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Violenza e metafisica di Jacques Derrida

Jacques Derrida, Violenza e metafisica

“Implicato nel discorso di Totalité et Infini, in quanto solo permette di lasciar essere gli altri nella loro verità, in quanto libera il dialogo e il faccia a faccia, il pensiero dell’essere è quindi quanto mai vicino alla non-violenza” (J. Derrida, Violenza e metafisica, p. 188).

Pensare che l’essere trascenda e anticipi l’essente rende possibile il linguaggio – quindi ogni forma di essere-insieme – e, per questo, certifica un atteggiamento non predatorio nei confronti degli altri. In altri termini, noi ci intendiamo, collaboriamo e stiamo insieme – acconsentiamo alle esistenze che ci circondano – perché esiste qualcosa che sta più in alto e prima di ciò che appare, uno spazio concettuale in cui abitano tutti: questo luogo non violento è l’essere.

Emmanual Levinas (o Lévinas). Foto di Bracha L. Ettinger, CC BY-SA 2.5

Questa è l’idea di Emmanuel Levinas in Totalité et Infini. Jacques Derrida, in Violenza e metafisica, discute proprio la non-violenza che apparterrebbe al pensiero dell’essere: “noi non la definiamo non-violenza pura” (J. Derrida, Violenza e metafisica, p. 188).

Attribuire la purezza tanto alla non-violenza quanto alla violenza significa destinare ciascuno dei termini alla trasformazione nel proprio opposto.

La non-violenza pura è un non-rapporto, dunque coincide con la violenza pura. Allo stesso modo, la violenza pura, essendo un rapporto tra esseri senza volto, non è ancora violenza e, pertanto, è non violenza pura.

Il volto è, allo stesso tempo, ciò che ferma e permette la violenza. Senza di esso e senza il pensiero dell’essere che ne permette la manifestazione, ci sarebbero solo non-violenza e violenza pura. Ma non è così: il volto esiste, così come il pensiero dell’essere, a cui appartiene essenzialmente una certa dose di violenza.

“L’essere è storia, si occulta da sé nella sua produzione e si fa originariamente violenza nel pensiero, per dirsi e manifestarsi” (J. Derrida, Violenza e metafisica, p. 189).

L’essere si oltraggia da sé, rinuncia alla trascendenza e all’anticipazione, per diventare fenomeno, produzione e linguaggio. Questo masochismo ontologico è la conditio sine qua non affinché qualcosa appaia. Manifestandosi, l’essere si tradisce, legandosi all’essente, e, allo stesso tempo, si mostra.

La violenza è fondamentale:

“Un essere che si produce senza violenza sarebbe un essere che si produrrebbe fuori dall’essente: nulla; non-storia; non-produzione; non-fenomenicità” (J. Derrida, Violenza e metafisica, p. 189).

L’assunto vale anche a livello linguistico: una parola non-violenta è una parola senza frase, senza verbo essere, senza predicazione, poiché “la predicazione è la prima violenza” (J. Derrida, Violenza e metafisica, p. 189).

Jacques Derrida. Foto di Chinmoy Guha, CC BY 3.0

Resta da chiedersi se esiste, anche a partire dal pensiero di Levinas, la possibilità di un linguaggio non-violento. Come sarebbe un linguaggio simile?

Ogni forma verbale sarebbe bandita, a vantaggio di invocazioni in cui i nomi propri sarebbero gli unici protagonisti. La retorica sarebbe un retaggio artificioso rispetto al volto.

Esso, però, non è solo sguardo, è anche parola, la predicazione, l’articolazione, cioè la violenza. Per questo, non è possibile che il mondo si offra, come pensa Levinas, attraverso un linguaggio silenzioso e pacifico, in un primo momento e, solo poi, violentemente.

La frase si imporrebbe in seconda battuta, corrompendo la quiete primitiva dell’essere-insieme. Per Derrida, essa non interviene in maniera posticcia, costituisce la violenza essenziale a cui si sottopone l’essere e possiede una funzione:

“Perché si impone la frase? Forse perché, se non si strappa violentemente l’origine silenziosa a sé stessa, se si decide di non parlare, la violenza più grave coabiterà in silenzio con l’idea della pace?” (J. Derrida, Violenza e metafisica, p. 190).

Aspirare al silenzio assoluto, come alla non-violenza pura, significa perpetrare la ferocia di una pace ideale, estranea al mondo. D’altra parte:

“La pace si fa solo in un certo silenzio, determinato e protetto dalla violenza della parola” (J. Derrida, Violenza e metafisica, p. 190).

Per fare la pace – e per non essere devoti alla sua versione irrealizzabile – non occorre sottrarsi all’economia di guerra a cui, come osserva Derrida, non si sfugge mai, ma è necessario far sì che la parola protegga il silenzio, lo integri in sé, senza farsi risucchiare da esso. Votarsi al mutismo equivale a regalarsi ad un nulla inesistente.

Foto di Cindy Lever

 

Riferimenti bibliografici

  1. Jacques Derrida, Violenza e metafisica, in La scrittura e la differenza, Giulio Einaudi Editore s.p.a, Torino, 2002.

2010. Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, 2010.

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