Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso 

Mettere insieme ciò che è sparso è il delitto di cui la filosofia è sempre stata responsabile. Accostando, in questo articolo, tre parti dei Frammenti di un discorso amoroso di Barthes, abbiamo perpetuato la medesima violenza: una ferocia necessaria alla nascita di qualsiasi tentativo teoretico.

Frammenti di un discorso amoroso Roland Barthes Einaudi
La copertina dei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, nell’edizione ET Saggi di Einaudi (2014)

Domnei, il titolo del primo brano preso in considerazione, è un termine che indica l’atteggiamento di sottomissione del cavaliere alla donna amata, nell’ambito dell’amor cortese. Il tema di questo passaggio è, infatti, la dipendenza, la cui definizione, fornitaci da Barthes, è:

“Figura nella quale l’opinione intravede la condizione stessa del soggetto amoroso, asservito all’oggetto amato” (R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, p. 79).

L’innamorato è dipendente in maniera totale: deve esserlo sempre, soprattutto nelle situazioni più infime. La futilità è il segno della pervasività:

“più la cosa è futile, più ha significato e più si impone come forza” (Ibidem).

Barthes fa l’esempio di un amante che aspetta una telefonata dall’amato e si innervosisce, perché la possibilità di asservimento gli viene negata da delle comari che spettegolano. In preda al vassallaggio amoroso:

“io agisco energicamente per preservare proprio lo spazio della dipendenza e per permettere inoltre a questa dipendenza di esercitarsi: io mi smarrisco nella dipendenza ma, ciò che è più – altro tassello -, sono umiliato da questo smarrimento” (Ibidem).

Andrea del Verrocchio, Tobiolo e l’angelo (1470-1475), tempera su tavola (83,6×66 cm), National Gallery, Londra. Foto di Francesco Bini, CC BY 3.0

La perdita di sé, dovuta alla sottomissione, non impedisce all’innamorato di lavorare per perpetuare la propria condizione. La dipendenza si accetta perché essa finisce per dare senso all’amore: si è innamorati, se si è dipendenti. Che fine fa l’altro, l’oggetto amato?

“L’altro è assegnato a un habitat superiore, a un Olimpo ove tutto si decide e da cui tutto emana su di me” (Ibidem).

L’oggetto amato è in una posizione assolutamente preminente: prende decisioni che sono accettate di buon grado dal soggetto amoroso. Questo stato di fatto viene alterato da una precisa circostanza: l’amato – potremmo dire, il padrone – è a sua volta sottoposto ad un potere ulteriore. Solo in questo caso, il soggetto amoroso si risente, sente la propria condizione come iniqua, si interroga sulla propria sottomissione. L’innamorato dice:

“non mi trovo più nella Fatalità che da buon soggetto tragico io mi ero scelto” (Ivi, p. 80).

Barthes accenna alla similitudine tra questa occasione e lo scontro tra potere aristocratico e rivendicazioni democratiche. È qui il fulcro della scelta dei brani: riteniamo che le parti del testo, analizzate in questo articolo, dimostrino una vicinanza tra l’esperienza dell’innamorato e quella del governato. Amore e potere si somigliano. Il governato, così come l’innamorato, si sente colpevole. Così Barthes definisce le colpe:

“In un qualsiasi episodio trascurabile della vita d’ogni giorno, il soggetto crede di aver mancato nei confronti dell’essere amato e prova per questo un sentimento di colpevolezza” (Ivi, p. 49).

Ancora la futilità, ma soprattutto il debito: il soggetto amoroso è sempre in perdita; è legato all’oggetto amato da un’obbligazione inestinguibile. Uno deve partire in treno, ci sale su. L’altro potrebbe andar via ma non lo fa: sottrarsi per primo al legame amoroso costituirebbe un errore imperdonabile. Che cos’è dunque la colpa? Quando si dà il caso che io mi senta colpevole?

“Ogni volta che, per spezzare l’asservimento, cerco di «sganciarmi» (è il consiglio unanime del mondo), io mi sento colpevole” (Ivi, p. 50).

L’innamorato si accusa quando tenta di essere indipendente. Il tribunale dell’amore considera un delitto l’autonomia. L’eterodirezione è la norma. Rifiutare la devozione è il crimine. La colpa è ciò che garantisce il mantenimento della gerarchia e del suo pathos: essere leggeri, sgravare sé stessi dal peso della venerazione sembra impossibile. Il discorso amoroso è serio e pauroso. L’innamorato è terrorizzato dalla propria potenza:

“Insomma, ciò che mi fa paura è di essere forte e ciò che mi rende colpevole è la padronanza (o il suo semplice gesto)” (Ibidem).

Se si è forti, ci si può emancipare dal giogo dell’amore. Questa pseudo catastrofe va impedita. Colpa, serietà e paura marchiano, così, il soggetto amoroso, lo inducono ad un destino preciso: essere sempre dalla parte del torto. È possibile, però, il respiro? La crisi amorosa può risolversi? L’innamorato concepisce l’evasione? Barthes descrive così le vie d’uscita, le idee di soluzione:

“Sogni di soluzioni di qualsiasi genere che, nonostante il loro carattere spesso catastrofico, danno al soggetto amoroso una pace momentanea; manipolazione fantasmatica delle possibili soluzioni della crisi amorosa” (Ivi, p. 211).

Cosa sono il suicidio, la separazione, il ritiro solitario, il viaggio, sognati dal soggetto amoroso? Fantasmi di un altro ruolo, nulla di più; fughe ideali, senza un senso concreto; un semplice ripiegamento, non una ritirata dal campo di battaglia. L’amore non finisce. La soluzione non è mai pratica; al massimo, è linguistica, verbale, teorica: si dona totalmente alle idee per rendersi inattuabile:

“Il discorso amoroso è in un certo qual modo uno sbarramento delle Vie d’uscita” (Ibidem).

Il soggetto amoroso è conservatore: sogna alternative estreme ma puramente ideali, interne al sistema, cioè inefficaci. Inoltre, relegare al campo immaginativo l’evasione, anche catastrofica, ha un altro pregio: rende l’innamorato un creatore, un fabbricante di immagini, un artista. La volontà di emancipazione si convoglia in un’idea, in un’immagine, in un artificio:

“L’arte della catastrofe mi acquieta” (Ibidem).

L’innamorato, in più, quando sogna di disfarsi della propria sottomissione, si sogna comunque innamorato: si suicida, si separa, si ritira e viaggia, vedendosi sempre innamorato. Per liberarsi, dovrebbe uscire dal sistema: in termini espliciti, dovrebbe smettere di essere innamorato. Permanendo l’amore, permane l’oppressione:

“Io ordino a me stesso di essere sempre innamorato e di non esserlo più” (Ivi, p. 212).

Questa strategia paradossale non ha alcun esito. Sognare queste soluzioni equivale a non sognarne nessuna. È una trappola. L’innamorato/governato, incastrato nel discorso amoroso, è destinato alla sconfitta. L’amore è l’oppressione. Il discorso della liberazione si instaura, dunque, nei fallimenti del discorso amoroso: lì dove si disfano la dipendenza, la colpa, la paura, la serietà, il torto, il debito, il sogno frustrante.

Nella copertina dell’edizione ET Saggi di Einaudi dei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, dettagli dalla tavola di Andrea del Verrocchio, Tobiolo e l’angelo. Qui ripresi dalla foto originale di Francesco Bini, CC BY 3.0

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