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Da Simonide a Celan: l’imperduto della parola

Anne Carson Economia dell'imperduto

Da Simonide a Celan: l’imperduto della parola

«Questo è il presente, un’allegoria dello spreco», scrive nel 2006 la poetessa statunitense Louise Glück in Averno, incidendo sulla pagina, con precisione chirurgica, il nome di questo tempo che ignora la sacralità del permanere. E le parole? Sono anch’esse sperperate? Quando qualcuno – un poeta – le salva dalla dissipazione, chi ne guadagna? Ecco alcuni degli interrogativi che si pone nel 1999 Anne Carson, scrittrice canadese, nel saggio recentemente pubblicato dalla casa editrice Utopia, Economia dell’imperduto, con la traduzione ben meditata di Patrizio Ceccagnoli. In una società che «tiene l’economia in gran conto», tutto ha un prezzo, persino il lavoro che ruota intorno alla poesia; anche così le parole divengono merce, finiscono per essere oggetto di un asettico mercanteggiare, se non interviene uno slancio, una parentesi di grazia.

In un afflato poetico e creativo invidiabile, l’autrice, studiosa della classicità, porge al lettore una riflessione densa e vertiginosa che non teme di travalicare i millenni per accostare il poeta greco Simonide, vissuto tra VI e V secolo a.C., allo scrittore rumeno di origini ebraiche Paul Celan, che pur essendo vittima della barbarie del Novecento scrisse nella lingua dei suoi aguzzini, il tedesco. «Insieme e contro, allineati e discordi, ciascuno si pone come una lente attraverso la quale l’altro può esser messo a fuoco»: mettendosi in ascolto di questo dialogo silenzioso, a distanza, Anne Carson trova «un frammento di tempo non esausto», un prodigio grazie al quale la letteratura può colmare la frattura provocata dal reale. Nel vuoto lasciato dai giorni che si (e ci) consumano, fiorisce infatti la parola poetica, che riscatta dall’oblio con il suo valore incommensurabile.

Lo sanno bene Simonide e Celan: entrambi dimorano in uno iato, abitano un tempo di passaggio – il primo, tra l’economia del dono e l’avvento della moneta, testimonia la disgregazione di un mondo e la nascita di un sistema inedito; il secondo, tra l’appartenenza e l’estraneità, mette radici nella crepa dell’esilio («Per quanto mi riguarda, io sono al di fuori»). Per Celan, nel vortice furioso e inesorabile delle perdite, solo la lingua rimane imperduta, perché silenziosa attraversa il contingente, dalla temporanea afasia esce arricchita e purificata, pronta cioè per proiettarsi verso l’assoluto, ben oltre le miserie dell’uomo e della storia. Nella dolorosa esperienza del lutto, anche le parole rischiano di andare smarrite: ecco dunque stagliarsi imperioso il valore della memoria, strumento salvifico e divino per Simonide, dovere irrinunciabile per l’umanità ferita nel vissuto di Celan. «In che cosa consiste l’atto del ricordare? Il ricordo porta l’assente nel presente, collega ciò che è perduto a ciò che è ancora qui. Il ricordare pone l’attenzione sulla perdita e si sostanzia nelle emozioni dello spazio che si schiudono a ritroso nel vuoto», riflette con sagacia Anne Carson in una delle sue meditazioni altissime che consentono al lettore di riconoscere frammenti della propria vita tra le pagine di un saggio letterario.

Paul Celan. Foto (1941) in pubblico dominio

Oltre a configurarsi come uno studio meticoloso e inestimabile sull’opera dei due autori, il saggio di Anne Carson ci esorta in effetti a fermarci e considerare il reale valore che attribuiamo alle parole: esse ci aiutano a stabilire un legame tra visibile e invisibile? Sono preghiere che rivolgiamo a una qualche intangibile presenza? Costituiscono un vero argine al rischio della dimenticanza o ci scaraventano nel fondo della negazione (che è d’altra parte il coraggio di pronunciare l’assenza)? Ecco solo alcune delle questioni che questo saggio irriducibile ci consegna, una sorta di atto politico di responsabilità della parola. Quando leggiamo della Danae di Simonide o del Klein di Celan, del vuoto in cui restano il rispettivo Lamento e la rispettiva Conversazione, siamo inevitabilmente portati a considerare l’erosione che affligge la comunicazione in questo nostro tempo iper-connesso, travolto da un vortice di parole ma spesso marchiato dallo stigma della mancanza di ascolto autentico.

«La disperazione di un poeta non è solo personale; il poeta dispera della parola e questo riguarda tutte le nostre speranze. Ogni volta che un poeta scrive una poesia si pone la domanda: le parole sono valide? E la risposta deve essere un sì»: un saggio dell’insegnamento impareggiabile di Anne Carson, che ci educa ad accogliere, nonostante l’alienazione e l’assenza, la grazia dell’imperduto.

La copertina del saggio Economia dell’imperduto di Anne Carson, pubblicato da Utopia con uno scritto di Antonella Anedda nella Collana Letteraria Straniera

Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.

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