Mentre fuori il cielo di Roma regala uno dei suoi memorabili acquazzoni di questo maggio travestito da novembre, Adriano Lanzi mi accoglie nel suo studio, porgendomi una tazza di caffè bollente. Deve aver intuito, dalla mia innata goffaggine, che sono alle prime armi con le interviste ad esseri umani realmente presenti davanti ai miei occhi: di solito si lavora per interposto schermo, per telefono, alla peggio via skype. Una distanza rassicurante che consente di superare l’imbarazzo con un agile balzo tecnologico. Sorride sornione – gliene saranno capitate di bizzarre eccezioni come me – e non mi resta che approfittare di questo momento di improvvisa lucidità per fargli un po’ di domande. Quella che segue è la trascrizione della mia Prima Vera Intervista.

Adriano Lanzi

Cominciamo dal principio. Come e quando si concretizza la tua ontogenesi chitarristica?

Ho cominciato a studiare un po’ la chitarra classica a undici anni, in una Scuola peraltro specializzata in musica antica, subendo abbastanza presto, per esposizione, il fascino degli strumenti e delle sonorità antecedenti al Settecento. Un corso di chitarra in quella scuola era roba quasi da modernisti, aprivi una stanza e c’era una classe di liuto, in un’altra trovavi cembali e spinette, in un’altra ancora un gruppo di musica d’insieme zeppo di flauti d’ogni registro e altre meraviglie. Sono arrivato alla chitarra in modo piuttosto banale, i miei mi chiesero se volevo imparare a suonare uno strumento, in casa c’era una chitarra “da combattimento” letteralmente appesa a un chiodo, io dissi “chitarra”, forse per pigrizia. Fui fortunato, nel senso che ho scoperto prestissimo che la amavo. È un’estensione del corpo ma non è né troppo piccola né troppo ingombrante. Un pianoforte non lo puoi abbracciare. Sinceramente, non avrei mai potuto affrontare il pianoforte senza soccombere a uno spaventoso senso di inadeguatezza, perché una pianista forte ce l’avevo in famiglia. Una prozia, Lucia Lanzi Menozzi, sorella del mio nonno paterno, era stata una concertista precocissima (ancora minorenne) a livello europeo. Dopo il matrimonio e la II Guerra Mondiale ridusse gradualmente i concerti fino a concentrarsi solo sull’insegnamento, aprì una scuola di perfezionamento da cui uscirono diversi talenti. Era molto brava e completamente matta, ho avuto la fortuna di conoscerla, ci siamo voluti bene e sicuramente è stata per me una presenza formativa, profonda.

Duo Mu (2016): Adriano Lanzi e Federica Vecchio

Mi sembra di intuire che il tuo percorso musicale non possa essere inquadrato nell’iter canonico dello studente di conservatorio…

Gli studi “classici” non li ho mai completati, fui distratto dopo qualche anno dalla chitarra elettrica e dai mondi sonori altri che mi si aprivano. Anche i miei gusti musicali da fruitore, gli ascolti, si facevano via via più particolari, ero attratto dalle cose meno classificabili, dal bizzarro, da alcune ibridazioni estetiche (non tutte), dai compositori a torto o a ragione considerati eccentrici, in generale da figure di musicisti “irregolari”. Per ultimo, nei miei anni più formativi, ammesso che si finisca mai di formarsi, è arrivato l’interesse per l’elettronica, la sintesi, il campionamento. A dispetto di queste progressive “estensioni” tecnologiche c’è da dire che ci sono momenti in cui torno molto volentieri al suono completamente acustico nel caso di una chitarra classica o folk, e a un suono appena amplificato nel caso della chitarra elettrica, senza la mediazione degli effetti o dell’elettronica in senso ampio. Insomma torno a un suono che possiamo chiamare puro, o bruto, secondo i casi. Chiamiamolo nudo, poi per capire se è puro o bruto tocca vedere che intenzioni ha quando ci si para davanti e si apre l’impermeabile.

Adriano Lanzi

Parliamo di modelli. Quali sono i tuoi riferimenti musicali? Quali le deviazioni esplorative?

Tra i miei modelli e riferimenti musicali sicuramente alcune persone di famiglia, la già citata zia e suo fratello Germano, mio nonno, che in gioventù aveva suonato il violino in complessi di quella che chiamavano “musica sincopata” (sotto il fascismo meglio non suonare jazz – non nominarlo, ancora meglio). Il mio primo insegnante di chitarra, Ezio Musumeci. Poi Ettore Mancini, batterista e didatta eccezionale, semplicemente il primo musicista professionista che conobbi quando ero ragazzino. Mi fece ascoltare alcune cose che contribuirono a sparigliare le carte, segnatamente un disco di Jim Hall. E ancor più importante mi disse altre cose, forse semplici aneddoti sulla sua attività, ma finii per volare con la fantasia su ciò che era possibile fare in uno studio di registrazione. Sicuramente mi fu di grande stimolo. Tra i musicisti con cui non ho avuto un contatto diretto, potrei fare gli stessi nomi che piacciono a chiunque. A un certo punto ho preso una sbandata fortissima per una certa scena di jazzrock inglese, la cosiddetta scena di Canterbury (che è veramente una definizione di comodo mal tollerata dai suoi stessi esponenti): dietro, dentro, ho percepito un’idea estetica forte, una sintesi di musica pop e sperimentazione, uno scontro tra rock e jazz che era all’antitesi dei cliché fusion, una straordinaria vitalità che ha alimentato per decenni altre correnti di musica sperimentale. Forse quella cotta specifica non mi è mai passata, e a parte la forma sonora cui sono affezionato, pur essendo espressione di un momento storico che non ho vissuto, quel che trovo importante è l’esempio.

A un certo punto del tuo percorso ti sei imbattuto nella Scienza delle Soluzioni immaginarie, la ’Patafisica, universo artistico dell’equivalenza, della coesistenza degli opposti e dell’Eccezione. Fascinazione momentanea o impatto con qualcosa di cui hai sentito “generalmente il bisogno”?

All’ascolto dei Soft Machine devo il mio incontro con la ’Patafisica. Era già patafisica la loro musica, era assurda, era ebbra, era allusiva ed elusiva allo stesso tempo, e in più facevano riferimenti all’universo jarryano e alle avanguardie storiche nei titoli dei loro pezzi. Viene fuori, leggendo le biografie del caso, che ne erano davvero coinvolti, ebbero pure un conferimento dell’Ordine della Grande Giduglia perché fecero le musiche di scena di un Ubu Incatenato, di cui oggi purtroppo non c’è traccia. Fu attraverso di loro che andai a cercare i testi di Jarry, che certo non si studiano alle superiori, per poi avvicinarmi al lavoro di altri patafisici illustri. L’impatto con la Scienza delle Soluzioni Immaginarie mi segnò per sempre, è un interesse che coltivo tuttora. È molto difficile per me parlare di deviazione dai miei modelli, perché l’animale affamato di musica, per di più onnivoro, credo che nei primi anni abbia deviato un numero imprecisato di volte, zigzagando, per trovare un qualche principio unificante molto tempo dopo, non tanto nel predominio di una delle forme frequentate sulle altre o in una sintesi posticcia delle stesse quanto piuttosto in un atteggiamento, in un certo spirito, per usare una parola che detesto.

El Topo (2008): da sinistra a destra Francesco Mendolia, Omar Sodano, Andrea Biondi, Adriano Lanzi

Facciamo un po’ di storia e archeologia. Quali sono state le tue prime esperienze da musicista “professionista”, perdona l’atroce espressione, e le tue prime collaborazioni artistiche?

Dopo una primissima esperienza con un gruppo di progressive rock, l’incontro musicale più importante, quando avevo poco più di 20 anni, fu con un griot senegalese, Siriman “Pape” Kanoutè, che conobbi in una emittente radiofonica romana con cui collaboravo. Appena arrivato a Roma, era ospite all’interno del programma di musica africana. Il conduttore mi aveva chiesto in prestito un amplificatore per il suo bassista. Io arrivo in radio, li aiuto a montare, sento il suono della kora, questa incredibile arpa-liuto della tradizione mandinga dell’Africa Occidentale, me ne innamoro all’istante, e alla fine del programma ho la faccia tosta di propormi come chitarrista. Non basta una vita, per penetrare dall’esterno quei modi musicali, quelle scale, quella grammatica sonora, ma qualcosa nei sette anni che sono rimasto accanto a Kanoutè e ai suoi musicisti in qualche modo credo di averla assimilata. La collaborazione con Pape, musicista molto più maturo di me, anagraficamente e non solo, mi diede accesso ai primi palcoscenici degni di questo nome. Negli anni, con lui ho inciso dischi, suonato in dirette radiofoniche nazionali, ho tenuto concerti e musicato spettacoli teatrali. Quasi in parallelo all’esperienza afro-jazz, divenni amico di Omar Sodano, bassista di talento, con una visione musicale personale e un’eccentricità per certi versi sovrapponibile, per altri complementare alla mia, che oggi non è più con noi (è morto in circostanze tragiche e cruente nell’estate del 2014). Con Omar abbiamo sperimentato a lungo, in una sorta di laboratorio privato in cui applicavamo tecniche di post-produzione sonora a improvvisazioni registrate con ospiti provenienti dalle più diverse estrazioni musicali. La ricerca comune rafforzò la nostra amicizia e ci permise di fare errori clamorosi in più campi: la fonica, l’elettronica, la pratica dell’improvvisazione. Finii per spedire a Hans-Joachim Irmler, organista e fondatore dei Faust, storico gruppo sperimentale tedesco, per me musicalmente quasi un padre, un cd-r che sintetizzava e rielaborava buona parte di queste improvvisazioni con una tecnica di collage ora raffinata ora grezza, brutale. Una specie di monstrum trans-temporale e meta-stilistico, che in qualche modo riconosceva nel disco The Faust Tapes un antecedente nobile, se non un’ispirazione diretta. Il dischetto fu apprezzato, ci fu chiesto di partecipare a un album di remix dei Faust e poi debuttammo con un cd a nome nostro sulla loro etichetta. Dal duo sorsero gli El Topo, gruppo dalla vita breve ma di cui vado ancora fiero, con il batterista Francesco Mendolia che oggi vive in Inghilterra e il vibrafonista Andrea Biondi. Facemmo in tempo a pubblicare un solo album per un’etichetta belga e a dare un po’ di concerti, poi successe qualcosa di cui ancora oggi fatico a parlare, posso forse dire senza mancargli di rispetto che Omar perse il suo centro, si smarrì, in modo tale che mi fu impossibile sia proseguire la nostra collaborazione sia, cosa ancora più dolorosa, aiutarlo. Al gruppo fu più facile sciogliersi che andare avanti cercando rimpiazzi. Con Biondi ho avuto il piacere di continuare a collaborare in altre situazioni, negli anni.

Uno degli aspetti che maggiormente mi ha incuriosita del tuo lavoro è la sonorizzazione dei classici del cinema muto, soprattutto perché ribalta l’idea che la musica funga esclusivamente da tappeto, da contorno, da ornamento scollegato dal contesto ponendosi quasi come opera viva a sé, che respira con le immagini ma al tempo stesso se ne discosta quanto basta per giungere altrove.

Ho cominciato a cimentarmi con le sonorizzazioni dal vivo dei classici del cinema muto, prima in ottica rigorosamente elettronica, e più tardi recuperando anche il mio primo strumento, presso il cinema Azzurro Scipioni di Roma; quindi un’altra persona cui sono debitore è il regista Silvano Agosti, uomo fieramente indipendente, che tra il 2001 e il 2005 mi ha permesso di affrontare tutti quei capolavori nelle sue due sale. Quando ho cominciato a sentirmi sufficientemente sicuro di quel che facevo in quell’ambito, ho potuto proporle anche in qualche festival, in Italia e all’estero. È una pratica che mi affascina da sempre: si tratta di verificare dal vivo il rapporto tra suono e immagine, calibrare il mio intervento, cercare di non essere invasivo o eccessivo rispetto al contenuto filmico. Servirlo ma al tempo stesso fare qualcosa che non si riduca a semplice sottofondo o tappezzeria sonora. Idealmente, e con il dovuto rispetto per certe pellicole che davvero sono capolavori autosufficienti e non hanno alcun intrinseco bisogno di musica aggiunta, mia o di nessun altro, cercare di produrre una terza opera, che non sia né il film né la musica, ma l’esperienza sinestesica delle due cose insieme nella singola proiezione. Sul primo film che sonorizzai, Der Golem di Paul Wegener, sono tornato più volte negli anni, cambiando scenari sonori, dalla prima versione completamente elettronica a una del 2010 per chitarra elettrica, fino a quella attuale col mio duo Mu con Federica Vecchio, chitarra acustica e violoncello appena sporcati di un po’ di elettronica.

Quartetto 4ME, Conservatorio Ottorino Respighi, Latina 2019. Da sinistra: Gianni Trovalusci, Paolo Di Cioccio, Federica Michisanti, Adriano Lanzi

Prospettive e futurità: cosa bolle in pentola?

Tra le mie collaborazioni e gruppi attuali devo menzionare K-Mundi, con il dj e sound-artist Økapi e il percussionista filosofo Marco Ariano, con cui faccio improvvisazione elettroacustica con un’anima molto rock, piuttosto energica. Poi c’è il quartetto 4ME con la contrabbassista Federica Michisanti, il flautista Gianni Trovalusci e l’oboista Paolo Di Cioccio, con cui affianchiamo l’improvvisazione alle tecniche compositive legate all’alea, e a volte affidiamo lo svolgersi delle nostre performance all’estrazione a sorte di possibili combinazioni strumentali e di relativi comportamenti, o gesti, sonori. Una pratica oggi storicizzata, ma non mi pare un buon motivo per non ricominciare a praticarla, visto che le conseguenze di questi processi possono essere attualissime. Con Paolo ho anche un duo, Le Grand Lunaire, in cui io suono la chitarra elettrica e lui l’oboe e il theremin, e dovremmo affrontare una sonorizzazione di La Caduta della Casa Usher, di Jean Epstein, da Poe, dopo l’estate. Per i già citati MU con Federica Vecchio è in via di pubblicazione per la romana Folderol il secondo album (il primo lo ha pubblicato la britannica SLAM tre anni fa). Sarà meno improvvisato del precedente e più orientato a una sorta di musica post-classica. L’album vede la partecipazione graditissima di alcuni ospiti, da Lino Capra Vaccina, vibrafonista e compositore minimalista contemporaneo, a Amy Denio, polistrumentista di Seattle, da Økapi stesso che ha prodotto un remix al veterano della scena rockjazz inglese Geoff Leigh, amico e maestro che ci ha regalato una splendida parte di flauto, fino a Giovanna Izzo, cantante napoletana che improvvisò con noi presso l’Ex Asilo Filangieri.

Ma c’è anche un percorso da solista non meno interessante delle succitate collaborazioni artistiche.

C’è poi, in effetti, il mio repertorio solista, per chitarra acustica amplificata e “aumentata” dagli effetti elettronici, che continua a crescere, e in cui accanto a qualche mia composizione mi diverto ad arrangiare e rieseguire – con la tecnica fingerpicking e in un’ottica di folk urbano un po’ futuribile – pezzi che di chitarristico hanno poco o nulla: da Albert Ayler a Vivaldi, da Shostakovic a Thelonious Monk, da Robert Wyatt e i Soft Machine (la Canterbury che non abbandono) a Nino Rota. L’obiettivo a lungo termine, ad ogni modo, per quanto possa sembrare contraddittorio se associato a un certo eclettismo sonoro e a riferimenti che continuano a spaziare dalla musica antica fino all’elettronica, è quello di impiegare il tempo che mi resta a fare del mio meglio per non morire da postmoderno.

Più ti ascolto e più mi sembra evidente da una serie di sintomi che il tuo pensiero musicale possa trovare una collocazione nell’universo potenziale: dalla manipolazione delle forme alla combinatoria, dalla commistione di generi all’implosione di modelli, il tutto dominato da una rigorosa curiosità, da uno spirito ludico di avventura e da un’urgenza di esplorare le declinazioni teoriche del possibile.

Devo riconoscerlo, il fatto che qualcuno abbia avuto l’ardire di associarmi al mondo “potenziale”, un ambito di ricerca che si riferisce più facilmente alla letteratura, magari ad altre arti ma non tanto alla musica, un po’ mi è di conforto in questo senso. Mi viene quasi da dire “finalmente!” C’è un rigore formale anche nel giocare con le forme. Forse l’esattezza su cui insisteva Calvino è meno praticabile in musica che nella prosa, per una serie di fattori contingenti che espongono la resa sonora dal vivo a variabili sconosciute a chi chiude il proprio lavoro nella pagina scritta, per esempio. Tuttavia l’accento su una precisione di fondo, su un intento pulito che vada dal pensiero fino al gesto sonoro, anche nel veicolare l’essenziale di un pezzo pur cambiandogli abito di suono, riportare un tema free rabbioso di Albert Ayler che pure ha un’intrinseca componente spiritual, alla prateria americana, o far esplodere uno Stabat Mater di Vivaldi nello spazio, con accenti psichedelici, che è parte di quello che faccio io pur con una dose di approssimazione più ingombrante di quanto non vorrei, tutto questo forse – forse – offre uno spiraglio, un superamento cosciente del minestrone della postmodernità in cui, per come lo avverto io, tutto è semplicemente compresente, le dominanti stilistiche sembrano di volta in volta dovute a capricci del gusto e i pretesti sono troppo spesso elevati a concetti. Bisognerebbe avere ben chiara la differenza tra potenziale e possibile. È chiaro che è possibile attingere alle forme come vogliamo perché sono tutte a portata di mano, ma non mi sembra sufficiente. Rifarmi alle categorie e ai criteri della letteratura potenziale può offrire alla mia pratica musicale qualche strumento critico in più, come minimo. E qui si apre un discorso vastissimo che è impensabile esaurire in questo spazio.

 

BIOGRAFIA

Nato a Roma nel 1972, Adriano Lanzi è chitarrista, compositore, improvvisatore, performer elettronico, occasionalmente bassista. Ha pubblicato musica, come titolare o sideman, su numerose etichette discografiche italiane e europee, esordendo in duo con Omar Sodano per la tedesca Klangbad, diretta da Hans-Joachim Irmler deiFaust, storica formazione del rock europeo più avventuroso e sperimentale. Ha collaborato a lungo (1996-2003) in studio e dal vivo, con il gruppo afro-jazz del griot senegalese Siriman “Pape” Kanoutè, forse il primo e il più rigoroso divulgatore della kora e della cultura mandinga in Italia, partecipando con lui a dirette radiofoniche nazionali (Stereonotte, La Stanza della Musica) e alla realizzazione di musiche per il teatro (tra le altre Fedra da Ghiannis Ritsos, per la regia di Giuseppe Marini). E’ attualmente attivo nel duo MU con la violoncellista Federica Vecchio (www.facebook.com/muguitarandcelloduo), pubblicato su SLAM (U.K.) nel quartetto FORME (con Gianni Trovalusci ai flauti, Paolo Di Cioccio all’oboe e Federica Michisanti al contrabbasso, dedicato alle procedure compositive e di improvvisazione legate all’alea), e con il trio elettroacustico K-Mundi  (con il dj e sound artist Økapi e il batterista Marco Ariano – www.facebook.com/kmundigroup).  Collabora occasionalmente con il veterano dell’improvvisazione radicale e del rock in opposition Geoff Leigh (ex Henry Cow), con il cantautore e folk/punk rocker Stefano Giaccone (ex Franti/Kina), con la polistrumentista statunitense Amy Denio e altri musicisti della scena italiana e internazionale. Da sempre si dedica alla sonorizzazione dal vivo, in chiave elettronica o chitarristica, dei classici del cinema silenzioso, che ha presentato per anni in forma di laboratorio presso il Cinema Azzurro Scipioni di Roma e che ha portato più volte in festival italiani e europei (Montepulciano,  Schiphorst Avantgarde Festival Amburgo, Londra, tra gli altri) e recentemente alla produzione di colonne sonore per documentari.

Si esibisce spesso anche in un solo per chitarra fingerpicking, presentato a Battiti (RadioTre) dove riconduce al suo strumento pezzi non chitarristici. Il Fac Ut Ardeat dallo Stabat Mater di Vivaldi, Ghosts di Albert Ayler,  We Travel the Spaceways di Sun Ra, Pannonica di Monk, il Valzer n°2 dalla Jazz Suite di Shostakovic, tanghi di Ernesto Nazareth, pagine prog (Sea Song di Robert Wyatt), brandelli di swing (Miller, Ellington) memoria cinematografica popolare (Nino Rota), acquisiscono una veste folk urbana e futuribile.

Adriano Lanzi

DISCOGRAFIA

Lanzi & Sodano “La Vita Perfetta” (Klangbad 28) – 2004

El Topo “Pigiama Psicoattivo” (Off CD06) – 2008

Adriano Lanzi “Tana Libera Tutti” (Cd-r Ned 012) – 2011

Adriano Lanzi “You are never alone with the Lemurian Broadcasting Company” (ODG014) – 2012 

Le Borg “Flying Machines” (HKPL4303) – 2014

MU “of strings and bridges” (Slam 577) – 2016

K-Mundi “the little disaster inside us” (Off OCD032) – 2016

Le Borg IV (Valle Giovanni Edizioni BLV2696580) – 2016 

Partecipazioni selezionate:

  • V.A.: Faust – Freispiel (Remixes from “Ravvivando) (Klangbad FRR 1992) – 2001

  • V.A. : Klangbad – First Steps (Jkangbad 19) – 2002 
  • Pape Siriman Kanoutè: Keulo (Helikonia/ LUDOS LDL 14221) – 2002 (Adriano Lanzi, session player – acoustic guitar)
  • V.A. – Klangbad – Next Step (Klangbad 26) – 2004 

 

2 Comments

  1. Ricordiamo con piacere il venire trasportati in una galassia lontana dal duo Mu durante un loro concerto.
    Attendiamo con ansia i nuovi progetti!
    Marco & Donatella

  2. Bellissima intervista, di cui non sono in grado tecnicamente di apprezzare ltutte le sfumature ma che riecheggia nella magia dell’ascolto , fatta di recente, del duo Mu.
    Esperienza da ripetere , speriamo presto
    Ogni volta una scoperta..

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