Bompiani con il titolo di Conversazione in Sicilia risale al 1941.

Articoli correlati:

Il garofano rosso di Elio Vittorini. L’intenso: questo è il problema

Conversazione in Sicilia, capolavoro di Elio Vittorini

Write A Comment

Pin It