Dacché è in vita, l’uomo è un essere assolutamente ambiguo, ibrido, duplice: vive entro una contraddizione che gli è essenziale, in una posizione in bilico tra il mondo animale, caratterizzato da istinti e bisogni fisiologici, e quello razionale.

Martin Heidegger (10 May 1960). Dettaglio della foto “W 134 Nr. 060678d – Hausen: Festakt, in der Reihe, Kultusminister Storz, Prof. Heidegger, Dichtel”. Additional reference : Teilbestand W 134 (Neg. BaWü), Teil 1 – Fotosammlung Willy Pragher: Filmnegative Baden-Württemberg, Teil 1. Foto di  Willy Pragher, fonte Landesarchiv Baden-Württenberg, CC BY-SA 3.0

Nella sua opera più celebre, Essere e tempo, Martin Heidegger menziona un racconto attribuito ad Igino (il n. 220 delle Fabulae, rintracciato dal filosofo all’interno del saggio di Konrad Burdach, Faust und die Sorge), considerandolo come una forma di auto-interpretazione preontologica dell’uomo, in grado di descriverne la natura ambivalente. Secondo il racconto, l’uomo sarebbe stato originariamente plasmato dalla Cura utilizzando del fango cretoso, al quale successivamente Giove infuse lo spirito, dando origine ad un essere composto da Terra e Cielo. Si creò così una diatriba tra Cura, Giove e Terra riguardo il nome da attribuire all’essere appena plasmato, ognuno rivendicando il proprio diritto di definirlo, rendendo dunque necessario l’intervento di Saturno. Quest’ultimo, interpellato per giudicare la vicenda, propose un compromesso fra i contendenti:

«Tu, Giove, poiché hai dato lo spirito, alla morte riceverai lo spirito; tu, Terra, poiché hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fintanto che esso vivrà lo possiede la Cura. Poiché però la controversia riguarda il suo nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)»

(M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2015, p. 241)

Il racconto, evidenza Heidegger, propone la concezione dell’uomo come un compositum di corpo (terra) e spirito: Terra, ovvero umanità finita, limitata, determinata dalla costante possibilità di perire, e Cielo, ossia principio divino, ragione, capacità dell’uomo di trascendere se stesso e le condizioni determinate in cui si trova. Un compositum, tuttavia, completamente assoggettato in vita alla Cura, termine che secondo il filosofo tedesco delinea un concetto esistenziale, il cui significato originario oscilla tra quello di “pena angosciosa”, “preoccupazione”, “affanno” e quello di “premura”, “devozione”.

Sempre in riferimento al racconto appena citato, recuperando il significato originario di Cura, Giuseppe Semerari definisce l’uomo come un essere connotato da insecuritas: un essere insicuro, non-senza-cura, laddove per cura s’intende preoccupazione, ansia, inquietudine, pensiero angustiante e perturbante; elementi che ineriscono essenzialmente, costitutivamente, all’uomo in quanto animale fragile. Afferma Semerari:

«L’uomo nasce dalle mani della Cura ed è da essa governato sino alla fine del suo esistere. L’uomo, in quanto non-può-essere-senza-cura, è insicuro e lo è in modo essenziale

(G. Semerari, Insecuritas. Tecniche e paradigmi di salvezza, Spirali edizioni, Milano 1982, p. 8)

In particolare, Semerari evidenzia come l’insecuritas esistenziale umana sia legata alla perenne condizione di incertezza dell’uomo, costantemente minacciato da tre direzioni: dal suo stesso corpo, inevitabilmente esposto a rischi di malattie e di disfacimento totale; dalla natura, che è in grado di manifestare una potenza tale da minacciare costantemente di annientare l’uomo stesso; dagli altri uomini, a causa dell’istinto di sopraffare, dominare, opprimere l’altro, per cui lupus est homo homini. Cosicché l’uomo appare come un essere deficitario, non autosufficiente: un animale che non possiede i mezzi per sussistere autonomamente e che non è naturalmente adattato ad uno specifico ambiente, dipendendo, dunque, della cooperazione con altri uomini al fine di un benessere collettivo, nonché da quelle che Semerari definisce “tecniche di rassicuramento” (Ivi, p. 9).

Replica della statua di Immanuel Kant a Kaliningrad/Königsberg (l’originale di Christian Daniel Rauch, risalente al 1864, fu distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale). Foto di AndreasToerl~commonswikiCC BY-SA 2.5

Parallelamente, lo stesso Immanuel Kant nella Metodologia del giudizio teleologico evidenzia come, nei confronti dell’uomo, “la natura è tanto lungi dall’averlo adottato come il suo particolare favorito” (I. Kant, Critica del Giudizio, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 545). L’individuo umano, continua Kant, è difatti soggetto a peste, fame, freddo, nonché alle contraddizioni delle disposizioni naturali, per le quali “si adopera tanto per la rovina della propria specie” (Ivi, p. 547).

Ancor prima, all’interno dei suoi Pensieri, Blaise Pascal descriveva la fragile natura dell’uomo, definendo notoriamente quest’ultimo come una canna pensante:

«L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che l’universo intero s’armi per schiacciarlo. Un vapore, una goccia d’acqua, basta ad ucciderlo. Ma se pure l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancora più nobile di ciò che lo uccide, perché egli sa che muore; e del vantaggio che l’universo ha su di lui, l’universo non sa nulla.»

(B. Pascal, Pensieri, Rusconi, Ariccia 2019, p. 138)

La posizione dell’uomo nella natura si presenta come paradossale: da un lato è un nulla dinanzi all’immensità dell’universo, un universo che lo sovrasta continuamente, abbandonandolo ad un perenne stato di inquiétude e inconstance.  D’altro lato, tuttavia, tale gracile animale possiede la facoltà razionale, per mezzo della quale si differenzia dalla natura inanimata e ciecamente determinata, permettendo la proposizione di scopi e fini che trascendono il mero meccanicismo.

«L’uomo conosce di esser miserabile. Il che vuol pur dire che è miserabile; ma egli è pur grande, poiché conosce il suo stato […] io non posso concepir l’uomo senza pensiero: sarebbe una pietra o un bruto. È dunque il pensiero che costituisce l’essere dell’uomo, e senza, non lo si può concepire.»

(Ivi, p. 137)

Analogamente, Kant difende la posizione esclusiva dell’uomo nella natura, descrivendolo come “l’unico essere che sulla terra abbia un’intelligenza e quindi una facoltà di porsi volontariamente degli scopi” (I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 547).

Sia Pascal che Kant rimandano dunque alla dimensione pratica: il primo asserisce che, come uomini, dobbiamo lavorare a pensare bene, e tale compito è principio della stessa morale, nonché dignità e merito dell’uomo stesso. Il secondo, invece, identifica nell’uomo morale la possibilità di un Übergang (attraversamento/superamento) tra il mondo fenomenico della natura e quello noumenico sovrasensibile. Proprio in virtù della libertà, ratio essendi della legge morale, tale essere è in grado di proporsi fini arbitrari ed è pertanto capace di autodeterminarsi, permettendo così il passaggio dall’ordine deterministico della natura a quello libero della morale.

Grazie alla possibilità di emanciparsi da una dimensione meramente animale ed etero-diretta, caratterizzata dalla perenne necessità, da impulsi e bisogni prettamente organici, l’homo noumenon, secondo Kant, può pertanto essere legittimamente considerato come il fine ultimo (Endzweck) della natura.

«Ora noi non abbiamo nel mondo se non un’unica specie di essere, la cui causalità sia teleologica, cioè diretta a scopi […] L’essere di questa specie è l’uomo, ma considerato come noumeno; è l’unico essere della natura in cui possiamo riconoscere, come suo carattere proprio, una facoltà soprasensibile (la libertà) ed anche la legge della causalità e l’oggetto di questa che egli si può proporre come fine supremo (il sommo bene nel mondo).»

(Ivi, p. 555)

In bilico tra Terra e Cielo e caratterizzato dalla propria costitutiva insecuritas, per la quale è solo un misero punto nell’immensità dell’universo, l’uomo è pur sempre capace di un contro-movimento: è una canna pensante, ed è libera.

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Foto di MellaViews

Riferimenti bibliografici:

Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2015.

Immanuel Kant, Critica del Giudizio, Laterza, Roma-Bari 1997.

Blaise Pascal, Pensieri, Rusconi, Ariccia 2019.

Giuseppe Semerari, Insecuritas. Tecniche e paradigmi di salvezza, Spirali edizioni, Milano 1982.

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