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La mostra Tre storie dalla via Campana

Tre storie dalla via Campana

Condividere la ricerca, far crescere il Patrimonio con i cittadini

Mostra archeologica 20 aprile 18 giugno 2023
al Drugstore Museum di via Portuense, 317

Una strada, anni di ricerca sul campo, tre reperti particolari, un convegno, un ciclo di conferenze per i cittadini: Tre Storie dalla via Campana è il titolo della mostra archeologica della Soprintendenza Speciale di Roma presso il Drugstore Museum di via Portuense 317 che verrà inaugurata il 19 aprile 2023.

Un percorso espositivo che arricchisce il patrimonio culturale del Drugstore Museum con cui avvicinare i cittadini, i non addetti ai lavori, i visitatori, alle attività che derivano dall’archeologia preventiva e dalla ricerca scientifica.

Il Circuito Necropoli Portuense – Drugstore Museum, giunto ormai al suo terzo anno di vita,– ha dichiarato Daniela Porro, Soprintendente Speciale prosegue il suo cammino di museo di prossimità, arricchendo ulteriormente le sue proposte di servizi culturali per i cittadini con questa nuova mostra dedicata ad alcuni dei più significativi e recenti ritrovamenti archeologici dalla via Campana-Portuensis.

Tre storie dalla via Campana, questo il titolo della piccola esposizione, non solo è l’occasione per rendere noti alla comunità scientifica e divulgare al pubblico tre nuovi e importanti monumenti antichi ritornati alla luce nel corso delle ordinarie attività di tutela del territorio da parte della Soprintendenza Speciale di Roma, ma anche per sperimentare nuove forme di comunicazione e condivisione del Patrimonio culturale con la comunità dei cittadini”.

Il titolo non è casuale, il progetto espositivo propone un percorso narrativo attraverso la storia della via Campana e un’immersione nelle storie che la ricerca archeologica permette di ricostruire. I tre oggetti portati all’attenzione dei visitatori sono:

  1. un raro cippo iscritto, che testimonia l’attividei pretoriani a Roma in qualità di costruttori di strade; cippo che è anche la più antica testimonianza epigrafica sulle coorti pretorie finora nota nell’Urbe

  2. Una testa-ritratto non finita appartenente ad un sarcofago del III secolo d.C., ma finita per motivi sconosciuti, prima di giungere alla sua naturale destinazione, come materiale di riuso in una delle pavimentazioni tardo-antiche della via Campana- Portuensis

  3. Un bronzetto di III secolo d.C. raffigurante una divinità orientale, che finora non sembra trovare confronti e che resta al momento di difficile identificazione, forse perduta da un viaggiatore o da un mercante lungo la via Campana-Portuensis. Un pezzo unico, che testimonia in modo iconico il pluralismo culturale e le capacita` sincretistiche del paganesimo di e imperiale

L’archeologo – ha spiegato Alessio De Cristofaro, curatore della mostra lavora per ricostruire la storia e la vita delle cose sopravvissute al naufragio della memoria e della Tradizione. Lavora con gli strumenti scientifici di quella che in gergo si chiama filologia storicistica: ovvero, cerca di ricostruire con la maggior oggettività possibile la natura e l’origine delle cose, i loro significati e rapporti, il senso e la funzione. L’archeologo è un biografo delle cose: ne racconta vita, morte e miracoli. Passa la vita a cercare di chiarire i rapporti di causa e effetto tra le cose, a metterle in ordine nello spazio e nel tempo, a ricostruire il lento e complesso svolgersi delle vite infinite delle infinite cose che compongono ciò che chiamiamo Storia”.

A corredo dell’esposizione, quasi fosse una guida verso un viaggio nel tempo e nei contesti, è stato realizzato un piccolo catalogo dal titolo Tre storie dalla via Campana. Un esperimento editoriale in cui, forse per la prima volta, nello stesso libro è possibile trovare un lungo racconto saggistico dal taglio divulgativo, e le consuete schede scientifiche sugli oggetti e i contesti esposti. Il tutto in un formato e in una carta pensati per poterlo leggere in poltrona, in viaggio, in vacanza, come un appassionante racconto da cui si può imparare divertendosi.

La mostra Tre storie dalla via Campana sarà accompagnata da una serie di iniziative per approfondire e condividere ricerche e studi adatte a tutte le età.

Si inizia venerdì 21 e sabato 22 aprile, con un importante Seminario di Studi internazionale in cui saranno presentati e discussi tutti i più rilevanti scavi effettuati lungo il tracciato dell’antica via Campana-Portuensis negli ultimi 20 anni (molti inediti e sconosciuti).

Ogni sabato dal 6 maggio al 10 giugno (ad eccezione di sabato 3 giugno) si terrà un ciclo di incontri dal titolo Storie dalle strade di Roma antica con focus dedicati alla via Flaminia, alla via Tiburtina, alla via Tuscolana/Anagnina, a una delle grandi strade dell’antichità, ovvero il fiume Tevere, e a una moderna infrastruttura, la Metro C, che sta riportando alla luce storie straordinarie.

Info utili:

La mostra sarà aperta al pubblico dal 20 aprile al 18 giugno 2023 dalle 10 alle 19, tutti i giorni dal lunedì alla domenica.

Come sempre l’ingresso è gratuito.

Le conferenze sono ad ingresso libero fino ad esaurimento posti. Per info e prenotazioni ss-abap-rm.drugstore@cultura.gov.it

Le iniziative del Circuito Necropoli Portuense – Drugstore Museum possono essere sostenute attraverso il circuito virtuoso dell’Art Bonus

(https://artbonus.gov.it/1682-drugstore-museum,-nuovo-progetto-museografico.html)

I reperti raccontano: tre storie dalla via Campana

Storia di un cippo

La civiltà romana è stata una civiltà della scrittura per eccellenza: i Romani, per secoli, hanno prodotto un’infinità di epigrafi (testi incisi su pietra o bronzo) per rendere pubblica ogni genere di comunicazione.

Il contesto del ritrovamento del Cippo nell’area archeologica di Pozzo Pantaleo

Il cippo in tufo lionato (il cosiddetto Tufo di Monteverde) proviene dall’area di Pozzo Pantaleo, una zona che negli ultimi decenni è stata oggetto di molteplici indagini archeologiche connesse con le trasformazioni della città contemporanea. È probabile che l’area archeologica di Pozzo Pantaleo, all’incirca tra le età di Claudio e di Commodo (I-II secolo d.C.), costituisse il punto di trapasso tra l’edificato urbano e suburbano e la vera e propria campagna. Da qui, la via Campana procedeva alla base delle pendici dei Colli Portuensi.

La stretta vicinanza del Fiume – meno di 800 metri in linea d’aria – costituiva un pericolo per le periodiche esondazioni e contribuiva all’innalzamento delle acque di falde nelle stagioni più piovose. Non è dunque un caso se, nel corso degli anni, gli scavi di Pozzo Pantaleo hanno riportato alla luce alcuni impianti monumentali che sembrerebbero connessi con la gestione e la regimentazione delle acque. Il cippo è stato rinvenuto nel corso dello scavo per il rifacimento del ponte della ferrovia Roma-Pisa, nel 2013. Non era nella sua posizione originaria, ma reimpiegato a testa in giù come lastra per pavimentare un ambiente di un impianto termale in uso tra il III e il IV secolo d.C. Si conserva, tutto sommato, in buone condizioni, nonostante le ingiurie del tempo dovute al suo reimpiego e alle circostanze del suo ritrovamento e recupero.

Il reperto racconta la storia di un’azione fuori dall’ordinario, condotta da una sesta coorte pretoria. La formazione del gruppo militare dei pretoriani risale al 27 a.C., anno in cui inizia il principato di Augusto. Oltre ad occuparsi della sicurezza personale dell’imperatore e della sua famiglia, le coorti pretorie eseguivano lavori di pubblica utilità, come la manutenzione o il ripristino di strade e viadotti, come testimoniato dal cippo in mostra, il primo, peraltro, relativo a lavori svolti sul suolo urbano.

Storia di un ritratto

La testa-ritratto femminile è stata rinvenuta il 19 dicembre del 2020 in via di Villa Bonelli, nel corso di lavori di archeologia preventivi alla realizzazione di un nuovo supermercato.

Il ritrovamento della testa-ritratto in via di Villa Bonelli

È stata rivenuta scavando uno strato pavimentale – il più recente in ordine di tempo – appartenente alla via Campana; gli archeologi definiscono questo tipo di pavimentazione glareata, ovvero un piano stradale realizzato con terra, ghiaia (glarea, in latino) e vari materiali inerti ben pressati tra loro. Moltissimi degli inerti usati nel battuto sono scarti di materiali precedentemente usati altrove in edilizia, ma anche oggetti di uso quotidiano, come utensili, o di altri materiali edili come tufi, travertini o marmi.

La testa viene da questo battuto dove era finita non per il suo valore artistico o il suo significato iconografico, ma, presumibilmente, per essere utilizzata in modo pratico come inerte. La caratteristica che colpisce è che si tratta di un’opera solo sbozzata, la cui lavorazione non è stata portata a compimento né nella fisionomia né nell’acconciatura. Tuttavia, nonostante le apparenti lacune, il manufatto è in grado di fornirci ancora molte informazioni su quella che possiamo definire la sua “prima vita”.

La testa-ritratto esposta è un oggetto incompiuto. Le differenti lavorazioni sul volto e l’asimmetria dei tratti somatici sembrano dividere il manufatto in due parti: quello sinistro, appena sbozzato, e quello destro maggiormente lavorato. L’opera, in marmo proconnesio, pregiato materiale estratto sull’isola di Proconneso, sul mar di Marmara, è stata attribuita a una defunta semidistesa su un coperchio a forma di kline (termine greco che indica il letto dove ci si stendeva per riposare o mangiare in occasione di banchetti) pertinente a un grande sarcofago. Nei coperchi a kline la testa della donna è rivolta a sinistra verso il marito, così che la parte destra del volto risulti in primo piano. Questo spiega la maggior cura su questa metà del volto e sull’acconciatura. Sul retro, la testa veniva lasciata appena sbozzata per evitare danneggiamenti nel trasporto dalla cava all’officina, dove veniva completata e consegnata all’acquirente. Nei coperchi a kline le teste-ritratto dei defunti potevano anche essere lasciate incompiute: questo tipo di coperchio, non tra i più comuni a Roma, si ispirava ai sontuosi sarcofagi attici e poteva essere abbinato a casse del tipo a colonne o a fregio continuo. Farsi immortalare seduti a banchetto “alla greca” denotava la volontà della coppia di celebrare un costume aristocratico praticato (o ambìto) in vita. Possiamo immaginare un committente facoltoso per questo tipo di sarcofago. È possibile ipotizzare una datazione dai pochi dettagli forniti dall’acconciatura. Ad esempio, i capelli ripiegati dietro l’orecchio destro lasciato scoperto collocano il ritratto in età severiana, trovando riscontro nella pettinatura di Giulia Mamea, madre di Severo Alessandro, imperatore dal 222 al 235 d.C. Il retro dell’acconciatura poteva prevedere uno chignon ovale, formato da trecce arrotolate concentriche, oppure una treccia condotta dalla nuca fin sulla parte superiore della testa, tipica della nobiltà femminile del III secolo d.C. Lo stato di lavorazione della testa-ritratto non ci permette di scegliere con sicurezza tra queste due varianti; tuttavia, l’assenza di predisposizione per la terminazione della treccia sulla sommità della testa, indurrebbe a procedere per esclusione e a datare il manufatto entro la prima metà del III secolo d.C.

Storia di un bronzetto

La statuetta in bronzo, databile nel III secolo d.C., è di una notevole varietà iconografica: il viso ha i lineamenti di un giovane uomo la cui posa ricorda quella di Apollo Citaredo o di Orfeo. Porta una lunga tunica sopra un paio di brache, che nell’arte antica sono il costume tipico degli orientali (Persiani, Sciti etc).

La figura regge sul braccio sinistro un piccolo ovino, caratteristica che richiama l’iconografia greca del crioforo, letteralmente il portatore di ariete. È probabile che avesse anche un pedum (un bastone da pastore), poggiato di traverso al corpo, oggi perduto. La capigliatura è di tipo “libico” o a “boccoli libici”, tipica del mondo africano (libico, per gli Antichi), e simile a quella di alcune iconografie della dea Iside. Sulle spalle porta un mantello realizzato con una pelle conciata di ariete, le cui zampe fungono da lembi per l’allaccio e la testa cornuta da cappuccio.

A oggi è ancora difficile restituire un’identità precisa alla statuina; l’abbigliamento e la capigliatura sembrano collegarla a una divinità di un non precisato culto orientale, potrebbe essere una divinità proveniente dalle sponde orientali del Mediterraneo, appartenente ai così detti culti orientali. Iside, Serapide, Mithra, Baal, Cibele, Atargatis, ÈlGabal: molti sono gli dèi e i culti orientali diffusi nel mondo romano di età imperiale. È possibile che un oggetto così` piccolo, forse appartenuto a un viandante o a un commerciante di origine orientale, fosse un’immagine di culto portatile andata dispersa. Sappiamo per certo che il bronzetto viene dai pressi della via Campana, ovvero la strada che univa i due luoghi più multietnici e popolari di Roma antica: Portus e Trastevere. In età imperiale. La Regio XIV Transtiberim pullulava di numerosi culti orientali, che rispondevano ai bisogni spirituali della sua densissima popolazione residente.

Il bronzetto è stato rinvenuto nel corso delle indagini di archeologia preventiva svolte tra il 2009 e il 2012, in una zona del Municipio XI nota come Magliana Vecchia.

Il ritrovamento del bronzetto in zona Magliana Vecchia

L’enigmatico bronzetto è stato ritrovato, da solo, all’interno di un delle frequenti opere di drenaggio dovute agli allagamenti e alle oscillazioni stagionali delle acque di falda. A non troppa distanza, è venuta in luce anche una tomba, in semplice fossa terragna e del tutto priva di corredo: ma non sembra avesse alcuna relazione con la statuina. Per il suo totale isolamento, il bronzetto sembrerebbe un vero e proprio oggetto smarrito.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa – Soprintedenza Speciale di Roma

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