Il miglior film del 2021: la persona peggiore del mondo
Sul treno di ritorno da Londra, dopo un’intensa giornata di lavoro a Oxford, meno di un mese fa, leggevo la lista dei finalisti per gli Oscar nella categoria “miglior film straniero”. A quanto pare, è cosa nota a tutti che il vincitore sarà Drive My Car. Eppure, un altro film, senza ombra di dubbio il miglior film del 2021, è in lizza, e io faccio fatica a credere che non sia il favorito.
La persona peggiore del mondo è l’antidoto alla sciatta e sdolcinata positività tossica che da tempo viene imposta alla (e dalla) generazione millennial. Erroneamente etichettato come “commedia romantica”, il terzo episodio della trilogia di Oslo di Joachim Trier è tutto tranne che una commedia ed è soltanto amaramente romantico. Il dramma si divide in prologo, episodi ed epilogo, seguendo una struttura narrativa tradizionale – ma tuttavia frammentaria – e si dipana attraverso quattro anni della vita di Julie (Renate Hansen), una donna millennial molto indecisa (a proposito di carriera, aspirazioni, piani di vita personale).
La sua indecisione riguarda le ambizioni lavorative, ma soprattutto due intense storie d’amore. Quella con Aksen (Anders Danielsen Lie), un fumettista di successo e dai contenuti provocatori, ben più grande di lei e con cui Julie convive, ed Eivind (Herbert Nordrum) un barista, più o meno suo coetaneo, che incontra per caso ad un matrimonio a cui si è imbucata e con cui sviluppa una connessione instantanea sia a livello mentale che fisico.
Quale dei tre è “la persona peggiore del mondo”? La domanda è destinata a non trovare risposta. Perché, io credo, nessuno di tre lo è davvero. Se da un lato siamo portati a condannare e giudicare Julie per aver tradito, abbandonato e deluso persone che amava senza rimpianti e ripensamenti, alla fine, tuttavia, non possiamo che empatizzare con i suoi tormenti così genuini, i suoi continui e pressanti dubbi, la sua difficoltà nell’incasellarsi in modelli di vita che gli altri (principalmente Aksen e Eivind) vogliono scegliere per lei. Julie combatte quei dubbi con forza e dignità, fa scelte improvvise, azzardate, e talvolta dolorose – sia per se stessa sia per gli altri. Julie è l’opposto del suo stereotipo generazionale. Non ricerca a tutti i costi e con fatica la stabilità economica, non si pone il problema se e quando diventare moglie o madre. Ha 30 anni, i suoi obiettivi non sono ancora definiti– sono in evoluzione; per Julie c’è ancora molto da esplorare, da amare, da esperire. Non è tempo di mettere punti fermi o di tirare le somme, come molti attorno a lei si aspettano.
La leggerezza con cui Trier tratta le battaglie individuali dei protagonisti rende facile l’immedesimazione di quanti, come Julie, non hanno ancora trovato la ricetta perfetta per il successo o la pace interiore. Gli espedienti cinematici sono semplici ma efficaci (ad esempio, il tempo che si ferma e poi riparte), la fotografia è evocativa con un equilibro perfetto di toni chiari e scuri, proprio come la personalità della protagonista.
I personaggi sono complessi e sviluppati con sapienza, ognuno con la propria lotta da affrontare (Aksen contro la controversa ricezione del suo lavoro, e poi anche con il cancro; Eivind contro tutti quelli che si aspettano che faccia altro nella vita oltre che servire caffè); ci abituiamo con calma alla loro routine, alle loro infinite contraddizioni. Il tutto è ambientato in una Oslo accogliente, una città confortevole ma conflittuale, lo specchio del carattere dei nostri personaggi. La recitazione è superba – Renate Hansen, in particolare, sa conferire una rara profondità al suo personaggio.
La persona peggiore del mondo è tutto ciò che una persona intorno ai 30 ani avrebbe bisogno di vedere e tenere a mente: come Julie, noi ci proviamo, falliamo, e non dobbiamo fingere che tutto debba andare poi sempre a finire bene. Non dobbiamo sorridere 24 ore al giorno; faremo del male agli altri, faremo del male a noi stessi, ci pentiremo delle nostre decisioni. Faremo e disfaremo i nostri piani. Ci diranno che il tempo a nostra disposizione sta per finire. Faremo un respiro profondo e accetteremo che sì, il tempo si ferma, ma poi riparte, e va bene prendercene di più, se serve. E anche se la felicità non è uno stato costante, ci sono comunque concessi sentimenti profondi.
Ho guardato questo film la notte di capodanno, mentre bevevo un bicchiere di Traminer, un vino che piaceva a mio padre. Mi è parso l’antidoto alle immagini velenose di vite incapsulate in stereotipi generazionali, immagini da cui sono bombardata continuamente. Un antidoto all’idea artificiosa e melensa che tutto dovrà finire bene, se accettiamo il compromesso, se ci accontentiamo di (troppo) meno di quello che ci aspettavamo dalla vita. Mi ha fatto iniziare l’anno nuovo con il piede giusto. Con un po’ di tristezza, forse, ma anche con una punta di speranza, la speranza che niente davvero finisce. Che posso essere una nuova me ogni volta che lo voglio. Che si può cambiare idea ogni volta che serve o è utile. Che l’amore non finisce, ma cambia. Che il dolore si supera. Che i lieto fine sono sopravvalutati. Che i finali, in genere, lo sono.
Quindi, una parte di me spera ancora in una vittoria di Trier agli Oscar, quest’anno. Senza togliere nulla al nostro amato Paolo Sorrentino, al suo Maradona, e a blockbuster giapponesi acclamati dal pubblico.