VITA PRIVATA, film di Rebecca Zlotowski
con Jodie Foster, Daniel Auteuil e Virginie Efira
IL RITORNO DI JODIE FOSTER
AL CINEMA DALL’ 11 DICEMBRE 2025 CON EUROPICTURES

Europictures è lieta di annunciare l’uscita italiana di Vita privata, il nuovo film della regista francese Rebecca Zlotowski, dopo il debutto mondiale al Festival di Cannes e la partecipazione come alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Gran Public. Il film, che segna il ritorno di Jodie Foster al cinema francese a vent’anni da Una lunga domenica di passioni, sarà distribuito nelle sale italiane da Europictures dall’11 dicembre 2025.
Quando la celebre psichiatra Lilian Steiner (Jodie Foster) scopre la morte improvvisa di una sua paziente, la tranquillità borghese della sua vita viene scossa dalle fondamenta. Convinta che non si tratti di suicidio, Lilian si lascia trascinare – anche grazie all’inatteso ritorno dell’ex marito (Daniel Auteuil)– in un’indagine che diventa presto una discesa nel proprio inconscio. Tra tensione psicologica e ironia malinconica, Vita privata si muove con eleganza tra thriller psicologico e commedia sentimentale, indagando i confini fragili tra responsabilità, desiderio e senso di colpa.
Per Rebecca Zlotowski, una delle voci più raffinate del nuovo cinema francese (Planetarium, I figli degli altri), Vita privata, girato a Parigi e tra le coste normanne, è
“una riflessione sul limite tra la vita intima e quella pubblica, tra ciò che mostriamo e ciò che nascondiamo, dove la psicanalisi diventa una forma di indagine interiore e anche di messa in scena”.
Accanto a Jodie Foster, che definisce il suo ruolo nel film come “uno dei più ricchi e intellettualmente stimolanti della mia carriera”, un cast straordinario del calibro di: Daniel Auteuil, Virginie Efira, Mathieu Amalric, Vincent Lacoste, Luàna Bajrami e Noam Morgensztern.
Vita privata sarà nelle sale italiane grazie ad Europictures dall’11 dicembre 2025.
NOTE DI REGIA:
È stato innanzitutto il titolo di un film a ossessionarmi: Vie Privée [Un affare molto privato]
– preso in prestito dal magnifico film omonimo di Louis Malle. Come quelle bambole di carta che si possono vestire con abiti diversi, per anni ho proiettato vari film su quel titolo, convinta che contenesse una verità che dovevo scoprire: la sfera intima, la tensione tra ciò che sappiamo di noi stessi e ciò che gli altri pensano di vedere. E, ovviamente, la sua controparte, la vita pubblica e professionale, dove emergono tante delle nostre contraddizioni.
Fu allora che Anne Berest, che conosco da sempre, mi porse una sceneggiatura che aveva scritto molto tempo prima. Il film si intitolava Liliane Steiner e parlava di una psichiatra omonima, di una paziente che si era tolta la vita, e dell’idea che vite passate le collegassero, spiegando l’empatia insolitamente profonda della dottoressa per colei che non c’era più. La premessa mi entusiasmò come l’inizio di una barzelletta ebraica: cosa succede quando la tua analista inizia a piangere, profondamente commossa, mentre le racconti la tua vita?
Mi fu subito chiaro che questa psichiatra dovesse sentirsi così oppressa dal senso di colpa per la morte della sua paziente da iniziare a chiedersi se fosse stato davvero un suicidio. Avrebbe iniziato a indagare
idealmente insieme al suo ex marito – sulla possibilità di un crimine. Una crisi personale che si dispiega come una storia poliziesca; una commedia sul “rimatrimonio” mascherata da scommessa.
Ma su cosa sta indagando veramente? Su sé stessa, una donna borghese un tempo così stabile, ora scossa dal proprio fallimento? Sulla sua paziente, la cui voce un tempo echeggiava nello studio e ora è caduta nel silenzio per sempre? Sulla propria responsabilità? O semplicemente su un crimine – ma quale, e perché? L’intero film diventa la messa in scena e il dipanarsi di quel dubbio.
Mi sono identificata con Liliane Steiner, costretta a confrontarsi con i limiti del suo lavoro e a fare ammenda. È sopraffatta non, come spesso vengono ritratte le donne etichettate come “complesse”, dal tumulto di una persona squilibrata o irrazionale, o dalla dipendenza (anche se, state tranquilli, non dice mai di no a una buona vodka) – ma tutto il contrario: dalla sua eccessiva razionalità, dalla sua incrollabile compostezza, che, come tutti sanno, spesso non è altro che apparenza.
Lei inizia a mettere in discussione ogni riferimento della sua vita, inclusa la sua identità professionale e, stranamente, questo tipo di storia che smantella il mito della “donna forte”, è ancora troppo poco raccontata.
C’è sempre, in ogni film, un elemento di incantesimo, come a dire “ti prego, fa’ che non succeda mai a me!” – ma altrettanto spesso, un desiderio segreto di sperimentare ciò che non osiamo permetterci nella vita reale “ti prego, fa’ che succeda a me!”… Quell’ambivalenza ha indirizzato il tono del film, oscillando tra situazioni apertamente comiche e immersioni più oscure nelle profondità di un personaggio con segreti nascosti.
È stato questo desiderio a ispirarmi a sviluppare parte dell’immaginario utilizzando sequenze sceneggiate e immagini generate dall’IA. Producono una strana trama artificiale, come qualcosa tratto dai nostri sogni, o da ciò che abbiamo represso. Questo lavoro agisce come una porta nascosta all’interno del film, aprendosi silenziosamente per coloro che desiderano attraversarla.
Per interpretarla, scegliere Jodie Foster è stato un iqualcosa di esaltante e atteso a lungo. Il nostro primo incontro non si era mai materializzato ai tempi del mio film d’esordio, quando speravo che lei interpretasse la madre di Léa Seydoux in Dear Prudence.
Con Vita Privata, ho intuito che la sua impeccabile padronanza del francese, combinata con la sua sensibilità americana, avrebbe arricchito i sottili cambiamenti nel linguaggio e nella percezione lungo tutto il film: ciò che veniva ascoltato, ciò che ci sfuggiva…
Non conosco altra attrice che renda l’arco di un pensiero, di un’improvvisa consapevolezza, così visibilmente leggibile sul suo viso. La telecamera cattura la sua intelligenza in movimento: rapida, vertiginosa.
Il “Vita Privata” del titolo vuole evocare non solo l’intimità, ma anche una vita che è stata privata. Vita privata, privata della vita. Un modo per suggerire che ciò che ci tocca più da vicino è anche ciò che ci espone maggiormente al rischio. È un film loquace, costruito attorno a confronti dialogici su una donna che è caduta nel silenzio e un’altra la cui professione era ascoltarla. Queste questioni di dialogo, di musicalità, sono al centro della regia del film: nello studio dell’analista, nella sala da concerto – luoghi in cui tutti accettano di recitare un ruolo: chi parla e chi ascolta.
L’intero processo di casting è stato plasmato dallo stesso chiaro desiderio di musicalità, con il piacere di mettere due famiglie faccia a faccia come costellazioni opposte. Una ruota attorno a Virginie Efira, una stella oscuramente luminosa, sotto la tranquilla minaccia di Luana Bajrami, la cui potenza precoce stravolge tutto, e la presenza apparentemente inevitabile di Mathieu Amalric.
L’altra orbita attorno a Jodie, con Vincent Lacoste nel ruolo di un figlio ferito e non amato, in cui l’umorismo affiora sempre come una forma di cortesia. E infine, Daniel Auteuil che forma, accanto a Jodie, una coppia cinematografica che unisce due continenti che non ci si aspetterebbe di incontrare, eppure che sembrano essere stati intrecciati per sempre nel nostro immaginario condiviso. Questa coppia mi ha commosso all’istante con la loro dolcezza, la loro recitazione intuitiva e un’evidente chimica che sembrava lasciare che le loro iconiche filmografie dialogassero tra loro.
Rebecca Zlotowski
Testi, video e immagini dall’Ufficio Stampa Echo Group.
