Il 16 aprile del 1889 nasce a Londra Charles Spencer Chaplin, meglio noto come Charlie, uno dei volti più amati e conosciuti del cinema internazionale di epoca hollywoodiana. Sceneggiatore, musicista, produttore cinematografico e regista, ma soprattutto attore di spicco dell’era del muto, Chaplin diventa celebre come interprete della stand up comedy negli anni ’20, partendo dal music-hall (corrispettivo britannico del vaudeville), nei film La febbre dell’oro, Tempi moderni, Il Grande Dittatore, Il monello, Le luci della ribalta.
Bisogna ricordare che la comedian comedy è una comicità ampiamente costruita intorno all’azione violenta, agli inseguimenti, alle gag fisiche, uno stile definito in inglese slapstick dal nome del bastone con cui i clown simulano le percosse fisiche. Stuart Kaminsky considera la vicenda canonica della comedian comedy come quella di un individuo che
«cerca di stare al passo con la propria cultura, le cui avventure comiche derivano innanzitutto dall’incapacità di inserirsi nella propria società»[1].
Il personaggio caratteristico della comedian comedy trova la sua massima costruzione nell’emblematica maschera chapliniana di Charlot, il vagabondo che non sa (e non vuole) collocarsi stabilmente all’interno del tessuto sociale. Chaplin scoperto da Adam Kessel nel 1913 in un teatro di varietà, viene scritturato nelle commedie Keystone: inizialmente non presenta particolari caratteristiche fisionomiche, finché in Tullie’s Punctured Romance (1914) emerge il conclamato ometto dall’aria dinoccolata e sorridente, che indossa la classica bombetta, pantaloni lunghi e larghi, che cammina buttando all’infuori le punte dei piedi calzati da enormi scarpe e muove il bastoncino flessibile, ridiventando d’improvviso serio quando sveste tali panni.
Nel 1914 la casa di produzione Essanay propone a Chaplin 1200 dollari alla settimana per lavorare in una serie di film, con titoli che portano il suo nome e che fanno il giro del mondo: Charlie’s Night Cut, Charlot boxeur (Champion Charlie), Charlie The Perfect Lady, Charlie at the Snow, e altri. In questi film a soggetto comico lo spettatore paga per divertirsi, pur sapendo che la trama e i personaggi sono una escalation di battute, azioni e funzionalità sempre identiche e reiterate, infatti finita una gag se ne intraprende un’altra, persa un’opportunità di lavoro o sentimentale Chaplin ne coglie un’altra al volo. Questi sceneggiati sono il preambolo preparatorio dei grandi classici che osannano Chaplin così come le biografie riportano, dalle innumerevoli trovate comiche della prima fase dettata dalle “torte in faccia” fino alle atmosfere surrealiste come un Charlot astuto commesso, dove in un negozio di rigattiere l’attore tratta un orologio rotto, portato da un cliente, come fosse una scatola di sardine e infine come un paziente ammalato e in fin di vita.
Solo a partire dal 1915, quando entra nella Lone Star Mutual Corporation, Chaplin compie una vera e propria crescita del suo personaggio mediante film quali One Night in a London Club o The Vagabond, The Floorwalker, La strada della paura (Easy Street), L’Emigrante, La cura miracolosa (The Cure), The Adventurer. In questi film le trame sono maggiormente strutturate e quindi l’attore riesce a dare forma a contenuti più complessi, gesti più fini: emerge a poco a poco il tipo del vagabondo, il little fellow, che diverrà poi tradizionale, ma si tratta pur sempre di pantomime che fanno guadagnare cifre straordinarie all’interprete inglese.
Chaplin non solo fa ridere la gente, ma incarna quelle le inclinazioni storiche proprie della sua e di epoche successive. Il suo cinema è universale perché si rivolge non solo a riflettere gusti, modi e tendenze di un’epoca storica determinata, i primi vent’anni del Novecento, ma perché dietro e per mezzo di questo rispecchiamento l’attore inglese ha potuto sperimentare, canalizzare, individuare e infine descrivere uomini reali e situazioni concrete. Il vero obiettivo del cinema di Chaplin è l’Uomo nel suo vivere sociale e interiore, nel suo cercare la propria realizzazione negli altri e in se stesso.
Nell’ottica di Oldrini, il cinema di Chaplin va inserito nel filone del realismo cinematografico, tendente al realismo di Thomas Mann, proprio in virtù di una portata artistica che favorisce l’indagine della realtà e offre una sua trasformazione integrale, per quanto generica o differente, dell’umanità individuale e borghese. Un realismo, oltre che evidenziarsi nei principi di rispetto e difesa della totalità della persona umana, è ravvisabile anche nell’incarnazione degli ideali non tanto del proletariato americano quanto del sottoproletariato, il solo slegato dalle dinamiche di integrazione sociale dell’America degli anni ‘30.
Chaplin usa il cinema anche come mezzo di denuncia: nei suoi primi film primeggia indubbiamente l’intrattenimento, ma la denuncia è un elemento intrinseco, essenziale, che va man mano prendendo sempre più piede fino alla sua mutazione negli ultimi film in un vero e proprio impegno civile, senza mai tenere fuori il pubblico e il suo riso mondano.
Il piccolo vagabondo è l’archetipo della vittima di un capitalismo feroce e alienante, di conseguenza la comicità chapliniana, così dirompente e dilagante, non fa che proteggere il peso di una caduta piatta e pratica, così come si legge nell’articolo di Julian Johnson del 1918, Photoplay, dove Chaplin si lamenta della fama e di come le richieste del pubblico cambino così velocemente tanto da influenzarne il lavoro e dunque l’osservazione sulla natura umana.
In un altro pezzo sul New York Times Book Review and Magazine del 1920, egli osserva sfacciatamente la stanchezza del mondo, di come quel vagabondo avesse ormai assunto per lui una realtà inquietante, irriconoscibile, a cui risponde:
«solitude is the only relief. The dream-world is then the great reality; the real world is an illusion. I go to my library and live with the great abstract thinkers – Spinoza, Schopenhauer, Nietzsche and Walter Pater».
Si configura in definitiva un personaggio solitario, come il suo monello o il piccolo vagabondo, fuori da ogni sistema e sfuggenti al potere autoritario:
«Grande tra i grandi, egli si erge nel cinema, per questo lato, come una figura non solo geniale e irripetibile, ma solitaria»[2].
In Tempi moderni (Modern Times, 1936, quinto film di cui è produttore lo stesso protagonista), ad esempio, Chaplin (al contempo regista e attore), non essendo in grado di adeguarsi ai ritmi frenetici del lavoro di fabbrica, alla fine decide di intraprendere la vita di vagabondo che caratterizza Charlot. Tempi moderni non solo è il film d’addio, ma decanta la sintesi dell’umanesimo chapliniano, come in altri film dell’autore, però, a differenza di altri, il protagonista è accompagnato da una figura femminile (Paulette Goddard) che, secondo copione, passa in secondo piano, sovrastata dall’egocentrismo dell’attore.
Il sentimentalismo di Charlie Chaplin, tuttavia, è un elemento importante della sua arte e ne acuisce la spinta all’immaginazione, al sogno, al rifugio soprattutto quando si rivolge a chi non vuole confidare nella concreta possibilità di trasformare il mondo, e impedisce alla propria capacità immaginativa di assorbirlo, o al contrario considera tale trasformazione auspicabile e imminente, come fa Chaplin nel finale de ll Grande Dittatore (nel quale l’attore/regista rappresenta una forte satira contro il Nazismo, accusandone i crimini ma anche prendendo in giro la figura di Adolf Hitler).
I due elementi di cui si serve Chaplin per distruggere la corteccia di viscide intenzioni, di volontà fallaci, di insaziabilità, di violenza, di disumanità del capitalismo moderno sono di fatto sentimentalismo e immaginazione, inoltre insieme ad un altro essere umano, in particolare una donna, sviluppa una strada del tutto nuova e brillante per ricostruire la natura umana in un mondo risorgente.
Nella massa di crisi economica, industriale e civile, tra immagini di fabbriche (ad esempio quella automobilistica Ford) e metropolitane, fornaci, operai e luci cittadine (per via dell’avvento dell’energia elettrica) che si concretizzano nei piani sequenza dei suoi film, si sviscerano gli ideali di un individualista borghese che si pone a metà tra realismo e sentimentalismo. Charlie Chaplin usa il primo come strumento ermeneutico e il secondo come scialuppa di salvataggio, sforzandosi di garantire una prospettiva collettiva – per quanto individualistica – in gag e battute dal sapore tutt’altro che superficiale e comico, per il suo tempo.
Il finale di Tempi moderni, infatti, viene riscritto per riunire i due protagonisti (ispirato probabilmente dall’amore che legava i due attori fuori dal set) in un film a due voci, dove finalmente Charlot trova il suo alter ego femminile.
[1] S.M. Kaminsky, Generi cinematografici americani, trad. it., Pratiche, Parma 1997, p. 169.
[2] G. Oldrini, Il realismo di Chaplin, Bari, Laterza, 1981, p. 198.
BIBLIOGRAFIA
P. Ackroyd, Charlie Chaplin, Milano, Isbn edizioni, 2014.
G. Alonge – G. Carluccio, Il cinema americano classico, Bari, Laterza, 2020.
G. Cremonini, Charlie Chaplin, Firenze, Il castoro cinema, 1978.
S.M. Kaminsky, Generi cinematografici americani, trad. it., Parma, Pratiche, 1997.
G. Oldrini, Il realismo di Chaplin, Bari, Laterza, 1981.
D. Robinson, Chaplin – La vita e l’arte, Venezia, Marsilio Editori, 1985.