Serrapetrona è un comune marchigiano di poco più di 1000 abitanti, molti dei quali sfollati sulla costa, alcuni sistemati nelle SAE (Soluzioni Abitative d’ Emergenza). Quando arrivo in piazza, il 17 novembre, un nutrito gruppo di questi abitanti, più qualche forestiero (come me), aspetta pigiato davanti alla porta della chiesa di Santa Maria di Piazza: la sindaca sta per tagliare il nastro e inaugurare Il bello della ricostruzione. L’arte salvata si mostra: un’esposizione molto attesa, di cui magari non si è parlato sui telegiornali o nelle riviste d’arte famose, ma che affonda – e in più di un modo – le radici nei princìpi fondanti il famoso articolo 9. L’articolo 9 della Costituzione, che tanto viene nominato negli ultimi tempi, è quello che stabilisce l’impegno della Repubblica nella promozione dello sviluppo della cultura e nella tutela del paesaggio e del patrimono storico e artistico. Le ragioni di questo impegno sono sottintese: i cittadini devono poter godere di quel patrimonio culturale, perché in esso è racchiusa la loro storia e la loro cultura e quindi la possibilità di essere una comunità più informata, più consapevole e quindi migliore. Ed è a garantire questa possibilità che i cittadini di Serrapetrona hanno pensato nei difficili momenti del terremoto e durante la lunga organizzazione di questa esposizione.
Cosa è successo a Serrapetrona
Il terremoto ha devastato gran parte dei beni immobili nei territori colpiti delle Marche e ha così reso impossibile la fruizione di gran parte del patrimonio culturale della regione. In tutto il territorio hanno operato, a supporto di Vigili del Fuoco e Carabinieri, numerosi volontari appositamente preparati, che si sono impegnati nel recupero delle opere d’arte e nella messa in sicurezza di quanti più oggetti possibile. Queste opere sono adesso custodite in depositi in attesa di tempi migliori e, occasionalmente, i pezzi più noti vengono inviati in vari musei fuori regione o sulla costa per mostre temporanee.
A Serrapetrona, però, la storia è andata diversamente. Dopo la scossa del 26 ottobre 2016 (epicentro intorno a Visso) gli abitanti della città non hanno aspettato: si sono subito preoccupati per il loro patrimonio culturale, mettendosi a disposizione per mettere in salvo quante più opere potevano, sempre col timore che altre scosse, forse più devastanti, sarebbero potute arrivate. E hanno fatto bene, perché infatti c’è stata la scossa del 30 ottobre (epicentro a Norcia) che ha reso inagibili le chiese del paese. Due soltanto sono quelle rimaste accessibili: S. Francesco, che custodisce il noto polittico di Lorenzo d’Alessandro, e S. Maria di Piazza, che è stata scelta come sede della mostra di cui parliamo. Anche la chiesa di S. Maria di Piazza ha una storia legata al terremoto: ha subìto danni dal sisma del 1997 e, dopo il restauro, non è stata più riaperta; questa mostra si configura, quindi, come una doppia occasione di festa per gli abitanti del paese.
Negli spazi della chiesa sono state sistemate 26 opere, scelte tra quelle salvate dalle chiese di Serrapetrona e si tratta di una situazione temporanea, perché la promessa è quella di ricollocare le opere ai propri posti, non appena sistemate le altre chiese. Pur essendo temporanea, la mostra non presenta nessuna delle criticità che alcuni evidenziano per le grandi mostre blockbuster: non ha reciso i legami col territorio, perché i dipinti sono rimasti lì, dove stavano; non ha impoverito l’area di Serrapetrona, perché chi vorrà vedere le opere potrà andare al paese, e magari bere un po’ della vernaccia che lì si produce, o mangiare le ciambelline al vino (che io amo tanto). In questo modo si genera un beneficio per la zona, perché nessun territorio riparte se la gente guarda i dipinti e basta, ma ogni piccolo centimetro del nostro Paese mostra la sua ricchezza, ed esplicita il suo valore se vive in rapporto continuo con le testimonianze, tutte, della sua storia. La mostra non arricchisce un museo grande e famoso, che non ha bisogno di pubblicità o di visitatori, in una città turistica dove il sistema è già ben oliato e perfino il caffè lo paghi il doppio perché hai il privilegio di prenderlo proprio lì, ma fa l’esatto contrario. Non porta le opere (e con esse i turisti) lontano dal territorio, ma arricchisce una zona che è uscita indebolita dai danni del sisma; in più è interessante sotto un sacco di punti di vista.
Il valore per la comunità
Già dall’inaugurazione si evidenziano alcune questioni che sono fondamentali e molto attuali se le leggiamo alla luce della prossima ratifica della Convenzione di Faro. La convenzione di Faro è la disposizione quadro europea sul valore del patrimonio culturale per le comunità. Il testo della convenzione parla del concetto di “eredità culturale” cioè l’insieme di tutto ciò che viene trasmesso dalle “vecchie” generazioni e che una comunità erèdita e sceglie di sostenere, perché sente il desiderio di fruirne, per aumentare la qualità della vita e del progresso, perché si riconosce in quell’eredità, a prescindere dalla proprietà di questi beni. In quest’ottica non è più il solo patrimonio ad avere diritti ma la gente che di quel patrimonio può beneficiare.
Al di là della loro bellezza i dipinti e tutte le altre opere d’arte fanno parte di quell’eredità, così come ne fanno parte i dipinti meno noti conservati a Serrapetrona perché il valore culturale non è estetico e, con buona pace di Dostoevskij, la bellezza non salverà il mondo. Su questi temi ci fa riflettere l’intervento di Pierluigi Moriconi, storico dell’arte funzionario della Soprintendenza, che racconta di una storia successa durante i recuperi dei beni culturali a Favalanciata (tra Ascoli Piceno e Arquata del tronto, per capirci). In una chiesa, lo storico dell’arte si trova dubbioso davanti a una piccola Madonna di gesso, alta circa un metro, di quelle Madonnine che si trovano spesso nelle chiese, iconografia dell’Immacolata Concezione e produzione intorno agli anni Cinquanta del Novecento… Moriconi riflette sul prenderla o meno, e decide infine di lasciarla, perché si tratta di materiale di poco valore rispetto ad altre opere che era più urgente prendere. All’uscita dalla chiesa un signore prega il funzionario di mettere in salvo quella statua, che invece per lui era importantissima, dato che ad essa aveva rivolto per anni le sue preghiere raccomandandole la salute della moglie, che in seguito era guarita.
Un bene, tanti valori.
Non so dove sia ora quella Madonna, ma l’intervento di Moriconi ci fa riflettere sulla complessità del valore che i beni culturali hanno, doppio valore che è stato materia di discussione durante i recuperi, è il filo conduttore della mostra, e in realtà esiste per la maggior parte delle “eredità culturali”: il valore religioso, o l’attaccamento emotivo che si ha con gli oggetti della nostra quotidianità, esiste insieme al al valore, cosiddetto, “in sé”, cioè alla preziosità delle opere nel sistema della storia dell’arte, nell’assurda missione del salvataggio del mondo da parte della bellezza.
Il patrimonio culturale che oggi abbiamo, è lì perché in passato qualcuno l’ha custodito, ha pensato che alcuni oggetti fossero importanti e dovessero essere salvaguardati per noi; noi oggi tramandiamo lo stesso patrimonio perché crediamo ancora in quella importanza e in quel valore. Il valore, poì, ha molte forme: la Madonna di gesso, ad esempio, ha un forte valore religioso, un forte legame con la comunità ma non ha particolare valore storico artistico (o meglio, non ne ha ancora, perché voglio vedere tra duecento anni quanto varrà una di quelle Madonnine degli anni 1950, quando ne saranno rimaste due o tre in tutta Italia).
Gli stessi temi sono emersi dagli interventi dell’arcivescovo e della sindaca: Mons. Francesco Brugnaro, Vescovo Emerito dell’Arcidiocesi di Camerino-San Severino esalta il valore spirituale delle opere d’arte, mentre la sindaca Silvia Pinzi ha ricordato che anche quei cittadini che non frequentano mai la chiesa sono accorsi immediatamente dopo la scossa del 26 agosto e si sono offerti per aiutare con i recuperi. Un intervento in sinergia (anche ovviamente con le forze dell’ordine, la soprintendenza, i dipendenti comunali e il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata e della Regione) che ricorda che non esiste un valore “reale” e uno “meno reale”, il valore esiste se qualcuno ritene che esista, e qui sono state molte le persone che hanno riconosciuto in quegli oggetti il valore di testimonianza della propria storia, del proprio essere una comunità.
L’allestimento e le opere
Anche l’allestimento parla del doppio valore di questi beni: la disposizione delle opere segue e si adegua agli spazi della chiesa, tanto che non è facile distinguere quali opere sono state portate lì per l’occasione e quali erano presenti nella chiesa dall’inizio. Le opere non nascondono le forme della chiesa, anzi, le esaltano e la riportano ai passati splendori. Le tre opere di Domenico di Luigi Valeri sono state sistemate nelle loro posizioni originarie: la grande Assunzione della Vergine sopra l’altare principale; la Madonna del Rosario e il Transito di Giuseppe sopra gli altari laterali, per i quali furono pensate. Alcuni dipinti possono essere guardati bene da vicino, sistemati nella piccola sacrestia. La celebre tavola con la Crocifissione dipinta da Giovanni Angelo di Antonio è esposta in posizione privilegiata davanti all’altare e mostra un importante momento di passaggio per la pittura camerte: l’acquisizione delle nuove istanze della pittura rinascimentale che convivono con elementi tardogotici come il fondo oro. Accanto All’opera di Giovanni Angelo di Antonio si trova un’altra Crocifissione, di autore ignoto e risalente al XVII secolo, che favorisce un immediato confronto con l’opera più famosa. Ai lati dell’altare stanno tre grandi crocifissi, come quelli che spesso si trovano in ciascuna delle nostre chiese; si tratta di due croci lignee settecentesche e una dipinta risalente al Quattrocento, di quest’ultima si può vedere anche il retro: un punto di vista interessante che non sempre è possibile avere in un museo.
Numerose pale d’altare, di proprietà della Diocesi e in origine sparse tra le varie chiese del territorio, ci trasportano in un viaggio nella devozione marchigiana: Santa Lucia con gli occhi nel piatto, Sant’Antonio abate, protettore degli animali, che non può mancare dove ci sono fedeli che vivono di allevamento; la Madonna di Loreto, che portava pellegrini da tutta Europa e alla quale ogni mezzadro dedicava una nicchia nella propria casa; infine l’importantissimo Sant’Emidio, il santo protettore contro i terremoti che è tenuto in gran conto dai marchigiani dopo il grande terremoto di inizio Settecento. Sant’Emidio non poteva proprio mancare in questa esposizione importante, perché Serrapetrona è il primo, tra i comuni colpiti dal sisma, ad aver reso fruibili le opere nel territorio cui esse appartengono.
Insomma, a Serrapetrona si è restituito allo sguardo del pubblico un piccolo scorcio della storia del paese, e Barbara Mastrocola (direttrice dei musei dell’arcidiocesi di camerino-san severino) riassume la questione sottolineando, nel video di presentazione alla mostra, che la ricostruzione avviene davvero solo se si opera considerando una comunità come un sistema: persone, case, ambiente, attività, e beni culturali.
La mostra, a ingresso gratuito, è aperta ogni domenica e giorno festivo dalle 15:00 alle 19:00. Per orari diversi si può prenotare l’apertura al numero 0733 908321.