Con un linguaggio raffinato, che si muove tra tradizione e sperimentazione, tra mito e vita quotidiana, ne Il passero bianco, dato alle stampe quest’anno da Vallecchi Firenze, Sofia Fiorini torna a sfidare i lettori e a interrogarli sul confine fragile tra ciò che si vede e ciò che invece no, tra l’innocenza perduta e la consapevolezza ritrovata, offrendo un viaggio nell’ombra che è allo stesso tempo anche un cammino di luce.
Clicca qui per l’intervista di Francesca Barracca a Sofia Fiorini
Clicca qui per il commento a cura di Francesca Barracca
Clicca qui per le informazioni ufficiali sull’opera
–
commento a cura di Francesca Barracca
L’evoluzione poetica nel passaggio da La perla di Minerva a Il passero bianco
Il confronto con la precedente silloge La perla di Minerva (La noce d’oro, 2023) appare allora non solo inevitabile, ma fecondo, perché permette di dimostrare come l’autrice sappia muoversi con sapienza e coraggio tra simboli millenari e nuove domande esistenziali, mantenendo sempre la poesia come strumento privilegiato di conoscenza e trasformazione.
Il passero bianco, infatti, si conferma come un’opera emblematica della produzione della poetessa, un seguito ideale e al contempo un’evoluzione della sua precedente silloge. Se però La perla di Minerva si immergeva nei miti e nei rituali del mondo classico, con una forte impronta simbolica legata al rito di passaggio femminile, la nuova raccolta assume la forma di una fiaba iniziatica in versi che esplora territori esistenziali sospesi tra vita e morte, realtà e sogno, infanzia e perdita dell’innocenza.
Da puellae a nubendae: la perla di Minerva, di Sofia Fiorini – intervista
Tematiche e simboli: il cammino e il confronto tra le guide
In La perla di Minerva, Sofia Fiorini costruisce un viaggio poetico e simbolico che vede una fanciulla, Belladonna, guidata dalla dea lunare Minerva, affrontare il passaggio dall’essere bambina (puella) a futura sposa (nubenda). Qui la poesia si fa rito, e il viaggio di Belladonna è un percorso iniziatico attraverso il tempo ciclico, scandito da simboli complessi come il serpente, la perla, la luna e le creature notturne. Con Il passero bianco, la poetessa amplia il suo orizzonte tematico e formale, pur ricorrendo a simboli ben individuabili: la raccolta tratteggia sì il viaggio di una giovane, ma stavolta la chiamata per la catabasi è a partire da una creatura infera, il passero bianco, simbolo ambivalente legato proprio all’aldilà.
Il primo segreto
fu che non potevo cacciare.
C’era tra gli alberi il passero bianco
che avevo visto nei sogni.
Strano destino essere scelti
da una creatura degli Inferi
e non sapere più
come si fa a abitare il mondo.[1]
Sostenuta da una solida struttura narrativa, la poesia si snoda come un lungo respiro che fonde linguaggi antilirici, ironie sotterranee e immagini oniriche, evocando un paesaggio in cui il confine tra realtà e irrealtà è piuttosto labile. La protagonista, cui l’autrice presta il proprio nome, affronta prove di crescita che comprendono la caccia, l’amore, il rituale e misteri nascosti, accompagnata, oltre che da creature cosiddette “genti beate”[2], da animali messaggeri che, intrecciando parole sagge e sarcastiche in dialoghi inaspettati, svelano la complessità e la fragilità della condizione umana. La fiaba si rivela così un grande gioco di metamorfosi e inganno, dove nulla è quel che appare.
Che sorpresa quel mattino
umido sul fiume, credersi morta
e scoprirsi capace di dolore.[3]
Inoltre, se nel titolo precedente il viaggio era un processo di individuazione e rinnovamento legato a un destino ciclico e collettivo, Il passero bianco preferisce un sentiero in salita, la sfida individuale e la scoperta di sé in un territorio liminale e fragile. Mentre Minerva era una guida divina e lunare che prometteva trasformazione, il passero bianco è colui che mette alla prova la protagonista, tra lo splendore del mito e l’ombra di un mondo oscuro ancora da conoscere. Entrambe le figure rappresentano spiriti guida, ma con caratteristiche e prese di posizione differenti: da una parte la dea sapiente, dall’altra una creatura misteriosa, che richiede all’io una lotta più complessa e disarmata.
Tematicamente, dunque, le due opere indagano soprattutto la femminilità, la trasformazione e l’iniziazione, ma Il passero bianco lo fa attraverso la lente della fiaba, con una narrazione giocata sul confine tra innocenza e crudeltà, tra appetito e rinuncia, tra la morte apparente e una resurrezione simbolica. La presenza di animali messaggeri e di creature fantastiche, il dialogo con il corpo, la tensione del segreto e dell’inganno costituiscono un tessuto lirico che rende la raccolta contemporanea nei temi quanto nella sensibilità.
Un respiro poetico tra leggerezza e profondità narrativa
Da un punto di vista stilistico, Il passero bianco si contraddistingue perlopiù per un passo lieve, come quello che il gatto ricorda alla protagonista di possedere e che è anche ciò che la distingue dalle altre, un dono che, impugnato dalla poetessa, riesce a conservare la giusta tensione per tutta la durata del percorso narrativo.
E il gatto venne un mattino –
io avevo i piedi a mollo.
«Guarda che non sei un albero»
In che senso, gatto?
«Possiedi
il dono del passo.»[4]
Alchimista del verso e della parola, Sofia Fiorini tesse così una parabola simbolica che travalica le epoche. Un tempo sospeso, uno spazio magico, ingressi nascosti agli adulti e ai lettori che tuttavia devono fidarsi fino alla fine, questo è Il passero bianco, un’opera che arricchisce e rinnova l’impegno poetico di Sofia Fiorini, consolidando la sua voce come una tra le più originali della poesia italiana contemporanea.
–
intervista di Francesca Barracca a Sofia Fiorini
Com’è nata l’idea del passero bianco? Qual è stata la molla che ti ha spinto a spostare la lente dal rito di passaggio femminile classico alla struttura della fiaba e in che modo questo cambio di struttura ti ha permesso di affrontare poi la trasformazione e la femminilità con una sensibilità nuova?
Gli abissi sono un’ossessione. La vertigine di una voragine che affonda negli Inferi non è la stessa di chi guarda lo strapiombo da un crepaccio. L’anima è come l’acqua dell’abisso: fa paura e insieme esercita un richiamo. I riti di passaggio sono qualcosa di cui siamo derubati. Riscoprirli è stato come avvicinare un lume alla pittura rupestre che si era tentato prima di decifrare con il dito al buio. La luce bagna appena la parete ed ecco che appare la coda del magnifico animale. Ma un rito, mentre riporta alla pienezza del presente, fa piombare nel buio tutto il resto. Il rito è tempo assoluto. Il lume dentro la caverna che rivela l’affresco. La fiaba – lo ha detto Cristina Campo – è la radice che si specchia nella chioma. Gli abissi parlano la loro lingua oscura, gli uccelli la loro lingua bianca: in fiaba e in poesia questa è un’unica favella.
Questo libro non è nato da un’idea ma, appunto, da un’ossessione. L’ossessione di appartenere a un altro mondo. E ha preso la forma di fiaba anche perché è stato scritto mentre di fiabe ne leggevo a grandi sorsi. Per tracciare un piccolo e sbilenco portolano di fiabe molto ben scritte: Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estés e i Monti pallidi di Karl Felix Wolff. A ispirarare un libro di poesie che fosse prima di tutto un unico discorso – e poi anche un racconto fiabesco, ci sono stati: Il conte di Kevenhüller di Giorgio Caproni, le Lettere di compleanno di Ted Hughes, le Cento poesie d’amore a Ladyhawke di Michele Mari, Le bambine dai capelli rossi di Eva Laudace. Parte magica nell’ispirazione della vicenda è stata poi la casualità di aprire, un giorno, un vecchio dizionario illustrato Vallardi delle Figure fantastiche e cadere con gli occhi sulla voce “Genti beate”.
A proposito delle “Genti beate”, c’è una sezione della raccolta a loro dedicata. Chi sono e che ruolo hanno nel percorso della protagonista?
Dice il folklore veneto che le Genti Beate fossero creature di mezzo, non-vive abitanti dei boschi della Lessinia, e che nel giorno dei morti si potessero vedere in processione portare in mano una fiaccola fatta di ossa umane. Creature attratte da ciò che gli umani dimenticano nei pressi del bosco, ma al contempo pericolose per loro – il solo tocco ne sarebbe fatale. La fanciulla protagonista di questa fiaba, seppur viva, le raggiunge e chiede loro asilo, perché non si sente abitante lecita del mondo dei vivi che abita. Solo tra di loro, dietro le cortecce di cui queste donne si vestono, le apparirà la differenza tra il suo corpo e quello delle sorelle pallide, verdastre, con tutto ciò che questo comporta: segreti, brividi, sangue messo a sciogliere nel fiume, amore dei nervi, paura di dover lasciare anche questo esilio.
Il passero bianco è descritto come un “totem infero” legato all’aldilà, che chiama la protagonista al viaggio iniziatico. Da dove deriva la scelta di questo simbolo così ambivalente? Quali nuove possibilità di conoscenza e trasformazione offre al lettore il confronto con una guida misteriosa e infera rispetto all’archetipo divino e sapiente di Minerva?
La simbologia iniziatica degli animali bianchi è nota, così come la connotazione classica degli uccelli come messaggeri tra mondi. É uno spirito bianco a vegliare sulla Fanciulla senza mani quando sta morendo di fame nel bosco e a prosciugare il fossato che la separa dal pereto del re. L’animale bianco parla direttamente all’anima e la guida nelle sfide. Il viaggio-esilio di questa fanciulla parte dalla disfatta, nel senso di rinuncia alla vita. Ma è un esilio vegliato da una guida – animale questa volta, e non più astrale – perché la ricerca non è cosmica ma carnale. E infatti, mentre Minerva è sapiente e suggerisce parole alla mente, il passero grida versi che fanno tremare le ossa. Se Minerva eleva gli iniziati ai suoi misteri, questo totem restituisce l’anima alata al proprio sangue.
La quotidianità e la dimensione onirica coesistono nell’opera. Come riesci a maneggiare questi due estremi — il sogno e la vita di tutti i giorni — mantenendo in equilibrio il racconto senza far cadere il lettore né nel puro onirico né nel didascalico?
Il poeta abita contemporaneamente due mondi. Vede il misterico nella realtà e vive il sogno come la vita vera. Il sogno non è nulla di astratto. L’attività onirica dilata fattivamente la realtà. Continuamente mette di fronte al destino. Così fa la vita. Sogno e vita, dentro e fuori dalla pagina, sono uno. Il sogno – dice Hilmman – è il sistema digestivo dell’inconscio. Se si considera la scrittura di un libro come una finestra di elaborazione acellerata di sé, mentre lo si scrive il sogno offrirà necessariamente intuizioni dorate. Alcuni versi di questo libro li ho scritti appena aperti gli occhi, prima che svanissero, come si fa coi sogni.
Il percorso della protagonista è tutto giocato su tre binomi principali: vita e morte, innocenza e crudeltà, appetito e rinuncia. Quanto è centrale per il percorso di crescita della tua protagonista proprio l’accettazione di questa ambivalenza?
Questo racconto è fitto di aperte contraddizioni. Quasi alla metà perfetta della brossura ci sono due poesie – che si guardano e si specchiano – di perfetta schizofrenia. Nella pagina di sinistra si legge: “mi ruppi le ossa – lo so/ a causa della nausea…” E in quella di destra: “uscita dal giardino in fiore/ con le ossa intere e un implacabile/ dolore…” Le ossa sono fratturate e integre, perché il corpo è una cosa e il corpo psichico è un’altra, e a noi viene imposto di abitarli insieme. Qualcuna l’ha già detto benissimo: “l’anima, che per l’uomo comune è il vertice della spiritualità, per l’uomo spirituale è quasi carne”[5].
La fanciulla è con e senza mani. É viva e morta. Si tuffa al centro e scappa lontano – brama e rifugge l’amore. Non so se cresca per o nonostante questo. Tumbas di Cees Nooteboom recita un adagio memorabile in quarta di copertina: “La maggior parte dei morti tace. Per i poeti non è così. I poeti continuano a parlare.” La rubo e la ricucio per dire una cosa che mi sembra altrettanto vera: “per la maggior parte di noi, i morti tacciono. Per i poeti non è così. Per i poeti i morti continuano a parlare.” Ci sono paesi in cui la coincidenza degli opposti è un’erba perenne. La poesia è uno di quelli.
Note:
[1] Sofia Fiorini, Il passero bianco, Vallecchi Firenze, 2025, p. 34.
[2] Ivi, p. 25.
[3] Ivi, p. 53.
[4] Ivi, p. 74.
[5] Marina Cvetaeva, Il poeta e il tempo, Milano, Adelphi, 1984, p. 99.
Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.
Sofia Fiorini, Il passero bianco
Collana: Vallecchi Poesia diretta da Isabella Leardini
Pagine: 98 Prezzo: 12 €
Vallecchi Firenze
Dal 25 luglio 2025 in libreria
Chi entra in queste pagine deve stringere un patto: leggere dall’inizio alla fine. Il passero bianco è una fiaba iniziatica in versi, della morte che nasconde la vita quando la vita nasconde la morte, del loro congiungersi in un territorio limite, tra il giardino e il bosco, tra l’infanzia e la sua perdita desiderante e definitiva. Un grande gioco di trasformazione include la morte apparente e il rischio dell’inganno sotto mentite spoglie, ma tutto in questa fiaba è onirico e reale, gli animali messaggeri che prendono sarcastici la parola, le creature di mezzo che cacciano per altra fame, il corpo segreto di sangue e ossa da nascondere. Qualcosa di crudele, incantato e tagliente lampeggia rapido, con sotterranea ironia: nessuno è davvero innocente; i dialoghi oracolari e improvvisi celano sempre una sorpresa. Sofia Fiorini ha intrapreso una direzione originale e complessa, quella della narrazione lirica affidata alla struttura, alla tenuta, a un lungo respiro che di pagina in pagina resta in equilibrio sulla storia.
«Hai il dono del passo»
dice il gatto alla protagonista, lo stesso si potrebbe dire dell’autrice, che ha un passo lieve, acuminato, precisissimo; la poesia di Sofia Fiorini riesce sulla distanza del sentiero in salita, sulla pazienza della trama. Nel telaio si intrecciano le dita dei grandi lettori di simboli, Ralph Waldo Emerson, da lei tradotto, Cristina Campo, nume tutelare dei rovesciamenti che nel fiabesco annidano il destino, Emily Dickinson madrina delle madrine, ma si fa avanti con distacco e decisione anche un’inattesa Patrizia Cavalli. Il passero bianco è il totem infero che sceglie la fanciulla, nel suo apprendistato ci saranno la caccia, l’innamoramento, il rito, tre segreti e un diverso finale.
Sofia Fiorini (Rimini, 1995) ha pubblicato in poesia La logica del merito (Interno Poesia, 2017 e 2023) e La perla di Minerva (La Noce d’Oro, 2023, finalista al Premio Carducci, Premio Flaiano, Premio Prato). Ha tradotto l’antologia italiana delle poesie di Ralph Waldo Emerson Il cervello di fuoco (La Noce d’Oro, 2022).
Comunicazione ufficiale e immagine della copertina dall’Ufficio Stampa 1A comunicazione.