Ho sempre avuto uno strano rapporto con il bianco. È per me un colore freddo, respingente, ostile. Un vuoto gelido denso di attese. Come un foglio che, immobile, freme dal desiderio di essere violato. Come un silenzio sospeso, racchiuso nello spazio avvolgente di un punto coronato.
Per questo ho sfogliato con un misto di cautela ed inquietudine Sonno bianco di Stefano Corbetta, indugiando a lungo sull’immagine di copertina, sostando in punta di piedi sulla soglia di un’immagine eloquente e terribile, che richiamava alla mente altre immagini, altrettanto eloquenti e terribili. Un tavolo e quattro sedie vuote, una delle quali riversa sul pavimento. È strano il modo in cui affiorano i ricordi, all’improvviso. Ricordi che non sospettavo neppure di aver trattenuto nella mente e che invece sono riemersi, prendendo posto attorno a quel tavolo, lasciando quella sedia irrimediabilmente riversa e vuota. Non voglio mai sapere nulla di un libro che sto per leggere, perché ogni dettaglio possa dirmi qualcosa, suggerire una possibile interpretazione, ipotizzare una probabile direzione. Sonno, bianco, vuoto. Tre elementi difficili da maneggiare, sfuggenti, vaghi, indefiniti. La parola rischia di tradire, di violare, di dire più del necessario. Una famiglia spezzata, due gemelle divise da un destino beffardo, una imprigionata nel sonno, l’altra che reca nel corpo il segno indelebile di quella violenta cesura sono i temi apparenti attorno ai quali si avvolge la narrazione. Un presagio iniziale, appena accennato. Fotogrammi che si susseguono lenti, precisi, paralleli. La gita delle bambine, la separazione esitante, il rientro dei genitori a casa: qualcosa nel ritmo della scrittura suggerisce la rottura dello specchio, l’improvviso disastro, l’interruzione del rassicurante flusso della quotidianità, lo scontro con l’abnorme. E qualcosa accade, in effetti, incarnandosi nell’immagine di una pallina che rotola oltre, di un silenzio gelido, di uno squarcio insanabile. Eccoli i veri protagonisti del romanzo di Corbetta: il vuoto, il silenzio, l’assenza. L’unità di una famiglia che si schianta in mille pezzi, la comunicazione che si raggela in un muto silenzio accusatore, l’assenza tangibile (e paradossalmente sempre presente) dell’unica persona che avrebbe il potere di rimettere ogni cosa a posto e che giace invece immobile, lontana, dormiente.