Poesia e sopravvivenza: il mondo di Alda Merini

‘Sono nata il ventuno a primavera

ma non sapevo che nascere folle,

aprire le zolle

potesse scatenar tempesta.

Così Proserpina lieve

vede piovere sulle erbe,

 sui grossi frumenti gentili

e piange sempre la sera.

Forse è la sua preghiera’[1]

Nasce il 21 marzo 1931, in una casa milanese, Alda Merini, sintetizzando in parole quello che sarà il suo percorso di vita, divisa tra la poesia e la realtà. Emarginata prima, esaltata poi la sua vita è stata un continuo oscillare tra il rifiuto e l’accettazione di una società che faticava a comprendere la sua eccentricità creativa. Forse converrebbe iniziare proprio da qui, dalla sua eccentricità, richiamando all’immagine di un’artista sempre “diversa”, quasi alienata e sregolata ma, al tempo stesso, straordinaria. In lei, la poesia e la follia sono una trappola rischiosa, un binomio che vive sempre come una promessa indispensabile a sé stessa e alla sua sopravvivenza. Ce lo confermerà anche Giorgio Manganelli nella prefazione scritta per L’Altra Verità, Diario di una diversa:

“Grazie alla parola, chi ha scritto queste pagine non è mai stata sopraffatta, ed anzi non è mai stata esclusa dal colloquio con ciò che apparentemente è muto e sordo e cieco; la vocazione salvifica della parola fa sì che il deforme sia, insieme, sé stesso e la più mite, indifesa e inattaccabile perfezione della forma. Solo angeli e dèmoni parlano lo stesso linguaggio, da sempre.”[2]

il libro di Alda Merini, L’Altra Verità, Diario di una diversa, edito da Rizzoli, BUR contemporanea (2007). Foto di Cristina Stabile

Vita e poesia si fondono in Merini in un’armonia profonda e indivisibile, come un filo invisibile che unisce ogni esperienza, persino quella delle mura del manicomio, in una continua difesa della sua identità, salvaguardata e riaffermata solo attraverso l’atto poetico. Per Merini, la poesia non è una scelta, ma una forza che la travolge:

“Io la poesia non l’ho cercata, è arrivata. Mi ha invasa, mi ha posseduta e io non l’ho abortita. La poesia non è un passatempo. Scrive perché è obbligato, il poeta. Se non scrive, muore. Ma a volte muore anche quando scrive, perché nei versi c’è un infinito dolore. Grazie alla poesia ho conosciuto l’universo anche senza comprenderlo, però l’ho catturato.”[3]

Foto di Cristina Stabile

Il rapporto di Merini con la poesia è totalizzante e viscerale. È attraverso i versi che si apre al mondo, con un’espressione immediata e diretta, non mediata da elaborati processi interiori. Di sé stessa conosce una verità unica e fondamentale: è una poetessa, e in lei la poesia “accade” come un destino ineluttabile, un dono che non si può rifiutare.

“La poesia è una delle tante manifestazioni della vita. È un modo di parlare… è un modo di mascherarsi. Può essere una dignità che non si ha… il poeta deve parlare, deve prendere questa materia incandescente che è la vita di tutti i giorni e farne oro colato. La poesia educa il cuore, la poesia fa la vita… Sono felice di potere dichiarare a tutti che il peccato è scivolato su di me come l’acqua sulla pietra del fiume. La pietra è sempre nel letto, apparentemente muta ma levigata e liscia, ed è intoccabile sia dalla pioggia che dal vento. E soprattutto, la pietra del fiume, come la poesia, non potrà mai morire.”[4]

Per Merini, la poesia è una forma di vita e una resistenza che si nutre dell’esistenza stessa, trasformando il dolore in bellezza e rendendo eterna una voce che persiste, imperturbabile, nel flusso della vita. Diventa un qualcosa che nasce da una sofferenza indicibile, una dolorosa mescolanza di esperienze come le sedute di elettroshock, la somministrazione di psicofarmaci, episodi di violenza domestica e un rapporto complesso e conflittuale con la madre, cui attribuiva molti dei suoi turbamenti e che rappresentava, agli occhi della poetessa, il rigido mondo borghese e fascista.

Alda Merini poesia
Foto di Cristina Stabile

Questo spirito indomabile trova piena espressione nei suoi scritti, in particolare in L’altra verità. Diario di una diversa, dove Merini ci offre una testimonianza diretta della vita nel manicomio, fornendo una visione cruda dell’Italia degli anni Settanta. Questo era un periodo in cui l’internamento era ancora una realtà comune, prima che la legge 180 del 1978, la cosiddetta “legge Basaglia”, imponesse la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici. Pino Roveredo, scrittore e operatore sociale di Trieste, ha descritto così l’ambiente dei manicomi:

“Io, come la signora Merini, il manicomio l’ho conosciuto, vissuto, subito, ed era un manicomio con le mura alte, i portoni pesanti, le bastonate delle infermiere, i farmaci potenti come un martello, e con tutte le infamità di chi esercita un “mestiere” e potere, scordandosi il cuore fuori dalla coscienza.”[5]

Le parole di Roveredo rispecchiano la realtà umiliante e brutale che Merini racconta nel Diario. Tra le pagine più toccanti del Diario, emerge la descrizione dell’attività del bagno, momento di mortificazione del corpo, particolarmente per le pazienti donne.

“Al principio del ’65 quando ancora le leggi erano molto restrittive, ai malati era consentito così poco che nemmeno gli si dava la libertà nel lavarsi. […] Allora si ricorreva ad un mezzo coercitivo. Venivamo tutti allineati davanti a un lavello comune, denudati e lavati da pesanti infermiere che ci facevano poi asciugare in un lenzuolo eguale per capienza a un sudario, e per giunta lercio e puzzolente. Alle più vecchie facevano tremare le flaccide carni e così, nude come erano, facevano veramente ribrezzo. La prima volta che dovetti sottostare a questa rigida disciplina svenni, e per lo schifo, e perché ero così indebolita dalla degenza che non mi reggevo più in piedi. […] Si veniva fuori da quello strano inferno già stordite, con la riprova che la nostra demenza rimaneva un fatto inspiegabile e che non avrebbe avuto nessuna verità razionale. Poi ci allineavano su delle pancacce sordide, accanto a dei finestroni enormi, e lì stavamo a guardare per terra come delle colpevoli, ammazzate dalla indifferenza, senza una parola, un sorriso, un dialogo qualunque.”[6]

Poche pagine più avanti, la Merini terrà a sottolineare che nell’ambito degli istituti psichiatrici, la struttura del Paolo Pini era considerata un fiore all’occhiello proprio per lo svolgimento del momento dell’igiene. Tuttavia, ciò che più le preme è mettere in luce la condizione umiliante a cui i malati venivano sottoposti.

“Provi a piangere con le mani come i reclusi alle grate dei manicomi.”[7]

È questa una delle tante frasi sentenziose – quasi lapidarie – che ci lascia la poetessa, ritraendo in parole povere l’umiliante realtà degli ospedali psichiatrici, dove le grate determinano un confine tra che non ha suono né lacrime. I malati sono solo mani appese che manifestano un dolore disperato e isolato rinchiuso tra le mura del manicomio. Questo mondo, rinchiuso e distante dalla realtà esterna, ha negato ai pazienti il diritto di dignità che la società contemporanea, col tempo, avrebbe cominciato a riconoscere loro, grazie al progresso della scienza psichiatrica e soprattutto alla legge 180 del 1978, la “legge Basaglia”, ispirata dal lavoro di Franco Basaglia e approvata nel 1978, che segnò una svolta epocale per la psichiatria italiana: essa chiuse definitivamente i manicomi e favorì il reinserimento sociale dei pazienti psichiatrici, riconoscendo il loro valore umano e il diritto alla dignità. Tuttavia, per Merini, il manicomio divenne anche il luogo in cui la sua voce trovò espressione e che restituisce alla carta la sua testimonianza e fa della parola il mezzo più efficace di comunicazione.

Foto di Cristina Stabile

Ricoverata per la prima volta nel 1964, a seguito di gravi crisi successive alla morte della madre e alle incomprensioni coniugali, Merini si trovò improvvisamente intrappolata in un labirinto dal quale avrebbe fatto molta fatica ad uscire. Per lei, il manicomio fu al contempo luogo di sofferenza e ispirazione, capace di alimentare quella vocazione poetica che considerava un dono ineluttabile e indomabile.

“Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire. Improvvisamente, come nelle favole, tutti i parenti scomparvero. La sera vennero abbassate le sbarre di protezione si produsse un caos infernale.”[8]

il libro di Alda Merini, L’Altra Verità, Diario di una diversa, edito da Rizzoli, BUR contemporanea (2007). Foto di Cristina Stabile

Fin dalla tenera età, le sue inclinazioni caratteriali la portavano ad una strana tendenza all’isolamento e una spiccata sensibilità e provare un ambiguo sentimento verso la figura materna a cui attribuisce tutti i suoi disturbi successivi. In adolescenza, l’indole singolare della Merini la porta a eventi patologici gravi: soffrirà di anoressia alla quale seguirà una forma di cecità isterica. Al termine della quale darà vita al progetto di La presenza di Orfeo.

Quello che vediamo nel Diario è una descrizione a posteriori che l’autrice fa delle sue turbolenze interiori sempre presenti, anche se declinate in forme diverse. All’epoca dell’internamento, la Merini aveva circa 34 anni, un marito, due figlie e quattro raccolte poetiche già pubblicate. Condotta all’interno del Paolo Pini, manicomio appena fuori il centro di Milano, veniamo a conoscenza di uno stato di totale confusione in cui cade la poetessa e che diventa una forte crisi nervosa scaturita dall’internamento stesso: nel nuovo ambiente è impaurita dai rumori intorno a lei, dalle urla degli altri pazienti, dall’oscurità e dalla severità con cui i malati vengono trattati. Dopotutto, gli istituti manicomiali italiani, fino agli anni Settanta, erano istituzioni totali che limitavano gravemente i diritti e le libertà dei pazienti, privandoli di un’esistenza dignitosa. La Merini ci riporta un’umanità costretta a perdere il proprio senso di dignità.

“Nel centro del giardino c’era anche un’altra appendice dell’ospedale: il ricovero delle cavie. Dove si facevano continue ricerche sul cervello umano. Io mi sono addentrata in quel posto poche volte, quanto basta per provarne un orrore incredibile. Bestie lobotomizzate, castrate e, dappertutto, un senso di innaturale forza malvagia, ridotta al massimo della sua violenza. Certe bestie, sotto i veleni delle medicine, avevano perso del tutto la loro identità.”[9]

Foto di Cristina Stabile

Tra le condizioni inumane vissute dai pazienti, Alda vive l’esperienza che la salverà dal manicomio: la terapia con il dotto G, un freudiano puro che inizia con lei un percorso terapeutico indagando nella sua infanzia, cercando di capire elementi che possano spiegare la sua stessa follia.

“Insomma, forse non scriverò nulla di nuovo, forse questi sono luoghi triti, ma sono convinta, serenamente convinta, che se non fosse stato per la psicoanalisi, io in quel luogo orrendo ci sarei morta.”[10]

Foto di Cristina Stabile

In definitiva, non è raro, difatti, che la Merini soffra di alterazioni comportamentali e affettive. Ci sono punti in cui la stessa poetessa cerca di minimizzare il suo status patologico e altri in cui chiarisce la gravità del suo malessere.

“In tutto, comunque, feci ventiquattro ricoveri perché molti furono i tentativi di dimettermi e di farmi tornare nel mondo dei vivi. Di fatto, quando venivo dimessa reggevo bene per qualche giorno; poi tornavo a immelanconirmi, a non mangiare più e ad essere tormentata nel sonno, e non riuscivo a procacciarmi anche le più piccole necessità, di modo che dovevo essere nuovamente ricoverata. D’altra parte, non sentivo alcun legame affettivo col mondo di fuori e non mi dispiaceva nemmeno di lasciare la mia casa. E se qualche volta pensavo ai miei figli, lo facevo come se fossero distanti non so quanto dal mio pensiero.”[11]

Nonostante le mura bestiali, il silenzio in connubio con la natura e brevi attimi di lucidità, la donna riesce a innamorarsi di Pierre. È una storia che dura a lungo, contornata da un affetto tenero e sincero, a tratti strano considerato l’ambiente in cui vivono, che si conclude con la deportazione dell’uomo, ritenuto inguaribile. Ancora più particolari sono due eventi straordinari e importantissimi: due gravidanze in cui concepisce Barbara nel 1968 e Simona nel 1972.  

Alda Merini poesia
Foto di Cristina Stabile

È soprattutto il desiderio e la necessità di raccontarsi che spingono la Merini a scrivere un’opera come questa in cui emerge un lato della scrittrice puro, complesso, a tratti nevrotico.

“Il Diario è un libro che ha il tono di grazie di una forza poetica che è cara solo a chi ha dovuto pagare una posta troppo alta per vivere.”[12]

L’opera si configura come qualcosa di molto più di un semplice diario ma diventa una testimonianza potente e sofferta di un percorso fatto di dolori e rinascite. L’autrice ci regala un’istantanea cruda e autentica dell’esperienza manicomiale, svelando al mondo un lato intimo e profondo della sua anima. La sua scrittura conserva intatta tutta la sua forza poetica diventando una pietra miliare nella letteratura italiana. Contribuisce a demistificare temi considerati ancora oggi tabù, ricordandoci l’importanza di ascoltare la voce di chi spesso è emarginato. Risuona ancora attuale la sua straordinaria riflessione sulla condizione umana, sulla fragilità dell’animo. Nel suo Diario, Alda Merini ha saputo dare voce a ciò che spesso rimane inespresso, regalandoci una testimonianza intensa, capace di lasciare un segno indelebile nella storia della letteratura.

Alda Merini. Foto di Giuliano Grittini, CC BY-SA 3.0
Alda Merini. Foto di Giuliano Grittini [1], CC BY-SA 3.0
Si ringrazia per i consigli Valerio Manippa.

 

Note:

[1] Alda Merini, Vuoto d’amore, in Alda Merini. Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, a cura di Ambrogio Borsani, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, collana La rosa, 2010, p. 353.

[2] Giorgio Manganelli, Prefazione in Alda Merini, L’Altra Verità, Diario di una diversa, Bur Rizzoli, Milano, 2007, p. 11.

[3] Massimo Cotto, Tu chiedimi chi era Alda, Sette Corriere della Sera, 17/10/2005, https://www.corriere.it/sette/17_ottobre_05/tu-chiedimi-chi-era-alda-merini-7c2e25c0-a775-11e7-8b29-3c19760df94c.shtml

[4] Alda Merini, La pazza della porta accanto, Bompiani, Milano 1995, pp. 72-75.

[5] Pino Roveredo, in Prefazione al volume di Riccardo Redivo, Alda Merini. Dall’orfismo alla canzone. Il percorso poetico (1947-2009), Asterios Editore, Trieste, 2009, p. 11.

[6] Alda Merini, L’Altra Verità, Diario di una diversa, Bur Rizzoli, Milano, 2007, pp. 36-37.

[7] Luisella Veroli, Alda Merini. Ridevamo come matte, Milano, Melusine, 2011, p. 71.

[8] Alda Merini, L’Altra Verità, Diario di una diversa, Bur Rizzoli, Milano, 2007, p. 14.

[9] Ivi, p.28.

[10] Ivi, p. 30.

[11] Ivi, p. 58-59.

[12] Ivi, p. 139.

il libro di Alda Merini, L’Altra Verità, Diario di una diversa, edito da Rizzoli, BUR contemporanea (2007). Foto di Cristina Stabile

BIBLIOGRAFIA:

Alda Merini, L’Altra Verità, Diario di una diversa, Bur Rizzoli, Milano, 2007, pp. 36-37.

Alda Merini, La pazza della porta accanto, Bompiani, Milano 1995, pp. 72-75.

Alda Merini, Vuoto d’amore, in Alda Merini. Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009, a cura di Ambrogio Borsani, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, collana La rosa, 2010, p. 353.

Giorgio Manganelli, Prefazione in Alda Merini, L’Altra Verità, Diario di una diversa, Bur Rizzoli, Milano, 2007, p. 11.

Luisella Veroli, Alda Merini. Ridevamo come matte, Milano, Melusine, 2011, p. 71.

Massimo Cotto, Tu chiedimi chi era Alda, Sette Corriere della Sera, 17/10/2005, https://www.corriere.it/sette/17_ottobre_05/tu-chiedimi-chi-era-alda-merini-7c2e25c0-a775-11e7-8b29-3c19760df94c.shtml

Pino Roveredo, in Prefazione al volume di Riccardo Redivo, Alda Merini. Dall’orfismo alla canzone. Il percorso poetico (1947-2009), Asterios Editore, Trieste, 2009, p. 11.

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