Cose che non si raccontano, di Antonella Lattanzi
Le cose che non si raccontano sono quelle che Antonella Lattanzi ha taciuto per anni alle persone a lei più care.
“[…] Che ho una diga nella testa dove stanno nascoste tutte le cose che fanno davvero troppo male. Quelle cose io non voglio dirle a nessuno. Io non voglio pensarle, quelle cose. Io voglio che non siano mai esistite. E se non lo dico non esistono.”1
Cose dolorose.
Cose violente.
Cose di cui si vergogna.
Cose che non esistono.
Cose di sangue.
Cose che hanno trovato un loro posto e una loro ragione di essere soltanto all’interno dell’ultimo romanzo della scrittrice.

Coraggiosa opera di auto-fiction, Cose che non si raccontano, arrivato nella dozzina finale del Premio Strega 2024, si nutre, infatti, di sentimenti negativi e brevi sprazzi di speranza in un vortice che trascina sempre più giù, insieme alla protagonista, anche il lettore.
Costretto a entrare nella vita più intima di Toni, al lettore non restano che due possibilità: partecipare e condividere il dolore della protagonista, provare la stessa rabbia che prova lei, la stessa frustrazione, la stessa speranza, la stessa invidia; oppure, prendere le distanze, porsi in quella categoria sociale che la scrittrice pur indaga attraverso le pagine: quelli che giudicano, condannano e criticano senza pietà. In entrambi i casi, egli non può che uscire cambiato dalla lettura che immerge in maniera totalizzante nella realtà di una donna contemporanea alle prese con il desiderio di maternità.

“[…] E io penso cazzo, perché unite sempre la parola maternità alla parola sacrificio e dolore? Anche per questo, forse, mi sono meritata di non rimanere incinta. Perché questa figura di madre dolorosa che si immola per i figli e scompare come essere umano non la posso sopportare”. 2
Lontano dall’idealizzazione e dagli abbellimenti, il racconto di Antonella Lattanzi è crudo e per questo più vero che mai. Ma soprattutto, laddove di maternità negata si è già scritto e il riferimento inevitabile è Oriana Fallaci con Lettera a un bambino mai nato, qui il racconto è tutto personale. La scrittrice, infatti, rifiuta l’impersonalità e rivendica un io sfortunato e forse colpevole, esponendo sé stessa e il proprio corpo a ogni sorta di dubbio, paura, giudizio tanto suo quanto del lettore che non può fare a meno di porsi domande lungo tutta la narrazione: è giusto che si debba sopportare tutta questa sofferenza? È giusto abortire quando arrivano figli indesiderati e poi pretendere di averli quando si vuole? È giusto anteporre la propria carriera lavorativa a una gravidanza? È giusto invidiare le madri felici fino a odiarle? È giusto tacere, tenersi tutto dentro senza cercare aiuto? È giusto desiderare la morte di un figlio affinché un altro possa sopravvivere?

Tra ciò che si ritiene più o meno giusto, quelle che restano sono pagine attuali e universali, che rivendicano la libertà di fare le proprie scelte; pagine di sfogo, flusso di coscienza che scorre come quel sangue mestruale indesiderato e quello emorragico post raschiamento: una spirale di dolore, attesa e colpevolizzazione.
“Nei momenti di dolore cerchi sempre un perché. Perché è successo quello che è successo? ho chiesto. Mi ha risposto una voce ancestrale, una voce da pensiero magico. Hai rifiutato due vite. E allora sei stata punita. Altre tre vite te le hanno tolte, tutte insieme, perché non te le meritavi. Non meriti di essere una madre. Non ho potuto che rispondere: avete ragione”.3

Note:
1 A. Lattanzi, Cose che non si raccontano, Einaudi 2023, p. 15.
2 Ivi, p. 29.
3 Ivi, p. 16.

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Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.