C’è un paio di scarpette rosse

C’è un paio di scarpette rosse
La copertina del libro Inventario delle cose certe, di Joyce Lussu. Immagine di Antonella Alberghina, licenza d’uso

C’è un paio di scarpette rosse

Numero ventiquattro

Quasi nuove:

sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica

Schulze Monaco

C’è un paio di scarpette rosse

In cima a un mucchio di scarpette infantili

A Buchenwald

Più in là c’è un mucchio di riccioli biondi

Di ciocche nere e castane

A Buchenwald

Servivano a far coperte per i soldati

Non si sprecava nulla

E i bimbi li spogliavano e li radevano

Prima di spingerli nelle camere a gas

C’è un paio di scarpette rosse

Di scarpette rosse per la domenica

A Buchenwald

Erano di un bimbo di tre anni

Forse di tre anni e mezzo

Chi sa di che colore erano gli occhi

Bruciati nei forni

Ma il suo pianto lo possiamo immaginare

Si sa come piangono i bambini

Anche i suoi piedini

Li possiamo immaginare

Scarpa numero ventiquattro

Per l’eternità

Perché i piedini dei bambini morti non crescono

C’è un paio di scarpette rosse

A Buchenwald

Quasi nuove

Perché i piedini dei bambini morti

Non consumano le suole.

La copertina del libro Inventario delle cose certe, di Joyce Lussu, edito da Andrea Livi Editore nella collana Gli Steli. Immagine di Antonella Alberghina, licenza d’uso

Un numero e un colore, una condizione che appare ineluttabile ed eterna, uno stato di cose che niente e nessuno può cambiare.

Questa l’immagine che la poetessa Joyce Lussu (nata Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti) nella poesia C’è un paio di scarpette rosse da Inventario delle cose certe, pone a capo di un mucchio di altre scarpette in un campo di orrore e di morte a Buchenwald, là dove i riccioli e le ciocche bionde, castane e nere rivelano la terribile comune sorte di molti bambini, privati della gioia di vivere e della dignità prima e della vita dopo.

Scarpette rosse numero ventiquattro, un oggetto semplice appartenuto ad una bimba dell’età di tre o tre anni e mezzo; delle scarpette che non possono assolvere la funzione per la quale sono state pensate e fabbricate; delle scarpette che resteranno quasi nuove per sempre.

Delle scarpette che testimoniano la vita di una bambina che non è più cresciuta; delle scarpette che diventano metafora di un’infanzia violata, di un’esistenza interrotta; delle scarpette che diventano simbolo di milioni di altre vite umane inghiottite dai campi.

Un paio di scarpette che nonostante la loro natura umile rivestono un potere semantico fortissimo, evidenziato dal colore rosso; delle scarpette che attendevano di essere usate e che si ritrovano ora a testimoniare ciò che di terribile è stato e ciò che di naturale, la crescita e la vita, non si è realizzato.

La poesia attraverso un commovente climax ascendente spinge l’interlocutore a vedere la bambina a cui le scarpette appartenevano, a pensare ai suoi occhi ormai arsi dal fuoco e al suo colore che non potrà mai svelarsi; al suo pianto di dolore e di sofferenza che invece è possibile immaginare; ai suoi piedini teneri e piccoli, come quelli di ogni bambino di quell’età che non cresceranno più a causa della morte.

Questo ritmo crescente, sottolineato dall’anafora, volto a descrivere ciò che avrebbe potuto essere, si ferma negli ultimi versi con l’immagine immobile delle scarpette rosse, che diventano metafora di un male universale e chiude come in un cerchio la poesia riconciliando tristemente l’inizio e la fine.

La copertina del libro Inventario delle cose certe, di Joyce Lussu. Immagine di Antonella Alberghina, licenza d’uso

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