L’importanza del melodramma e di Giacomo Puccini nel ritratto di Michele Girardi
Giacomo Puccini. Tra fin de siècle e modernità, di Michele Girardi – recensione

la cover del saggio di Michele Girardi, Giacomo Puccini. Tra fin de siècle e modernità, con prefazione di Guido Paduano, edito da il Saggiatore (2024). Foto di Adele Porzia
la cover del saggio di Michele Girardi, Giacomo Puccini. Tra fin de siècle e modernità, con prefazione di Guido Paduano, edito da il Saggiatore (2024). Foto di Adele Porzia

Nel suo unico libro di viaggio, dal titolo Note invernali su impressioni estive, Fëdor Dostoevskij parla del borghese e, precisamente, del borghese francese. Ne fa un ritratto spietato: non è capace di altruismo o fratellanza, perché individualista e interessato solo al proprio tornaconto; scopo della sua esistenza è accumulare denaro, per poi vivere nel timore di perderlo. Infatti, il borghese odia i ladri sopra tutto e tutti. Adora l’eloquenza e la retorica ampollosa, perché priva di contenuti e ha, ad un certo punto della sua vita, bisogno di una casa con un orticello e un giardinetto, in cui passare le sue giornate.

Ad un certo punto della sua invettiva, lo scrittore russo rivela una connessione molto interessante tra questa classe sociale e il melodramma. Scrive che il borghese francese o, meglio, di Parigi

«ha bisogno di qualcosa di elevato, ha bisogno dell’ineffabile nobiltà, ha bisogno di sentimentalismo, e il melodramma tutto questo lo racchiude in sé. Senza il melodramma il parigino non può vivere. Il melodramma non morrà, finché vivo sarà il borghese» (F. Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, traduzione di Serena Prina, Feltrinelli, Milano 2020, p.114).

E, in effetti, Dostoevskij aveva ragione. Il melodramma era un genere borghese. Non è naturalmente nato come tale, ma è per forza di cose finito col diventarlo.

Infatti, il melodramma nasce grazie a degli intellettuali che, tra la fine del 500 e l’inizio del 600, decidono di recuperare il teatro greco e di riportarlo in auge. O, meglio, desiderano riadoperare l’idea che gli abitanti di Atene del V secolo avevano avuto, cioè quella di unire la musica alla parola.

La svolta si verificò nel momento in cui lo spettacolo d’opera giunse a Venezia, in una Repubblica, in uno «stato senza corte» (V. Coletti, Da Monteverde a Puccini. Introduzione all’opera italiana, Einaudi, Torino 2017, p.75), perché c’erano sì grandi famiglie, ma che non erano interessate ad avere l’esclusiva su questo teatro in musica e, quindi, lo trasformarono in spettacolo a pagamento, aprendolo ad un pubblico più vasto, cioè a chiunque poteva permettersi un biglietto. Dunque, ai borghesi.

All’inizio, il melodramma è un genere cortigiano. Nasce nella corte e vive nella corte, alla mercé dei nobili, che ne sono anche i finanziatori, oltre che i fruitori.

La svolta si verificò nel momento in cui lo spettacolo d’opera giunse a Venezia, in una Repubblica, in uno «stato senza corte» (V. Coletti, Da Monteverde a Puccini. Introduzione all’opera italiana, Einaudi, Torino 2017, p.75), perché c’erano sì grandi famiglie, ma che non erano interessate ad avere l’esclusiva su questo teatro in musica e, quindi, lo trasformarono in spettacolo a pagamento, aprendolo ad un pubblico più vasto, cioè a chiunque poteva permettersi un biglietto. Dunque, ai borghesi.

Con il tramonto dell’aristocrazia, chi allestiva un’opera lirica e vi prendeva parte, quale cantante o musicista, doveva puntare all’autosufficienza finanziaria e, quindi, far sì che i biglietti venissero acquistati.

E come si attirava questo pubblico? Attraverso la trama, che all’inizio era di argomento mitologico e poi si farà sempre più realistica fino a trattare, come aveva giustamente notato Dostoevskij, temi sentimentali. La storia era resa ancora più drammatica dai cantanti, detti “virtuosi”, e dalla musica, soprattutto dalle arie. Queste dovevano essere orecchiabili e in grado di arrivare anche ai non addetti ai lavori e a chi non si intendeva di musica, in modo che almeno il ritornello si canticchiasse nelle strade. Il borghese, inoltre, voleva veder rappresentato se stesso a teatro. Desiderava intrecci drammatici, fanciulle in pericolo, bei sentimenti e la mano del fato che agiva sulle vite degli uomini.

Quando Dostoevskij era in Francia, il melodramma era ancora nella sua fase romantica. Circa trent’anni dopo il viaggio dello scrittore, quindi negli anni ‘90 dell’800, il melodramma cambiò nettamente.

Compositori come Pietro Mascagni e Ruggero Leoncavallo non rappresentarono più la borghesia o, almeno, non solo. Grazie al Verismo, nasce il desiderio di mettere in scena e di vedere rappresentate storie di donne e uomini appartenenti al popolo.

la cover del saggio di Michele Girardi, Giacomo Puccini. Tra fin de siècle e modernità, con prefazione di Guido Paduano, edito da il Saggiatore (2024). Foto di Adele Porzia
la cover del saggio di Michele Girardi, Giacomo Puccini. Tra fin de siècle e modernità, con prefazione di Guido Paduano, edito da il Saggiatore (2024). Foto di Adele Porzia

Ad essere mostrati sono i problemi reali delle persone. Problematiche che non avevano più a che fare con il sentimentalismo e il pathos del periodo precedente. E Giacomo Puccini si inserisce in questa tradizione, per rinnovarla ulteriormente, come ben spiega Michele Girardi nel suo saggio, pubblicato recentemente ed edito da il Saggiatore, Giacomo Puccini. Tra fin de siècle e modernità.

Non solo porta i problemi del popolo al centro delle sue storie e predilige il realismo, pur conferendo importanza ai sentimenti dei personaggi, conferisce una maggiore importanza all’orchestra rispetto al libretto. E questo non è solo nuovo, ma addirittura rivoluzionario. È la musica a divenire il centro delle sue opere, come giustamente segnala Girardi con la sua lunga e dettagliata analisi dei pentagrammi delle arie più note del repertorio di Puccini.

Difatti, era solito modificare anche in maniera cospicua i libretti di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, suoi principali collaboratori, e li costringeva a lavorare a ritmi estenuanti, proprio perché non doveva essere la musica ad assecondare le battute dei personaggi, ma il contrario. Prendiamo il caso della Tosca, la cui prima rappresentazione si tenne al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio del 1900.

L’opera fu accolta dalla critica del tempo con numerosi dubbi e dissensi, anche a causa della musica. Parisotti sul Popolo romano scriverà che il problema della Tosca fosse «l’armonizzazione ardita, anche troppo qua e là» (M. Girardi, op. cit, p. 255) e troverà l’appoggio di altri giornalisti, ma chi ne fa una disamina di rilievo è Alfredo Colombiani, una delle migliori penne de Il Corriere della Sera.

Scrive, infatti, che Tosca non è propriamente un melodramma, perché

«nel melodramma […] i confini della musica sono assai meno ristretti dalle esigenze dell’azione rapida, incalzante, precipitosa».

E rileva che a dare questa valenza all’azione non sono tanto i dialoghi, quanto le musiche:

«le frasi, forzatamente frammentarie e brevi, devono invece spesso adattarsi a un dialogo rotto, lesto, concitato. Gli avvenimenti si succedono quasi tumultuariamente […] e la musica non può concedersi indugi» (M. Girardi, op. cit., p. 255).

Ciò che rende memorabili le sue arie più famose è proprio la potenza della musica, che subisce gli influssi dei suoi contemporanei, ma anche e soprattutto di Wagner, di cui è un grande estimatore sin da quando studia al conservatorio e da cui riprende il cosiddetto «cromatismo», un procedimento compositivo che consiste nell’utilizzo di suoni estranei alla scala diatonica e che riescono ad enfatizzare i momenti d’azione del dramma. Il cromatismo anticipa la dodecafonia di Schönberg.

Nel saggio, Girardi fa un breve e attento preambolo su quanto succede prima di Puccini, per poi raccontare il compositore, la sua tecnica compositiva e la rivoluzione che ha apportato al melodramma. Passa in rassegna le trame delle sue opere, l’origine dei suoi libretti, le storie che al compositore interessava mettere in scena. La cura che riserva ai sentimenti e all’introspezione dei personaggi. Parla dei suoi insuccessi e di come abbia reso memorabili donne come Madama Butterfly o Tosca.

Si sofferma anche sulla grande attenzione che il compositore riservava alle figure femminili; donne forti, dedite al sacrificio, ferme nei loro amori, come nei loro propositi. Sintomo di un profondo amore che Puccini, originario di Lucca, ha sempre nutrito nei confronti delle donne che ha conosciuto. Girardi non dimentica di parlare della moglie di Puccini, Elvira Bonturi, con cui il compositore non ha mai avuto un rapporto sereno se non all’inizio della loro relazione, forse a causa dei ripetuti tradimenti dell’artista, che viene presentato nelle sue luci e nelle sue ombre.

Il saggio non è solo destinato ad un pubblico di appassionati e di profondi conoscitori della musica e dell’opera, ma anche a chi non conosce assai bene Puccini e desidera approfondirne la conoscenza. Ne consegue un saggio ricco e completo, che vuol arrivare ad un pubblico vasto, senza tuttavia rinunciare alla complessità e alla precisione.

Forse il solo elemento su cui Dostoevskij si è sbagliato, in quelle sue impressioni di viaggio, riguarda l’eternità del melodramma che, a parer suo, sarebbe durato finché la classe borghese fosse esistita. Ahimè, questo non è accaduto, perché nel corso del ‘900 e, precisamente, nel 1950, il genere operistico ha perso quella importanza sociale che aveva.

E adesso a teatro è raro che vengano riproposte nuove opere liriche. Si prediligono quei melodrammi che, invece, hanno fatto la storia, ma che ormai appartengono ad un passato lontano.

Eppure, non possiamo comunque dimenticare che Giacomo Puccini, considerato successore di Verdi, ha segnato la storia di questo genere. Tanto che la sua Bohème e la sua Madama Butterfly sono, tutt’oggi, tra le opere più rappresentate al mondo.

Foto di Adele Porzia

Quello che personalmente ho apprezzato molto del saggio di Girardi è la sua chiarezza espositiva, oltre che l’esaustività con cui ha presentato la musica, la persona di Puccini e l’epoca storica nella quale ha vissuto. Ha reso comprensibile l’evoluzione della tecnica compositiva del musicista lucchese, attraverso le numerose immagini di pentagrammi e la trascrizione di intere parti del libretto. E senza prescindere da una minuziosa ricerca storica, dalla spiegazione di quanto stesse accadendo nella musica del periodo e di quali fossero gli avvenimenti più importanti nella vita di Puccini.

I suoi viaggi, i temi delle sue opere e l’accoglienza, alle volte fredda, dei suoi contemporanei, ancora troppo legati a Verdi e alle sue arie. E questa minuziosa disamina è resa possibile dai lunghi studi di Michele Girardi, che insegna Musicologia e Storia della musica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, ed è considerato uno dei massimi esperti di Puccini.

Davvero una bellissima e completa lettura, che non posso che consigliarvi e che vi permetterà di conoscere Giacomo Puccini in maniera più completa.

la cover del saggio di Michele Girardi, Giacomo Puccini. Tra fin de siècle e modernità, con prefazione di Guido Paduano, edito da il Saggiatore (2024)
la cover del saggio di Michele Girardi, Giacomo Puccini. Tra fin de siècle e modernità, con prefazione di Guido Paduano, edito da il Saggiatore (2024)

Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.

Nata a Bitonto nel ’94, ha studiato Lettere Classiche e Filologia Classica. Nel 2021 si è laureata in Scienze dello Spettacolo. Giornalista Pubblicista, collabora con più testate online. Attualmente frequenta il master in Critica Giornalistica alla Silvio D’Amico. I suoi interessi e studi riguardano la letteratura, il cinema e il teatro.

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