Antonio Fraddosio. Le tute e l’acciaio
un’installazione etica alla Galleria d’Arte Moderna di Roma
Un monumento antiretorico dedicato agli operai dell’Ilva e alla città di Taranto
Galleria d’Arte Moderna
1 novembre 2018 – 3 marzo 2019
L’iniziativa, alla Galleria d’Arte Moderna di via Francesco Crispi dal 1° novembre 2018 al 3 marzo 2019, è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con l’organizzazione di Zètema Progetto Cultura ed è a cura di Claudio Crescentini e Gabriele Simongini.
Confrontandosi con i particolari spazi del chiostro-giardino della Galleria d’Arte Moderna, Antonio Fraddosio espone dieci grandi lamiere lacerate e contorte, potenti e misteriose, che richiamano le tute che dovrebbero proteggere gli operai dell’Ilva dai tumori, depositate, al termine del turno di lavoro e prima di andare alle docce, in una specie di camera di compensazione.
Per i possessori della nuova MIC Card – che al costo di soli 5 euro consente a residenti e studenti l’ingresso illimitato per 12 mesi nei Musei Civici – l’ingresso alla mostra è gratuito.
Mostra |
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Dove |
Galleria d’Arte Moderna di Roma Via Francesco Crispi, 24 |
Quando |
1 novembre 2018 – 3 marzo 2019
Inaugurazione: 31 ottobre 2018 ore 18.30-21.00 |
Orari |
Da martedì a domenica ore 10.00 – 18.30 L’ingresso è consentito fino a mezz’ora prima dell’orario di chiusura. Giorni di chiusura: lunedì, 1 maggio |
Biglietti Info |
Biglietto di ingresso alla Galleria d’Arte Moderna: € 7,50 intero e € 6,50 ridotto, per i non residenti; € 6,50 intero e di € 5,50 ridotto, per i residenti; gratuito per le categorie previste dalla tariffazione vigente. 060608 (tutti i giorni ore 9:00 – 19:00) |
Promossa da |
Assessorato alla Crescita culturale di Roma – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali |
A cura di Servizi museali |
Claudio Crescentini e Gabriele Simongini Zètema Progetto Cultura |
SPONSOR SISTEMA MUSEI CIVICI
Con il contributo tecnico di Media Partner |
Ferrovie dello Stato Italiane
Il Messaggero |
Se camminando per il quartiere Tamburi ti guardi intorno, non dimentichi più. Di quel camminare mi è rimasta forte l’immagine di quegli spazi che rappresentano una condizione e il suo opposto, si chiamano ‘spazi di transizione’ e ‘ai Tamburi’ gli spazi di transizione sono la drammatica immagine del violento impatto tra dentro e fuori, tra privato e pubblico, tra luce e ombre. Sono le logge scavate sulle facciate degli edifici popolari, chiuse da una vetrata, protette da un tendone, mai adorne di fiori. Povere barriere poste nel tentativo inutile di contrastare un’aria malata e sulla parete di fondo la porta-finestra come vetrina d’esposizione di vite difficili. E, così, i 10 cassoni che ho realizzato in acciaio Cor-Ten ossidato altro non sono che le logge ‘dei Tamburi’, rosse di polveri velenose. Sulla parete di fondo ho posto altrettanti pannelli su cui è deposta una lamiera lacerata, sporcata e incendiata. Sono le tute degli operai. Ho trattato la lamiera modellandola in modo da farla apparire come un grossolano panneggio antropomorfo ma anche come l’elegante, delicata, innocente, straziata anima di chi indossa quelle tute e di chi, suo malgrado, indossa quelle polveri. Infatti a Taranto si ammalano gli operai ma anche i bambini.
Anche il chiostro-giardino della Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale è uno spazio di transizione, ma nasce all’interno delle mura di un antico convento, totalmente incluso da pareti, aperto solo verso il cielo. Mi è sembrato importante porre in evidenza un così forte contrasto tra elementi architettonici simili e pur così distanti nella loro qualità. Dovevo necessariamente non limitarmi a mettere forme all’interno del chiostro dovevo intervenire sull’unico punto in comune dei due spazi: il cielo. Ne dovevo interrompere la continuità, sporcarlo, metterlo dietro le sbarre perché a Taranto anche il cielo si sporca di fumo e di fuoco e la notte non si accende mai di stelle. È l’impianto che è sempre acceso. Allora ho posto sui cassoni ormai diventati vere e proprie aedicola delle travi in ferro incrociate. Sono i nastri trasportatori, i giganteschi carroponte, il braccio delle gru che spaccano il cielo, diventando portatori di un firmamento artificiale fatto di fari che gettano una luce fredda e violenta su una realtà disperata ma non rassegnata.
Antonio Fraddosio
Antonio Bernardo Fraddosio, nato a Barletta, ha svolto a lungo l’attività di architetto e scenografo, ma da oltre venti anni si è dedicato esclusivamente alla scultura e alla pittura nel suo studio di Tuscania. Questa scelta radicale è legata a forti motivazioni ideali: per Fraddosio, infatti, l’artista è un uomo politico costantemente vigile davanti ai drammi del mondo.
Il suo lavoro si sviluppa attraverso cicli che non si chiudono mai. Si sovrappongono e sviluppano un filo rosso perché sono sempre orientati su temi universali.
Il ciclo l’Animale sociale, iniziato già negli anni Novanta, tende alla rappresentazione plastica della condizione esistenziale dell’umanità contemporanea, con fratture, scollamenti, deformazioni.
Nel ciclo La costruzione della distruzione l’artista affronta gli effetti drammatici di una crisi senza confini che si evidenzia nelle grandi tragedie umane.
Negli altorilievi del ciclo Resistenti oltre ha voluto richiamare l’attenzione su alcune figure, poco conosciute, che hanno affermato con forza l’idea della libertà.
In Salvarsi dal naufragio affronta il tema del grande esodo, vera e propria deportazione dei popoli del Sud.
Nel ciclo intitolato Quello che resta dello sviluppo, di cui fa parte l’installazione Le tute e l’acciaio, l’artista riparte dalle origini pugliesi, ricordando una visione giovanile: «Arrivavo da Martina Franca. Dall’alto della collina che degrada verso il mare Taranto non c’era più. Vidi un inferno di fuoco e di fumo. La più grande acciaieria d’Europa aveva mangiato la città, la campagna e aveva bevuto il mare».
Testi e immagini da Ufficio Stampa Zètema – Progetto Cultura