C’è un paio di scarpette rosse
C’è un paio di scarpette rosse
Numero ventiquattro
Quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
Schulze Monaco
C’è un paio di scarpette rosse
In cima a un mucchio di scarpette infantili
A Buchenwald
Più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
Di ciocche nere e castane
A Buchenwald
Servivano a far coperte per i soldati
Non si sprecava nulla
E i bimbi li spogliavano e li radevano
Prima di spingerli nelle camere a gas
C’è un paio di scarpette rosse
Di scarpette rosse per la domenica
A Buchenwald
Erano di un bimbo di tre anni
Forse di tre anni e mezzo
Chi sa di che colore erano gli occhi
Bruciati nei forni
Ma il suo pianto lo possiamo immaginare
Si sa come piangono i bambini
Anche i suoi piedini
Li possiamo immaginare
Scarpa numero ventiquattro
Per l’eternità
Perché i piedini dei bambini morti non crescono
C’è un paio di scarpette rosse
A Buchenwald
Quasi nuove
Perché i piedini dei bambini morti
Non consumano le suole.
Un numero e un colore, una condizione che appare ineluttabile ed eterna, uno stato di cose che niente e nessuno può cambiare.
Questa l’immagine che la poetessa Joyce Lussu (nata Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti) nella poesia C’è un paio di scarpette rosse da Inventario delle cose certe, pone a capo di un mucchio di altre scarpette in un campo di orrore e di morte a Buchenwald, là dove i riccioli e le ciocche bionde, castane e nere rivelano la terribile comune sorte di molti bambini, privati della gioia di vivere e della dignità prima e della vita dopo.
Scarpette rosse numero ventiquattro, un oggetto semplice appartenuto ad una bimba dell’età di tre o tre anni e mezzo; delle scarpette che non possono assolvere la funzione per la quale sono state pensate e fabbricate; delle scarpette che resteranno quasi nuove per sempre.
Delle scarpette che testimoniano la vita di una bambina che non è più cresciuta; delle scarpette che diventano metafora di un’infanzia violata, di un’esistenza interrotta; delle scarpette che diventano simbolo di milioni di altre vite umane inghiottite dai campi.
Un paio di scarpette che nonostante la loro natura umile rivestono un potere semantico fortissimo, evidenziato dal colore rosso; delle scarpette che attendevano di essere usate e che si ritrovano ora a testimoniare ciò che di terribile è stato e ciò che di naturale, la crescita e la vita, non si è realizzato.
La poesia attraverso un commovente climax ascendente spinge l’interlocutore a vedere la bambina a cui le scarpette appartenevano, a pensare ai suoi occhi ormai arsi dal fuoco e al suo colore che non potrà mai svelarsi; al suo pianto di dolore e di sofferenza che invece è possibile immaginare; ai suoi piedini teneri e piccoli, come quelli di ogni bambino di quell’età che non cresceranno più a causa della morte.
Questo ritmo crescente, sottolineato dall’anafora, volto a descrivere ciò che avrebbe potuto essere, si ferma negli ultimi versi con l’immagine immobile delle scarpette rosse, che diventano metafora di un male universale e chiude come in un cerchio la poesia riconciliando tristemente l’inizio e la fine.