UNA FORTUNA CHE PROMETTE E NON MANTIENE
La Dea Fortuna, l’ultimo film di Ferzan Özpetek
Articolo a cura di Gianluca Colazzo e Mariano Rizzo
Nei suoi ultimi due lungometraggi, l’ambiguo Rosso Istanbul e il meglio riuscito Napoli Velata (entrambi del 2017), Ferzan Özpetek aveva compiuto l’ardua scelta di allontanarsi dagli stilemi che per più di vent’anni hanno caratterizzato la sua cinematografia: via i momenti conviviali e le tavolate imbandite, via i drammi introspettivi; non del tutto abbandonate le amicizie in grado di porre rimedio a qualsiasi tragedia e soprattutto le tematiche LGBT. Quegli stilemi appaiono però qui relegati sullo sfondo di intrecci articolati e fortemente simbolici, dove a far progredire la trama non sono tanto le interazioni tra i personaggi quanto atmosfere, colori e inquadrature ardite che svelano senza svelare.
Nel suo ultimo lavoro La Dea Fortuna, nelle sale dal 19 dicembre, il regista turco si riappropria con irruenza dei suoi temi più cari, realizzando un film che sin dal trailer si preannuncia come un entusiastico ritorno alle origini. Ma si sa, ciò che i trailer promettono spesso non trova riscontro nell’interezza del film.
La Dea Fortuna vede protagonisti Arturo (un imbolsito e stanco Stefano Accorsi) e Alessandro (Edoardo Leo, ben più in parte), insieme da oltre quindici anni e innegabilmente in crisi, sin dalle primissime scene del film. La loro vita quotidiana, fatta di incomprensioni e infedeltà reciproche, si trascina stancamente attorniati da personaggi tipicamente Özpetekiani riadattati per l’occasione ai nostri tempi: l’anziana libertina Esra (Serra Ylmaz, attrice feticcio del regista), l’infermiera transgender Mina (Cristina Bugatty), l’amico affetto da Alzheimer precoce Filippo (Filippo Nigro). A sconvolgere il loro precario equilibrio si aggiungerà Annamaria (Jasmine Trinca), migliore amica di Alessandro, che affiderà loro i due figli Martina e Sandro prima di ricoverarsi a causa del sospetto di una grave malattia. Questo dà inizio a un effetto domino del quale è possibile intuire via via quasi tutti i passaggi per almeno due terzi del film.
Sono proprio questi primi due terzi, quelli più prevedibili e scontati, a essere paradossalmente eccellenti: le schermaglie tra i due uomini, in bilico tra dramma e commedia, si riflettono sui bambini, per i quali il casting è stato davvero eccellente; la scoperta di nuovi punti deboli porta alla distruzione dei pilastri della coppia, la consapevolezza del proprio amore ricostruisce in maniera del tutto insufficiente a salvarla. In questo, Özpetek ha l’innegabile merito di non stereotipare una crisi che, sebbene basata su cliché ben noti del mondo omosessuale, viene trattata in maniera talmente oggettiva che chiunque vi si può riconoscere a prescindere dal proprio orientamento: il gioco di espressioni, detto e non detto, litigi furibondi e minuscole attenzioni reciproche è stato ben studiato e messo in scena dal cast. Non siamo ai livelli di Dolor y Glòria, l’ultimo film di Almodòvar basato su premesse identiche, ma il film funziona e appassiona, fa ridere e riflettere in egual misura al netto di alcune scene del tutto inutili per l’economia della trama, inserite esclusivamente a beneficio della risata o delle riflessioni di cui sopra. Questo fino al giro di boa del lungometraggio, che avviene a circa quarantacinque minuti dalla fine e che compromette in parte la sua riuscita.
Cambio repentino di location, riduzione del cast agli interpreti principali con l’introduzione di un altro personaggio, appena tratteggiato all’inizio del film, il quale dovrebbe essere l’elemento di disturbo che riassume in sé tutta la negatività cui ciascun protagonista è stato sottoposto sin dall’inizio del film e addirittura prima, nelle backstories accennate ma mai del tutto esplicate. L’antagonista irrompe in maniera quasi pretenziosa, cambia le carte in tavola e trascina tutti in un rovesciamento talmente affrettato da risultare poco credibile, specialmente perché lo stravolgimento comporta un cambio diametrale nel tono del film, che da commedia disincantata assume i toni dark esplorati in Napoli Velata: addirittura certi momenti sembrano fare loro malgrado un pasticciato e non voluto verso a film di tutt’altro genere, tra cui citiamo The Innocents (1961) o il più recente The Others (1999). Di conseguenza, scene studiate per entusiasmare e coinvolgere il pubblico diventano un’interminabile sequela di già visto, entro la quale perfino la mimica e l’espressività degli interpreti, fino a poco prima impeccabile, risulta stereotipata e istrionica. Lo stesso finale, che dovrebbe essere aperto, è invece noiosamente didascalico e fin troppo indirizzato verso la risoluzione più ovvia della vicenda.
La lunghezza di quest’ultima sezione non è sufficiente a condensare in essa tutta l’azione e il dramma necessari senza disorientare lo spettatore; eppure è addirittura esagerata, se si pensa che a causa di essa si sacrifica gran parte del buono che questo film ha da offrire: per ragioni di ritmo e tempistiche, infatti, si rinuncia all’approfondimento dei personaggi secondari, cosa che era stata il punto di forza di altri film del regista come Saturno Contro (2007) o Mine Vaganti (2009); si finisce per non cogliere l’importanza di alcuni di essi, richiamata dalle loro battute e perfino da qualche inquadratura esteticamente ben studiata ma di fatto inutile o, perlomeno, incomprensibile. L’universo di Özpetek, quello che i suoi sostenitori cercano e acclamano, risulta dunque affascinante ma lontano, sfondo eccellente di una storia che pone premesse ma non le soddisfa, o semmai le sviluppa in modi talmente banali da deludere chi si aspettava, in prima battuta, un film indimenticabile.
La Dea Fortuna dunque non brilla ma si limita a intrattenere piacevolmente e a regalare agli spettatori qualche risata e alcuni stanchi momenti di riflessione, che tuttavia difficilmente varcheranno assieme a loro la soglia della sala cinematografica una volta terminato il film.
Foto 1 – 2 Copyright Warner Bros.