Michele Lamacchia è uno che con le parole ci sa fare. D’altronde a cercarlo sul web si trova come Le parole creano mondi, parla di libri e di scrittura sul suo blog, sul suo profilo Instagram e pure su quello Facebook.
Michele Lamacchia, se vai a leggerti la sua biografia, scopri che ha fatto anche lo sceneggiatore, e quando apri Autogrill si capisce subito, perché pare di trovarsi davanti una sceneggiatura di quelle corali, difficili da scrivere. Lo so perché io le sceneggiature corali volevo scriverle ma non sono mai stata capace di farlo.
Lui sì. Prende personaggi uno peggio dell’altro, con vite che sguazzano letteralmente nel fango, li piazza in un posto che è maledetto, e non scherzo, perché in una digressione ti racconta la maledizione, sacrosanta, che ricade sugli ascendenti della famiglia Pantano, fino ad arrivare a Rocco, il filo conduttore di tutta la storia.
La maledizione viene scagliata da una donna, trattata da strega come succede alle donne troppo forti da che mondo è mondo. Invece è solo una donna che rifiuta un uomo. Come nella miglior tradizione.
Allora qui abbiamo un altro elemento. Un romanzo dove gli uomini fanno profondamente schifo, le donne anche ma sono il prodotto della cultura degli uomini, e forse possiamo anche capirle di più, un posto dimenticato da tutto e tutti dove può capitare la qualunque sotto il tuo naso, e dove abbiamo un unico personaggio a cui possiamo voler bene senza remore.
Benedetto. Il ragazzino ingenuo. Così ingenuo che probabilmente non capisce fino in fondo neanche dopo i titoli di coda, cioè, volevo dire, la fine del racconto, cosa è successo davvero.
Perché non ha addosso tutta la melma che si portano dietro le decine di personaggi adulti corrotti che gli stanno intorno.
Ci sono salti temporali, in questa storia. Si va dall’ottocento dell’unità d’Italia, che poi non ha unito granché visto che qui in questo paese della Lucania pare non essere mai stata recepita, alla seconda guerra mondiale, agli anni ’60 delle speculazioni edilizie, al terremoto in Irpinia, allo sconquasso del 1994, quando finisce di fatto la prima Repubblica e pure la nostra storia.
Si passa attraverso la storia d’Italia che non raccontano mai. Quella di un sud dimenticato dagli uomini, e pure un po’ da Dio, anche se Dio pare essere presente lo stesso, con un senso dell’umorismo carogna.
Si fa un po’ di fatica, a stare dietro a tutti. Bisogna armarsi di un po’ di pazienza, anche per capire il lucano che compare a tradimento e che non è appannaggio di chiunque.
Ma una volta superato questo primo impatto resta la voglia di capirli, questi personaggi che a prima vista fanno anche un po’ schifo, nella loro incapacità di essere umani. Eppure dopo un po’ ti accorgi che questi personaggi sono la parte peggiore di noi, quella che non abbiamo mai bisogno di tirare fuori perché alla fine le nostre vite non sono misere e possiamo sempre scegliere di essere migliori.
Qui la scelta non c’è. Non esiste umanità e non esiste redenzione.
Siamo davanti al grottesco della vita.
E ringraziamo di non esserci finiti noi, nel grottesco della vita. Perché probabilmente avremmo fatto la fine degli abitanti di Carino, che di carino non ha proprio nulla.
È un bel libro, Autogrill. Ci devi entrare, devi averne molta voglia, ma quando ci entri vuoi sapere come va a finire la storia di tutti questi personaggi che si intrecciano un po’ con la storia del Paese che ci piacerebbe dimenticare ma fa parte di noi (tra l’altro ben documentata, altro pregio del bravo autore che ci sa fare con le parole: è un pignolo e fa ricerca storica, non lascia niente al caso, nemmeno Oliver Bierhoff che per chi non sa nulla di calcio sarà un nome qualunque, ma per me è parte dei ricordi di adolescenza).
Leggetelo. Poi se non vi piace potete tornare a discutere con me. O direttamente con l’autore.