La poesia come attesa: la visione simbolica di Eliseo Diego
Eliseo Diego (L’Avana, 1920 – Città del Messico, 1994) è considerato una delle voci più alte e singolari della poesia ispanoamericana del XX secolo. Fin dagli anni della sua giovinezza, fu membro del gruppo culturale raccolto attorno alla rivista Orígenes (1944–1956), diretto da José Lezama Lima, movimento intellettuale che seppe imprimere una svolta profonda alla cultura cubana attraverso l’incontro tra spiritualità, classicismo e sperimentazione formale. All’interno di questa cornice, Eliseo Diego trovò un proprio cammino poetico fatto di raccoglimento, di dedizione quasi mistica alla parola e di un approccio lirico alla memoria come strategia di difesa contro le grandi ossessioni che lo tormentavano: il tempo, la morte e la caducità della realtà visibile. La sua opera si configura come una resistenza silenziosa, tenace, contro l’oblio, e la poesia diventa per lui un modo di custodire le cose attraverso il gesto sacro di nominarle.
Il libro Poemas escogidos, pubblicato a Madrid nel 2015 dalla casa editrice Verbum, costituisce un documento poetico e umano di straordinaria intensità: la maggior parte dei testi raccolti è stata selezionata dallo stesso Diego, dando all’antologia un valore filologico e testimoniale del tutto particolare. Le poesie sono disposte secondo l’ordine di pubblicazione dei rispettivi libri, e il lettore può seguire così un filo evolutivo e spirituale che attraversa decenni di scrittura. Si assiste a un progressivo avvicinamento del poeta a una forma di lirismo epurato, malinconico e profondamente pensoso, in cui l’apparente semplicità stilistica si rivela una trappola sapiente: ogni verso è un frammento dosato con precisione, frutto di una coscienza letteraria che si esercita nell’ascolto del mondo. Questo lavoro di scavo nella quotidianità anonima è parte integrante della strategia poetica di Eliseo Diego.
Nei suoi testi gli oggetti semplici, come possono essere una sedia, un orologio, una finestra, assumono una presenza intensificata, quasi sacrale. Il poeta li osserva, li tocca con le parole, li nomina per salvarli dalla dispersione. È in questo gesto umile ma radicale che risiede la sua forma di impegno: dare alle cose un contesto, una trasfigurazione, talvolta una personalità, è per Diego un atto di amore e di resistenza. La sua poesia si nutre della memoria, ma non come rievocazione sentimentale: la memoria è materia viva, operativa, capace di fare presente ciò che rischierebbe altrimenti di dissolversi.
Lo conferma la figlia del poeta, Josefina de Diego, nella prefazione dell’antologia, intitolata Diálogo en la penumbra (pagg. 13-17):
“Mio padre, Eliseo Diego, impartì numerose conferenze in università e scuole, centri culturali, in Cuba e in altri paesi. Gli chiedevano con frequenza che spiegasse quello che era per lui la poesia, e sempre lo faceva attraverso le sue stesse poesie. Fu un uomo molto meticoloso, molto organizzato, era molto bravo con la meccanografia. Quando morì, ritrovai molti di quelle brutte copie delle conferenze in forma di manoscritti.”
Queste parole illuminano il rigore e la disciplina che sostenevano la sua scrittura, lontana da ogni improvvisazione e immersa in un lento lavorìo artigianale. La ricerca di Eliseo Diego era, in fondo, quella di un ordine possibile in un mondo che gli appariva frammentato e sfuggente. La sua poetica trova una delle massime espressioni nel libro di prosa poetica Versiones (1975), considerato dallo stesso autore uno dei suoi lavori più rappresentativi, le cui sezioni erano già apparse nei numeri della rivista Orígenes. In queste pagine, la lingua si fa meditazione, visione trasfigurata, frammento di tempo che si fa eterno.
Anche la sua narrativa riflette questa vocazione alla memoria come forma di resistenza: En las oscuras manos del olvido (1942), Divertimentos (1946) e Noticias de la Quimera (1975) sono libri che attraversano i territori della fantasia e del sogno, ma sempre con un fondo di inquietudine ontologica. Allo stesso modo, nei suoi saggi raccolti in Libro de quizás y de quién sabe (1989), Eliseo Diego elabora riflessioni sul senso della letteratura e sulla funzione salvifica della parola, mentre nell’opera di traduzione Conversación con los difuntos (1991) prosegue il suo dialogo con la memoria e con gli autori amati, tra cui John Donne e William Blake.
La profondità e la coerenza della sua opera gli valsero numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Nacional de Literatura de Cuba nel 1986 e, nel 1993, il prestigioso Premio Internazionale di Letteratura Latinoamericana e del Caribe “Juan Rulfo”, attribuito a chi ha saputo costruire un universo letterario capace di dialogare con la storia e la sensibilità del continente. La voce di Eliseo Diego rimane oggi una delle più singolari e penetranti della poesia di lingua spagnola. Lungi dall’essere soltanto l’espressione di un lirismo intimista, la sua opera rappresenta un’esplorazione filosofica della realtà attraverso la parola. Nominare, per lui, significava salvare: era un modo per sottrarre le cose al silenzio e alla dimenticanza. Il poeta, così, si fa custode, archivista della fragilità, e il suo lavoro poetico diventa un esercizio spirituale di presenza. In questo senso, Poemas escogidos non è soltanto una raccolta, ma un ritratto dell’anima di un uomo che ha scelto la poesia come forma di ascolto, come metodo di salvezza, come gesto d’amore verso le cose invisibili.
Nel progetto poetico di Eliseo Diego, l’ordine non è mai un fatto esteriore o meramente editoriale, ma un principio di senso, un criterio profondo e rispettoso che organizza la materia poetica come si dispone un altare o una biblioteca sacra. Per lui, infatti, non era soltanto importante l’ordine dei versi all’interno di ciascuna poesia, ma altrettanto, e in certi casi anche di più, la localizzazione di quella poesia all’interno del libro che la accoglie. Ogni libro di Diego ha una sua unità segreta, una coerenza interna che lo rende irripetibile. La disposizione dei testi segue un criterio che non è tematico, né cronologico in senso stretto, ma piuttosto musicale, visivo, esistenziale.
Il poeta concepiva i suoi libri come composizioni totali, in cui ogni poesia è parte di un’architettura invisibile che si regge su equilibri precari e voluti, su vuoti significativi e presenze ricorrenti. Scrivere un libro di poesia, per lui, era un atto lungo e rigoroso, fatto di ascolto e silenzio, di prove e revisioni. Lavorava moltissimo i suoi testi, faceva varie versioni manoscritte, ciascuna con minime ma significative differenze: un aggettivo spostato, un enjambement interrotto, un titolo modificato. Solo dopo un lavoro profondo e quasi paziente passava alla macchina da scrivere, in cui il testo prendeva una forma provvisoria, ma già più vicina a quella definitiva. E anche allora continuava a limare, a pesare le parole, a interrogare la punteggiatura come se ogni virgola potesse cambiare il respiro della lettura. Il rispetto che nutriva per il lettore era immenso. Non concepiva un’opera lasciata al caso o all’urgenza dell’estemporaneità: quando consegnava un libro alla stampa, quello era, per lui, il libro così come doveva essere, non solo un insieme di poesie ma una costellazione pensata nella sua totalità. Era un gesto di fedeltà, una forma di etica letteraria. La poesia, per Diego, non era mai un monologo astratto o autoreferenziale, ma un dialogo sottile, anche se silenzioso, con un lettore reale, attento, partecipe. In questo senso, la forma del libro era già parte integrante del messaggio poetico, ed è proprio in questa struttura coerente che le sue opere trovano la loro piena risonanza. Ogni poesia è un momento di un cammino più ampio, un passaggio verso una comprensione più profonda. La lettura di un libro di Eliseo Diego richiede tempo e disponibilità, perché ci si trova davanti non solo a un testo, ma a un universo ordinato secondo una logica che sfida la fretta e restituisce al lettore la pienezza di un’esperienza poetica totalizzante. Così, nei suoi libri, la poesia diventa non solo parola ma ritmo interno, non solo immagine ma struttura, e ogni singolo componimento partecipa della responsabilità del tutto. L’ordine, dunque, è un atto d’amore.
La meticolosità con cui Eliseo Diego costruiva le sue raccolte poetiche e la profonda attenzione che riservava all’ordine dei testi all’interno del libro trovano un’eco significativa in alcune figure della poesia italiana del Novecento, prima fra tutte quella di Eugenio Montale. Anche Montale, come Diego, attribuiva un valore centrale alla coerenza interna del libro di poesia: non un contenitore neutro, ma un organismo vivente, dotato di una sua economia affettiva, di un ritmo latente, di richiami interni e fughe simboliche. Si pensi a Ossi di seppia o a Le occasioni, dove ogni componimento si carica di senso in virtù della sua posizione rispetto agli altri: niente è casuale, nulla è lasciato alla dispersione. Montale, come Diego, compone le sue raccolte come si costruisce una partitura musicale: non basta che ogni poesia sia compiuta, essa deve “risuonare” nella successione, deve parlare anche per assenza, per allusione, per insistenza. Entrambi i poeti condividono un rispetto rigoroso per la forma-libro, una fiducia quasi sacra nella capacità del testo di parlare al lettore anche attraverso ciò che non dice esplicitamente.
In questa visione, la poesia non è un frammento solitario, ma parte di un disegno più grande: è così che Eliseo Diego pensava il suo lavoro poetico, come un atto di comprensione in tutta la sua purezza. Comprendere, per lui, non significava spiegare, né tanto meno semplificare, ma piuttosto abitare con attenzione ciò che si presenta alla coscienza. La poesia, diceva, serve per aiutarci ad attendere, come ci aiutano il silenzio o l’affetto. È una forma di compagnia, di pazienza, di ascolto. Questo legame tra poesia e attesa, tra parola e cura, è evidente nella sua scelta di scrivere spesso degli oggetti comuni, delle cose quotidiane: non come esercizio di realismo, ma come atto di restituzione della loro presenza silenziosa. Anche in questo, la somiglianza con certi percorsi italiani è notevole: si pensi a Umberto Saba, il poeta delle piccole cose, o a Giorgio Caproni, che nel suo lessico scarno e quotidiano trovava un’epica nascosta nei gesti più semplici. Ma mentre Saba cerca nella chiarezza del verso la trasparenza dell’animo e Caproni sfiora l’essenziale con una tensione quasi mistica, Diego trasfigura la realtà minuta con una luce infantile, fiabesca, che non toglie complessità, ma la rende più sottile. Nei suoi versi, una sedia, una porta, una foglia caduta possono diventare simboli di attesa, di permanenza, o di perdita, e sempre parlano con una voce antica, familiare.
Nei suoi scritti in prosa, presenti in articoli, conferenze, appunti manoscritti, Eliseo Diego ha lasciato tracce numerose del tentativo di spiegare cosa potesse essere la sua poetica. Eppure, anche in questi testi riflessivi, si percepisce la consapevolezza che la poesia non si esaurisce nella teoria. Piuttosto, come diceva, essa aiuta ad attraversare il tempo, ad accettarne il mistero. Le poesie non sono strumenti per dire qualcosa, ma spazi in cui ascoltare. Il poeta non è colui che spiega, ma chi resta a fianco, chi nomina senza imprigionare. Scrivere poesie (secondo il racconto della sorella all’interno del libro) è, per Diego, un atto di discrezione, un gesto etico e affettivo, un modo di stare al mondo con rispetto e gratitudine, offrendo al lettore non certezze, ma atti di presenza.
In questo senso, la sua opera è un dono paziente, costruito con lentezza, composto con esattezza, ma sempre vibrante di tenerezza e mistero. E in questo, il suo rigore non lo avvicina alla freddezza dell’intellettuale, ma alla delicatezza di chi sa che le parole, come le cose, possono rompersi se toccate senza cura.
Nel pomeriggio delle palme
Nel pomeriggio delle palme, regine della penombra,
esistono il silenzio nei campi desolati,
e la chiara memoria degli astri illumina
il fervore angoscioso dei muri in ombrache attraversano in guerriere colonne le savane.
L’intemperia si china sopra le erbe alte
e spia i brevi tizzoni delle finestre,
che perdute dialogano con amare ragioni,mentre gli alberi nel folto del monte
radunano le loro famiglie. A volte si solleva
la loro furia col vento, e nel guado nascosto
la selva selvaggia delle tenebre canta.
(traduzione in italiano del poema “En la tarde de las palmas” di Eliseo Diego, tratto dalla raccolta Por los extraños pueblos (1958); contenuta nel libro Eliseo Diego Poemas Escogidos a pagina 56; pubblicato con Verbum).
La poesia “En la tarde de las palmas” di Eliseo Diego si configura come un esempio paradigmatico della sua poetica, in cui la realtà quotidiana viene elevata a teatro simbolico grazie a una lingua densa, musicale e profondamente meditativa. La poesia originale è composta in quattro quartine di endecasillabi con rime alternate, la struttura formale rigorosa contribuisce a creare un tono solenne e riflessivo, in netto contrasto con le immagini inquiete che abitano il paesaggio del crepuscolo. La sintassi complessa e l’uso dell’enjambement generano un ritmo lento e contemplativo, che accompagna il lettore in una sorta di cammino interiore. L’intero testo è costruito su immagini poetiche potenti e raffinate, come le palme che diventano “regine della penombra”, il silenzio che “esiste” nei campi, le finestre che “dialogano” e le tenebre che “cantano”. Ogni elemento naturale viene animato da una forza simbolica che trasfigura il paesaggio in una proiezione dell’anima. Le figure retoriche principali come metafore, personificazioni, ossimori e iperbati, intensificano questa visione lirica e contribuiscono a una tessitura semantica ricca e ambigua.
Lo stile, come sempre in Diego, è limpido ma colto, semplice nel lessico ma elevato nel tono, immerso in una malinconia misurata che riflette la sua concezione della poesia come strumento per “aiutare ad attendere”. Il contenuto, apparentemente descrittivo, si rivela profondamente simbolico: il paesaggio al tramonto diventa emblema dell’attesa, del passaggio del tempo, della fragilità e della memoria. Il poeta osserva e nomina, senza spiegare, lasciando che siano le immagini a parlare, in un’armonia silenziosa di elementi in ascolto reciproco. “En la tarde de las palmas” è così una poesia da contemplare più che da interpretare, in cui la bellezza della forma custodisce un nucleo emotivo e metafisico, dove il quotidiano diventa epifanico e il silenzio si fa canto.
Davanti allo specchio
In un batter d’occhi
non sarai più dove eri:
un vecchio triste ti sta guardando
con che terrore dal tuo volto.Ti guarda avidamente e ti guarda
mentre la luce gli illumina il viso:
in un batter d’occhi,
né tu, né lui, né nulla.
(traduzione in italiano della poesia “Frente al espejo” di Eliseo Diego, tratta dalla raccolta A través de mi espejo (1981); del libro Eliseo Diego Poemas escogidos a pagina 145; Verbum)
La poesia “Frente al espejo” di Eliseo Diego, tratta dalla raccolta A través de mi espejo (1981), è un componimento breve ma di forte intensità esistenziale, in cui il tema dello specchio diventa metafora del tempo, della dissoluzione dell’identità e della percezione della vecchiaia. La struttura è composta da due quartine essenziali, sorrette da un ritmo scandito e da un lessico semplice, quasi spoglio, che potenzia l’effetto di straniamento. Il tono è sobrio, ma carico di inquietudine, e si sviluppa attraverso un processo di riconoscimento perturbante: nello specchio, il soggetto lirico vede apparire un “vecchio triste” che lo guarda “con terrore”, un doppio che è allo stesso tempo altro e sé. La ripetizione (“mirandote ávido y mirándote”) e l’anafora temporale (“en un abrir y cerrar de ojos”) sottolineano la rapidità e l’irreversibilità del cambiamento, evocando la vertigine dell’identità che si sgretola nel tempo. L’ultimo verso, con la negazione assoluta (“ni tú, ni él, ni nada”), suggella la dissoluzione del soggetto e del reale, aprendo a un vuoto ontologico che è cifra ricorrente nella poesia di Diego. In pochi versi, il poeta condensa una riflessione profonda sullo specchio come soglia tra apparenza e sparizione, tra memoria e oblio, con la sua consueta maestria nel trasfigurare il quotidiano in esperienza metafisica.
La poesia di Eliseo Diego si configura come un esercizio raffinato di sintesi espressiva, dove ogni parola è scelta con cura per evocare mondi interiori complessi attraverso immagini apparentemente semplici. Come lui stesso affermava, “La poesía es el arte de decir lo más con lo menos”: in questa capacità risiede il suo talento unico, capace di trasformare il quotidiano in visione poetica, di dare voce alle ombre del tempo, della memoria e dell’essere. La sua opera rimane un invito a guardare oltre l’apparenza, a fermarsi nell’attimo sospeso tra silenzio e parola, aprendoci a una più profonda comprensione del mistero della vita.
Riferimenti bibliografici:
Ciro Bianchi Ross, Eliseo Diego: Entre la dicha y la tiniebla, riproduzione su Cubahora, 5 luglio 2020, dell’intervista da Cubasí, link: https://www.cubahora.cu/cultura/eliseo-diego-entre-la-dicha-y-la-tiniebla
Eliseo Diego, Poemas Escogidos, Editorial Verbum, Madrid, 2015.
Fernando Orgambides, Necrológicas: Eliseo Diego, poeta cubano, El País, 4 marzo 1994, link: https://elpais.com/diario/1994/03/04/agenda/762735601_850215.html
Katuska Rodriguez R., intervista a Eliseo Diego qualche ora prima di ricevere il Premio Juan Rulfo 1993 all’Avana; pubblicato in Elesio Diego, Entrevistas, poemas, poesìa, varios, giornale La Epoca, domenica 3 ottobre 1993, link: https://mequedariaconlapoesia.wordpress.com/2020/06/02/entrevista-a-eliseo-diego-unas-horas-antes-de-viajar-a-mexico-para-recibir-el-premio-juan-rulfo-1993/
Enrique Saìnz, Ensayos inconclusos, Editorial Letras Cubanas, La Avana, 2009, pagg. 113-122.
