The Whale, per la regia di Darren Aronofsky – recensione

Si immagini il mare come l’insieme di tutte le possibili emozioni che l’arte cinematografica può comunicare ed i pesci suoi abitanti come le pellicole, che vivono e nuotano in questo mare. Si spostano, seguono correnti, ma non possono vivere a lungo al di fuori di quell’immenso blu. Chi proviene dall’esterno prova a comprendere queste creature immergendosi, scoprendo che questo mare può non solo essere respirato, ma che forse è migliore dell’aria a cui si è abituati. Ciò che impedisce tuttavia l’esplorazione di questo luogo meraviglioso sono le tre gabbie.

La prima somiglia più ad una rete, che vuole che si comprenda e giudichi ogni creatura che si incontra in fretta, per poi passare alla successiva. La seconda è una gabbia meravigliosa, così bella nella sua forma che distoglie lo sguardo dalle creature per cui in primo luogo ci si era immersi, facendo dimenticare il proprio scopo. La terza aderisce addosso, possiede un aspetto a cui si è avvezzi ma ricorda in ogni istante che non si potrà mai essere abitanti di quel mare, solo ospiti, esploratori esterni, che potranno solo e soltanto cercare ancora e ancora altre creature.

Quando la mente riesce a rendere gli ospiti liberi dalle tre gabbie, allora possono davvero esplorare, magari seguendo, come i pesci, delle correnti oppure incappando in degli incontri inaspettati, come la Balena. The Whale.

Una creatura magnifica, gigantesca eppur non predatoria, innocua ma in grado di lasciare spaventati e meravigliati. Questo abitante sublime del mare delle emozioni non può essere compreso con un primo sguardo. Copre l’intero campo visivo perché è troppo grande, ha bisogno di tempo affinché se ne comprenda la forma e ancora più tempo per essere compreso del tutto.

Eppure, l’aspetto di questa balena non è complesso. Forse somiglia ad un uomo, Charlie, intrappolato anch’esso da tre gabbie. Quella del proprio corpo enorme, che ne rende impossibili movimenti considerati banali. Quella della propria casa, entro la quale la sua vita si svolge ed oltre la quale egli non si spinge e non perché il suo corpo non lo permetta. Poi c’è la terza. La gabbia della mente, del passato, del rimorso e della paura, la gabbia dei propri errori che danno origine ad un’ossessione e di conseguenza creano le altre due.

Eppure, Charlie da fuori è sempre ottimista, lavora affinché i suoi allievi non solo diano il proprio meglio, ma mettano a frutto il proprio talento e soprattutto siano sinceri. Certo, lo fa attraverso uno schermo ed una telecamera sempre spenta, non dissimile dalla prima gabbia che gli ospiti avevano prima di iniziare la loro esplorazione nel mare.

Cosa succederebbe però se la balena si rendesse conto che sta per morire in quelle tre gabbie? Cercherebbe di rimediare ai propri errori, di comprendere la natura dell’amicizia che lo lega alla sua infermiera. Cercherebbe di comprendere uno sconosciuto, che riporta alla mente un terribile passato e di ricucire un rapporto con la figlia che ormai lo odia e lui ha abbandonato.

Lo farebbe mantenendo il suo ottimismo, la sua sagacia, il suo sorriso, ma senza rinunciare alla sua ossessione, senza far nulla per posporre l’inevitabile. Lo farebbe soffrendo, come un eroe che cerca di salvare tutti quanti caricandosi le loro ferite, che però sono anche le sue e che magari ha in primo luogo egli stesso causato. O come un prigioniero, che cerca di evadere dalle sue gabbie partendo da quella più interna, la peggiore di tutte.

Ma quella sofferenza non è un fardello semplice da sopportare. La balena Charlie è lì davanti ai nostri occhi che soffre terribilmente e noi soffriamo con lei, ma non possiamo aiutarla. Siamo visitatori, possiamo ammirare ma non cambiare le cose per quella magnifica creatura. La sua vita si svolge davanti ai nostri occhi e quello che ci arriva addosso sono le onde del mare che la creatura smuove soffrendo. Ma non sono normali onde, sono tsunami.

Uscendo dalla gabbia della metafora, The Whale è proprio questo. Un viaggio nella sofferenza di Charlie ed un viaggio nella sofferenza di Brendan Fraser. Un uomo che ha sofferto, un attore che nessuno voleva e che, come Charlie, ha ritrovato una ragion d’essere, regalando qualcosa che va al di là del semplice concetto di “interpretazione”. È anche la sua sofferenza che vediamo messa in scena. Lo vediamo divorare lo schermo grazie a quelle inquadrature leggermente dal basso, con la soffocante mole che diviene ancora più immane nella penombra perenne di una piccola casa dalle tende sempre chiuse.
Vediamo quattro animi gentili che si scontrano e si conoscono, si confessano, cambiano, evolvono e migliorano ma al prezzo della perenne sofferenza di Charlie. Un dolore immenso e talvolta quasi impossibile da sostenere, che ci fa sperare che quell’uomo si liberi delle sue tre gabbie, che decida di chiudere i conti con il passato, uscire da quella casa e farsi ricoverare e infine migliorare il proprio corpo e tornare a vivere. Ma il dolore spesso è una spirale, si espande e ritorna su se stesso per risucchiarci. Chissà se Charlie ce la farà, o se morirà invano nel tentativo o se magari riuscirà a fare del bene e raggiungere i suoi veri obiettivi. Sarà il finale a dirlo, un finale inaspettato per chi non conosce Darren Aronofsky, magari non una novità per chi vi è familiare.

The Whale. Gallery

Dopo la gabbia della metafora, necessito di essere libero anche dalla gabbia dell’analisi critica e del linguaggio “da articolo”. Ho bisogno di uscire dalle tre gabbie anch’io per scrivere qualcosa di sincero, come Charlie vorrebbe. E sono sicuro che Charlie odierebbe la prima parte di questo scritto, come magari avrete fatto voi.

Ma ora che sono libero posso essere sincero. Questo film mi ha distrutto. Mi ha così provato emotivamente che per tre giorni dopo la visione non riuscivo a parlarne con nessuno, figurarsi a scriverci. Mi ha fatto così tanto riflettere che sento un bisogno quasi fisico di rivederlo, ma non sono sicuro di poterne reggere l’impatto una seconda volta.

Il modo che ha di comunicare il dolore è così bello e diretto che è impossibile non empatizzare con Fraser, come personaggio e come uomo, ma senza scadere nella volgarità della messa in scena fatta per compiacere in maniera quasi perversa lo spettatore (sì, non volevo scrivere voyeurismo, ma tant’è).

Però è un film ottimista. È un dannato inno alla vita, alla sincerità, al non smettere mai di combattere, a non smettere mai di voler far del bene e non smettere mai di provare a rimediare ai propri errori. Per quanto la vita ci schiacci, ci blocchi, ci ingabbi e ci faccia soffrire The Whale ci dice che non è mai finita fino all’ultimo momento. Ma non lo fa impartendoci una lezioncina di vita, come se fossimo in una scuola con professori mediocri, lo fa sbattendoci in faccia il dolore di un essere umano e facendoci star male con lui.

Credo che qualsiasi frase di chiusura sia ormai superflua, posso solo assicurarvi, semmai vorrete credere a delle parole su uno schermo, che sono stato anch’io sincero.

The Whale Darren Aronofsky
La locandina del film The Whale, per la regia di Darren Aronofsky

Per ulteriori informazioni sul film (sinossi, cast, premi, ecc.):

The Whale, di Darren Aronofsky

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