Nel conflitto che ha sempre segnato i rapporti tra l’arte e la storia il 17 ottobre 1944 è una data cruciale. Nelle prime ore di quel giorno di 71 anni fa un’intera generazione di artisti europei viene sterminata nella camere a gas del campo di Auschwitz-Birkenau. Sono i poeti, i musicisti, i pittori, gli attori che per quattro anni hanno vissuto nel ghetto modello di Terezín. Il giorno precedente, il 16 ottobre, sono stati caricati insieme ad altri 1500 deportati su un unico convoglio ferroviario, quello che le SS hanno chiamato beffardamente il treno degli artisti. E dopo 24 ore di viaggio la loro esistenza è finita andando su per un camino.
Tra gli uomini, le donne, i bambini spinti a forza su quel treno ci sono alcuni degli ingegni più vivi e brillanti del tempo: compositori come Hans Krasa, Viktor Ullmann, Pavel Haas e James Simon, direttori d’orchestra come Raphael Scachter, pianisti come Bernard Kaff e Carlo Taube, scrittori come Peter Kien, violinisti come Viktor Kohn e Egon Ledec. Giovani uomini tra i venti e i quarant’anni che avrebbero potuto conquistare un ruolo di grande rilievo nella storia dell’arte del Novecento e che invece sono stati assassinati nel pieno delle loro capacità e del loro talento. Artisti che nonostante la mancanza di libertà, il freddo, la fame, la solitudine, le malattie, la privazione degli affetti non hanno mai potuto rinunciare all’unico strumento di salvezza rimasto nelle loro mani: la creazione. Per molti di loro, anzi, la vita del ghetto è stata, per quanto paradossale possa sembrare, una “scuola d’arte”. Rinchiusi negli edifici plumbei della Grande Fortezza, gli artisti ventenni hanno vissuto il “rito di passaggio” dall’invenzione alla forma (e quindi dalla giovinezza all’età adulta), mentre i quarantenni hanno temprato il loro talento al fuoco freddo della contenzione. Senza mai rassegnarsi al lamento, alla autocommiserazione, alla mera contemplazione della propria sventura.
“Terezín – ha scritto Ullmann – è servita a stimolare, non ad impedire, le mie attività musicali. In nessun modo ci siamo seduti a piangere sulle sponde dei fiumi di Babilonia. Il nostro rispetto per l’arte era commisurato alla nostra voglia di vivere. E io sono convinto che tutti coloro che lottano, nella vita come nell’arte, per imporre un ordine al caos saranno d’accordo con me”.
Questo conflitto dolorosamente fertile tra limite e invenzione, tra prigionia e creazione è forse la forma più alta e sublime di virtuosismo che il Novecento abbia manifestato. Per questo SHE LIVES ha deciso di ricordare il 17 ottobre 1944 con un evento che costituisce lo “SHE LIVES Festival 2015“ dedicato al tema del virtuosismo. Non per costituire un altro “Giorno della Memoria“, l’opposto: ricollocare l’opera di questi artisti nel corso della storia musicale, svincolandola dai contesti commemorativi dove troppo spesso viene relegata; farla dialogare con musica scritta dai compositori che si trovano fuori dalle mura di quel ghetto, quelli contemporanei ai detenuti di Terezín, e quelli di oggi, che ne sono in un certo senso gli eredi.
Testimoni di questo ricordo, dunque, due pagine di Pavel Haas: lo Studio per orchestra d’archi, nato dentro le mura della Fortezza, e la trascrizione per orchestra d’archi del Secondo Quartetto per archi, nato invece in regime di libertà, sotto l’alto magistero di Leóš Janáček. I due brani fanno da cornice a un’opera che, come la musica di Haas, riceve linfa e nutrimento dal tesoro infinito delle musiche popolari europee e le ricompone attraverso il prisma universale del virtuosismo: si tratta di SPRANG, un concerto per due violini e orchestra d’archi scritto tra il 2011 e il 2012 dal compositore norvegese Lasse Thoresen, in prima esecuzione italiana.
È possibile sfogliare la brochure dell’evento a questo link: http://www.shelivesmusic.it/
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