In una breve nota scritta per ClassiCult, a seguito dell’assegnazione dei Premi Nobel per la Letteratura del 2018 e 2019, lamentavo l’assenza di poeti tra i premiati degli ultimi decenni – o forse di sempre.

Il motivo, tuttavia, di certo non si cela dietro la mancanza di poeti, o meglio di autori di opere in versi. La verità è, al contrario, che di poesia (o, mi ripeto, roba scritta in versi) se ne scrive tanta, tantissima, troppa. Quasi la metà dei miei contatti Facebook ha pubblicato una propria personale raccolta di poesie, poesiole, cosette simil-poetiche. E io non le ho mai recensite.
Perché, allora, oggi mi ritrovo a scrivere una recensione a Ultimissime dall’Italia, la prima raccolta di poesie di Francesco Strocchi?

Non, banalmente, perché Francesco, come me, è un classicista. Non, banalmente, perché, come me, è un italiano che vive in Inghilterra. O perché abbiamo scoperto che ci piacciono gli stessi libri. Ma perché, a mio avviso, l’onestà delle sue poesie merita una riflessione scritta.

Andiamo con ordine. Una caratteristica principale accomuna gran parte del marasma di nuovi poeti (il ‘gracidante limo dei neòteroi’, per citare Montale, prima di tornare a Catullo): la sconfitta del metro, molti decenni fa – se di sconfitta si può parlare – pare aver autorizzato un catastrofico fraintendimento a proposito dell’uso del verso libero. Che non si scriva più in endecasillabi, ottonari, o trimetri giambici scazonti lo abbiamo accettato da tempo, ma, se ci facciamo più attenzione, la grande poesia del ‘900 il metro l’ha comunque reinterpretato e il ritmo l’ha conservato (e qui, non dilungandomi, lascerei la parola ai critici veri). Lo sdoganamento del verso libero ha prodotto però la convinzione aberrante che, in fondo, basti spezzare a caso una prosa un po’ convoluta per fare una poesia.

 

In soldoni

Che basti

Con irruenza

Andare a capo

Spesse volte

A nobilitare

Il coacervo

Di idiozie

Che uno pensa.

La notte.

 

Mossa quest’obiezione, il nuovo poeta medio, si difenderà dicendo che la poesia si è evoluta, che noi criticoni siamo attaccati a modelli vetusti, che “ma non la vedete l’eleganza e la modernità del mio verso?”, e che “Ungaretti non faceva lo stesso? Scriveva in versi liberi”.

 

Si sta come

d’autunno

Sugli alberi

le foglie.

 

‘Amico’ – vorrei dirgli – ‘guarda meglio, anzi, ascolta bene: sono due settenari, li ha solo spezzati’. Ma omettendo oziose digressioni su Ungaretti, vi posso assicurare che il “nuovo poeta” (senza offesa per i catulliani veri), che non fa i conti con la metrica perché non l’ha voluta studiare, mai ammetterà di essere solo un prosatore pigro (perché la narrativa richiede una storia, la poesia non per forza, anche se…) e si appellerà all’ardore scatenatogli dalle muse in chissà quale notte in cui aveva bevuto troppo gin, lambrusco, o forse litri di Peroni. L’ardore del verso, della forma di letteratura più alta è nobile: la poesia.

 

Qual è il senso di questa invectiva ad poetas, se all’inizio volevo solo recensire l’opera prima del buon Strocchi? Il senso, quell’onestà della poesia di Francesco a cui facevo cenno all’inizio, ovvero ciò che davvero mi preme lodare di queste sue Ultimissime, si ritrova in una sua limpida e saggia dichiarazione di poetica:

“I miei sogni scrivo di mattina, nelle pagine delle mie poesie in forma di prosa

scoliaste a commento dell’anima in versi […]”.

 

Ci sarebbe così tanto da scrivere su questo libro. Su quanto sia interessante che si intitoli Ultimissime dall’Italia, pur essendo scritto da uno che in Italia non ci vive più stabilmente da moltissimi anni. Su quanto sia catulliano e dotto il suo stile e il suo impianto: c’è l’amore, c’è l’affetto, le invettive politiche e ad personam, il turpiloquio e le amare e giuste offese ad un datore di lavoro bavoso e corrotto. Si leggono una vita e una visione del mondo, scritte bene ed elegantemente infarcite di cultura classica, di storia e filologia, neologismi intelligentissimi, bilinguismo (e bi-culturalismo), riferimenti appropriati e sapienti a letterature altre e molteplici – alla cultura italiana locale e nazionale, e dotte sottigliezze (come la splendida immagine dello sfregio, una moderna sfragis, il sigillo per i greci). Lo stile è curatissimo, ma mai artefatto: il gioco di anacoluti della poesia per Jacopo è di raffinatezza estrema; gli asindeti frequenti conferiscono un incalzare violento e rapido alla lettura. La cultura pop locale (italiana, inglese) si inserisce con grazia all’interno delle citazioni ai grandi poeti di tutti i tempi, all’intertestualità fitta e mai forzata di questi componimenti. Ci sarebbe, sì, molto da dire su ognuno di questi tratti della poetica di Francesco Strocchi, ma la sua “poesia in forma di prosa” è una consolazione così grande per il mio animo di lettrice contemporanea, che finisce per surclassare il resto e divenire il fulcro del mio commento.

 

Francesco ci insegna che i versi possono essere lunghi, che non basta (e non serve!) fare dei righi a pezzetti per trasformarli in una poesia. Che il ritmo e la bellezza delle parole possono somigliare un po’ a quello della prosa, non occorre vergognarsene, la novità si può impugnare. Che ci si può reinventare un genere. O inventarne uno nuovo di sana pianta.  Che innovazione non deve essere mai un sinonimo sbadato di accidia.

Ultimissime dall'Italia Francesco Strocchi
La copertina di Ultimissime dall’Italia di Francesco Strocchi, nell’edizione con prefazione di Federico Campagna, dalla collana La carrucola del pozzo di 96, Rue de-La-Fontaine Edizioni

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