Non è la fine del mondo, di Adele Porzia – Una commedia di parole, assenze e ritorni tra intimità borghese e slittamenti del desiderio
C’è una teatralità sospesa, quasi sommessa, che percorre le pagine di Non è la fine del mondo di Adele Porzia. Una teatralità che non si affida all’azione, ma al silenzio interiore delle stanze, all’eccesso verbale dei suoi protagonisti, al ritmo controllato di un’attesa che non esplode mai del tutto (o quasi). È una commedia da camera, borghese nell’ambientazione ma non nei codici consueti del genere: Porzia si muove in quella zona di confine tra il dramma familiare e l’evocazione lirica, tra la commedia dell’equivoco e il teatro dell’anima.

Il titolo è già indice di un mantra antifrasi (quantomeno un antifrasi rivelatrice): ciò che i personaggi vivono è spesso una fine del mondo interiore, ma il testo invita a resistere con ironia, proprio come Italo Calvino suggeriva: la leggerezza come forma di profondità.
L’intreccio si svolge in tempo reale o quasi, in un interno domestico che funge da “tomba letteraria” per Aldo, scrittore sessantenne, colto, eccentrico, splendidamente tragicomico, bloccato in un’esistenza autoreferenziale e malinconica. I figli, Michela e Carlo, nel tentativo di riattivare il suo desiderio di vivere, organizzano l’incontro con Anna, una figura mitizzata del passato, da lui da sempre amata e idealizzata. Tuttavia, il vero cuore drammaturgico dell’opera non è la relazione tra Aldo e Anna, ma il cortocircuito generazionale e ideologico che si innesca tra i personaggi. Porzia mette in scena una dialettica continua fra stasi e mutamento, fra identità rigide e possibilità di trasformazione.
Costruita secondo l’architettura classica delle tre unità aristoteliche — tempo, luogo e azione — la pièce mantiene una sorprendente contemporaneità nel tono e nei riferimenti. I dialoghi, incalzanti e brillanti, alternano ironia e riflessione con naturalezza. Aldo cita Shakespeare, Alfieri, la Divina Commedia, insomma una letteratura che, per lui, non è più alimento: è corazza. È “guscio”, come lo definisce Michela, figlia intelligente e combattiva, che lo accusa di aver “letto troppo teatro, troppo Ibsen, troppo di troppo”. Michela risponde con sarcasmo moderno e lucidità spiazzante. Questo gioco linguistico produce un attrito fertile tra cultura alta e nevrosi domestiche, tra eredità letteraria e urgenze emotive. Porzia costruisce un microcosmo domestico in cui la lingua si fa tana e trappola, e l’attesa — più che l’azione — diventa gesto teatrale assoluto.
Il commento prosegue con elementi della trama: a chi non avesse letto o visto l’opera consigliamo la lettura prima di procedere oltre.

I personaggi, pur attraversati da tratti caricaturali funzionali alla commedia, sono costruiti con affetto e precisione. Aldo incarna emblematicamente la figura dell’intellettuale in decadenza, che ha trasformato la parola in un rifugio sterile, in una liturgia autoreferenziale. La scrittura, che dovrebbe essere strumento creativo, si è tramutata per lui in sintomo di paralisi. Non è la pagina a salvarlo, ma l’irruzione dell’altro — dei figli, di Anna — a incrinare il suo isolamento. Porzia lo pone così in linea con i personaggi pirandelliani: maschere intellettuali in crisi, chiusi in bolle di finzione. Come Enrico IV o il protagonista del Berretto a sonagli, anche Aldo si rifugia nella memoria e nella retorica per non affrontare il presente. È un Amleto senza corona, inchiodato dal timore dell’azione.
A contrasto, Carlo e Michela sono i motori reali di essa. L’inversione dei ruoli parentali — con i figli che si prendono cura di un padre immaturo — richiama alcune dinamiche care al teatro di Eduardo De Filippo (Filumena Marturano, Natale in casa Cupiello).
Aldo parla per letteratura. Quando prova a dichiararsi, lo fa riscrivendo Romeo e Giulietta: “bastava prolungare di un paio di versi il monologo finale perché tutto si trasformasse in commedia”. Ma la vita, ci ricorda Porzia, non è un testo da correggere: è un corpo vivo che sfugge, che sorprende, che trasforma. Ed è proprio questo scontro tra finzione e realtà — tra parola e gesto, tra citazione e silenzio — il motore autentico della pièce.
Il personaggio di Michela, spudoratamente, si espande: personaggio ambivalente e stratificato, si fa carico della lucidità e della ribellione. La sua presenza scenica è forte e decisiva, ma capace anche di vibrazioni più intime, soprattutto nella relazione finale con Anna. La forza dell’opera, pertanto, risiede proprio in questo spostamento sottile: una riscrittura dei ruoli, dei legami e delle aspettative che non pretende clamore ma lascia spazio alla sorpresa. L’amore di Aldo si sgonfia come un palloncino sdoganato; quello che nasce tra Anna e Michela — esitante, sincero, forse erotico — è un’intuizione limpida, un’apertura verso l’imprevisto. «È la fine del mondo se nasce qualcosa tra di noi» dice Michela, travolta dal senso di colpa. Ma sarà proprio quel “qualcosa” a rimettere in moto la vita.
L’entrata in scena di quest’ultima, infatti, non solo capovolge ogni aspettativa narrativa, ma dischiude un nuovo orizzonte affettivo e simbolico. Anna non è più solo l’oggetto dell’amore maschile del passato, ma una figura autonoma, libera, capace di spostare il baricentro dell’azione. La sua inaspettata intesa con Michela — sottile, intensa, forse erotica — non è semplice provocazione, bensì esito coerente di un testo che ha fatto del desiderio un movente poetico più che sentimentale. In tal senso, Non è la fine del mondo si inserisce con grazia e misura all’interno di quelle scritture queer e post-identitarie europee che riflettono sull’identità fluida e sull’eros come possibilità di riappropriazione del sé: da Caryl Churchill a Valérie Mréjen, fino ad accenti che ricordano il primo Almodóvar.
Il dialogo tra Michela e Anna è il punto più vibrante dell’opera: affiora tra sguardi, silenzi, sfioramenti, con un’intensità che non ha bisogno di proclami. «Distendi queste labbra contratte… o permettimi di…» dice Anna prima di avvicinarsi per un bacio. Michela si ritrae, travolta dal senso di colpa: «È la fine del mondo se nasce qualcosa tra di noi» — frase che dà al titolo il suo vero significato, quello di antifrasi drammatica. Eppure, sarà proprio questo “nascere qualcosa” a rivelare la libertà possibile dell’amore.
Nel finale, il triangolo affettivo non si compone, si disgrega. La relazione auspicata tra Aldo e Anna si dissolve in un’intesa silenziosa e potentemente evocativa tra Anna e Michela. Questo slittamento del desiderio — mai dichiarato, ma vibrante — apre il testo a una lettura che rifiuta le categorie consolidate e accoglie la molteplicità dell’esperienza umana. Porzia non forza il gesto: lo lascia affiorare. E in questo c’è una rara forma di pudore teatrale. A questo punto, il testo compie un climax drammaturgico sorprendente. Anna dichiara apertamente il suo sentimento per Michela: «Ti amo, ti amo davvero… e non intendo commettere lo stesso errore. La nostra è la più speciale di tutte». E il padre, lungi dall’opporvisi, comprende, benedice, si libera: «Anna, ti affido volentieri mia figlia, perché ormai non ti amo più… È Gianna che amo, da sempre». È un momento di disvelamento dolce e spiazzante, dove tutti i personaggi si ritrovano, ciascuno nel proprio spazio di verità.
La scrittura di Porzia si distingue per l’eleganza del registro linguistico. I riferimenti colti non pesano mai come citazioni ornamentali, ma si innestano organicamente nei dialoghi, rendendo la parola veicolo di resistenza emotiva e di pensiero. Il linguaggio teatrale si fa così luogo di lotta tra la finzione e la realtà, tra ciò che i personaggi vorrebbero essere e ciò che, inevitabilmente, sono. Come ha scritto Porzia stessa nella prefazione, questo testo nasce da un periodo di trasformazione, di rielaborazione del vissuto. E si sente: Non è la fine del mondo è un’opera che tocca corde personali senza mai cadere nel privato, che parla a tutti proprio perché nasce da un’urgenza autentica. Come nel teatro di Yasmina Reza (Art, Il dio del massacro), anche qui lo spazio borghese — uno studio pieno di libri — si fa campo di battaglia retorico ed emotivo. Ma mentre Reza lavora sul disfacimento della convivenza sociale, Porzia concentra il proprio sguardo sulle faglie emotive del singolo, lasciando che la tensione si costruisca con misura, senza mai esplodere del tutto.
Non è la fine del mondo è, in definitiva, un’opera prima che si distingue non per fragili virtuosismi ma per coerenza di sguardo e profondità drammaturgica. Un testo che coniuga eleganza e struttura, introspezione e leggerezza, e che restituisce al teatro il suo compito più arduo: parlare dell’intimo senza cedere al privato, interrogare il presente attraverso relazioni, parole e silenzi. Una commedia colta e necessaria, che si lascia attraversare con ascolto e restituisce — con pudore e intelligenza — quel raro stupore che solo il teatro sa offrire. Si è di fronte a un debutto drammaturgico che sorprende per la maturità della voce, per la tenuta formale, per il coraggio di mettere in scena un teatro dell’intimità senza retorica. Il mondo, forse, non finirà. Ma se finisse, Adele Porzia avrebbe già scritto un ottimo finale.
