«Tanto la rivoluzione non scoppierà» di Carlo Bernari: una felice riscoperta
Un giallo? Un romanzo allegorico? Una fotografia amara della società? Un libro-denuncia? Sono tutte definizioni calzanti per introdurre Tanto la rivoluzione non scoppierà di Carlo Bernari, edito da Mondadori nel 1976 e ristampato lo scorso anno da readerforblind nella prestigiosa collana le polveri, dedicata al Novecento.
Si tratta di un testo in cui lo scrittore napoletano veste i panni di Denito Elio (cognome prima del nome, come nei rapporti degli inquirenti), anarchico, dipendente di una ditta che finanzia segretamente una rivoluzione che non deve realizzarsi, intento alla stesura di un romanzo intitolato Il Grande Recupero, volto a smascherare i trucchi della società nel diffondere menzogne, verità da fabbricare e distribuire.
In questa opera coraggiosa, l’autore inserisce una seconda trama, che si intreccia con la prima, in cui si verificano fatti di sangue, arricchendo le vicende di personaggi ambigui. Non mancano le figure femminili ad animare la vita del protagonista, un uomo con la sua missione, «uccidere per uccidersi», che più volte si abbandona a profonde riflessioni:
«Poiché, oltre che silenzio, il mio udito avvertiva vuoto; che, sconfinando dentro di me, mi restituiva quel che non ero, quel che non volevo essere, risultato delle sottrazioni di tutto ciò che, di irrealizzato, mi avanzava dai miei rapporti con il mondo» (p. 175).
Carlo Bernari, giornalista, scrittore e sceneggiatore, ha attraversato il secolo scorso vivendolo intensamente. Vent’enne firmò, assieme ai pittori Guglielmo Peirce e Paolo Ricci, il Manifesto di Fondazione dell’Unione Distruttivisti Attivisti, movimento futurista napoletano. Il suo romanzo più famoso, Tre operai, fu censurato dal fascismo. Nel 1950 vinse il Premio Viareggio con il romanzo Speranzella. Collaborò anche alla sceneggiatura del film Le quattro giornate di Napoli di Nanny Loy, del ‘64. Da non dimenticare la sua plaquette poetica, del 1977, intitolata 26 cose in versi.
Autore anche di articoli giornalistici e saggi, ha dato il suo massimo apporto alla narrativa, genere che ha stravolto, attraversandolo in lungo e in largo, tingendo le proprie pagine di politica, attualità, temi sociali e storici, mantenendo uno stile che spesso trascendeva la trama, con l’intento di comunicare altro.
È il caso anche di Tanto la rivoluzione non scoppierà, testo il cui aspetto più interessante è proprio quello celato, che si confonde con la cronaca e che si manifesta talvolta in lunghe riflessioni:
«Dove s’è vista mai un’epoca – che pure abbiamo battezzato della tecno sfera – più sommersa di questa finzione letteraria? Tutto affoga nella parola, responsabilità e irresponsabilità, e tutti a farvi ricorso reputandosi capaci di servire per dritto e per rovescio; e coloro che ancora resistono non è perché si ritengono inidonei a adoperarla in funzione letteraria, ma perché non hanno avuto il tempo di farlo; mentre per i pochissimi che si vedono tuttora vietata ogni prospettiva letteraria la parola è come il fumo o la droga, un vizio che si prende da ragazzo, e ormai è tardi per incominciare. Logica conseguenza è che il consumo letterario raggiunge le cifre che ha raggiunto e che tu stesso puoi sentirti autorizzato a farne spreco, non limitandoti a stampare con parsimonia. In questa duplicità c’è il vizio che va colpito: poiché dopo avermi utilizzato come intelligenza salariata, sempre sull’orlo del tradimento, ma pur sempre recuperabile, tu altrui per tuo conto il mio recupero, ma in funzione e in finzione di un personaggio letterario» (p. 115).
Sfogliando le pagine del libro, si sommano tutti gli strati della società, come in una lasagna agonizzante il cui sugo, che inonda ma dà sapore, è rappresentato dal Meridione, affascinante e maledetto, una condizione impossibile da eliminare, un luogo che stimola domande, come quelle formulate da Denito:
«E a che mi è servita quest’esperienza? Tutti questi libri che ho letti, come tu dici, studiati, a che mi sono serviti? A farmi pentire di averli aperti? O a ricordarmi quello che non ci ho mai trovato, e mentre li leggevo già pensavo a quelli che avrei letto poi e che ormai non leggero più, e non mi serviranno più?» (p. 189)
A noi, però, i libri di Carlo Bernari servono e non ci pentiamo di leggerli. E bisogna anche ringraziare editori coraggiosi, come readerforblind, che riportano alla luce certe perle del Novecento offrendo al lettore suggestioni ed emozioni che non invecchiano mai, oltre che spunti sempre nuovi e attuali.
Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.