Pompei e Longola raccontano la Giornata Nazionale del Paesaggio
Per la Giornata Nazionale del Paesaggio organizzata annualmente dal Ministero della Cultura, il Parco Archeologico di Pompei ci porta alla scoperta del paesaggio vesuviano, quest’anno necessariamente online, attraverso video e immagini di chi all’interno del sito si occupa proprio di verde e paesaggio.
Ma cosa si intende per paesaggio? Spesso siamo ritenuti a pensare al paesaggio come ad un panorama in cui l’azione dell’uomo è assente. Questo forse è un primo errore in quanto il paesaggio non può essere inteso solo come naturale ma ormai fortemente antropizzato, un’entità vivente che si evolve, si plasma con e per l’evoluzione del tempo che scorre.

Il paesaggio pompeiano, infatti, ha subito diverse trasformazioni proprio a seguito dell’eruzione ma paesaggio a Pompei significa anche verde all’interno delle domus, sugli affreschi che spesso caratterizzano i favolosi apparati decorativi delle abitazioni o degli edifici ma anche manutenzione programmata di un verde che può diventare invasivo e che grazie a specifici lavori fa da meravigliosa cornice all’interno del Parco.
https://www.youtube.com/watch?v=kJCcvr9Rjm4
Dall'insula dei Casti amanti, dove è attualmente in corso un cantiere di messa in sicurezza dei fronti di scavo e rifacimento delle coperture, il vulcanologo e il geologo del Parco illustreranno la stratigrafia dell’eruzione del 79 d. C. emersa con particolare evidenza nel corso del cantiere, in una sezione a ridosso di uno degli ambienti su cui si sta intervenendo, allo scopo di raccontare le fasi e le dinamiche del tragico evento che seppellì Pompei e le conseguenti mutazioni paesaggistiche e geologiche. Inoltre per la prima volta verranno mostrati e narrati gli strati che costituiscono il sottosuolo della città: strati che raccontano una lunga storia di frequentazioni preistoriche, eruzioni vulcaniche, risorse naturali e cambiamenti del paesaggio.
https://www.youtube.com/watch?v=mhQ6LeQWius&t=2s
E ancora l’architetto Paolo Mighetto in un video nel giardino della Casa dell’Ancora e dalla via dei Sepolcri racconterà il complesso lavoro di manutenzione e gestione del verde di Pompei. Così come le bellissime pitture dalla Casa dei Ceii, della Casa del Menandro e dell’Efebo che raccontano, attraverso una carrellata di immagini, l’illusione di un paesaggio fantastico o scenografico, spesso con inserimento di diverse specie vegetali e animali, una base di studio importante anche per l’archeobotanica o scene con paesaggi esotici con animali tipici del delta del Nilo o con scene di Pigmei che tanta fortuna visiva hanno avuto nel mondo romano.

Infine il sito di Longola a Poggiomarino, un sito archeologico e naturalistico scoperto casualmente nel 2000 durante i lavori per la realizzazione dell’impianto di depurazione di Poggiomarino – Striano. Lo scavo, condotto dall’ex Soprintendenza di Pompei oggi Parco Archeologico, ha messo in luce un insediamento frequentato dalla media età del Bronzo fino al VI secolo a.C. e unico sito perifluviale per tutta l’Italia meridionale.
https://www.youtube.com/watch?v=ze9mSILUzoc
Le abitazioni erano costituite da capanne che sono state ricostruite in scala reale sugli isolotti in cui si trovavano originariamente. In particolare, è stato riprodotto un isolotto adibito per spazi abitativi, delimitato e circondato da palizzate di protezione dall’acqua. Qui erano presenti 5 capanne, due riprodotte e visitabili, mentre le altre sono state delimitate planimetricamente con filari di pietre calcaree così da restituire ai visitatori l’idea dell’estensione e dello spazio. Il tetto era a doppio spiovente e l’ingresso era su un lato, mentre lo spazio interno era diviso in due navate o più vani e un focolare era al centro dell’ambiente principale.

L’abitato, al centro della valle del Sarno, godeva di una posizione strategica ben collegata con la costa e i territori limitrofi. Inoltre, la vocazione di Longola quale centro produttivo e di scambi è facilmente intuibile dal suo stretto rapporto con le vie d’acqua, fluviali e costiere, percorse con imbarcazioni monossili di cui in mostra è possibile vederne qualche esemplare. Numerosi reperti lignei recuperati durante lo scavo del sito sono stati oggetto di delicatissimi lavori di restauro, necessari sia per lo studio che per l’attuale musealizzazione all’interno dell’Antiquarium di Boscoreale.
Intervista all'archeobotanica Chiara Comegna
Intervista a Chiara Comegna, archeobotanica e contrattista presso il Laboratorio di ricerche applicate del Parco Archeologico di Pompei che ha appassionato il pubblico durante il suo seminario "I semi dell'avvenire. Storiae di botanica ed alimentazione nel mondo" presso la Biblioteca Antoniana di Ischia.
Tante le domande e le curiosità suscitate dal suo intervento nella seconda edizione di Arkeostoriae - archeologia e narrazioni ideato e organizzato dall'archeologa Alessandra Vuoso che ci ha permesso di incontrare esperti di storia antica, beni culturali e narrativa, permettendoci anche di poter soffermarci maggiormente sulla loro professione
Allora, curiosi e affascinati, abbiamo chiesto proprio alla Dottoressa Chiara Comegna di rispondere a qualche domanda sulla sua professione permettendoci di addentrarci su questo particolare aspetto della ricerca archeobotanica ancora poco conosciuta al grande pubblico.

Dottoressa Comegna, cos’è l’archeobotanica e cosa studia?
L’archeobotanica è una macrodisciplina che si occupa dello studio e dell’interpretazione dei reperti vegetali portati in luce in contesti archeologici al fine di comprendere i diversi aspetti del rapporto uomo-pianta e la sua evoluzione.
Questi reperti sono di diversa tipologia e dunque anche le tecniche di analisi sono differenti a seconda che si tratti di semi o frutti (carpologia), legni e carboni (xiloantracologia), pollini (palinologia) e altre evidenze macro e microscopiche.
Quando nasce la disciplina?
L’archeobotanica intesa come “studio dei reperti vegetali da contesti archeologici” si può dire che nasca negli anni ’60 del secolo scorso quando si iniziò a porre l’attenzione allo sfruttamento delle risorse naturali, in particolar modo vegetali, da parte dell’uomo nel corso della storia.
In quanto disciplina ibrida il suo sviluppo, per certi versi ancora in itinere, si deve al continuo confronto tra settori scientifici differenti ognuno dei quali ha esigenza di ottenere risposte a domande diverse a seconda dell’ambito culturale di appartenenza (scienze naturali, agronomiche, archeologiche). Una delle peculiarità della materia è infatti l’aspetto interdisciplinare.

Quali sono gli strumenti che utilizza un archeobotanico?
Il lavoro dell’archeobotanico comincia con la pianificazione delle attività di scavo e/o campionamento che, in genere, avviene di concerto con l’archeologo e gli altri professionisti coinvolti.
Le attività sul campo, condotte con gli strumenti tipici sia dell’archeologo (trowel, picozzine, setacci) che del biologo (bisturi, sgorbiette, pinzette, tubetti sterili), sono necessari al recupero dei reperti che, successivamente, vengono analizzati in laboratorio con microscopi di diversa tipologia a seconda del reperto per arrivare all’identificazione delle specie.
I dati ottenuti vengono inseriti in Database e vengono creati dei grafici, in tal modo si può procedere alla loro interpretazione comparando tutte le fonti a disposizione.
Quali contesti ha studiato durante la sua esperienza professionale e cosa ha potuto ricostruire a livello di informazioni?
I contesti studiati sono stati diversi e afferenti a diverse epoche e culture ma uno dei lavori a cui tengo maggiormente è il primo lavoro che mi fu affidato a Pompei.
Si tratta di uno studio multidisciplinare in cui ho lavorato fianco a fianco con l’archeologo e l’archeozoologo: l’analisi dei reperti organici relativi un rituale individuato nell’esedra del Tempio di Iside a Pompei.
In questo caso, mentre gli archeologi si sono occupati della caratterizzazione del materiale ceramico oltre che ovviamente delle evidenze di scavo, e l’archeozoologa dei reperti faunistici, io ho identificato i carporesti (semi e frutti) e gli antracoresti (carboni) che caratterizzavano l’offerta rituale.
Il lavoro di équipe ha portato all’individuazione di un rituale complesso e preciso che spesso si ritrova raffigurato anche nei larari (presenza di pigne e frutta secca) e, nel mio caso, è stato possibile anche scoprire che tra le offerte, all’interno di un piccolo contenitore, vi era una sorta di composta di fichi.

Quanto può essere probante il campione prelevato e che numerosità deve avere per dimostrare l’effettiva presenza di una specie in un territorio e la sua eventuale coltivazione?
E’ importante ottenere dati che possano essere statisticamente rilevanti; ad esempio nel caso dei pollini sarebbe consigliabile arrivare almeno ad un paio di centinaia di granuli pollinici per vetrino e una quindicina/ventina di taxa o per i carboni, nel caso di campionamenti di grandi aree, si effettuano prelievi di grandi volumi di sedimento per il recupero di più frammenti possibili così da avere un quadro quanto più realistico possibile della vegetazione circostante.
È possibile individuare le modalità di coltivazione delle piante e dunque poter formulare ipotesi sul paesaggio antropizzato a partire dalle indagini archeobotaniche?
Se lo scavo viene condotto correttamente, oltre ai reperti archeobotanici vengono individuate tutta una serie di tracce (rincalzi, buche originate dalla disgregazione degli apparati radicale delle piante, tracce di aratura, ecc…) che possono fornire le informazioni necessarie alla corretta interpretazione del paesaggio vegetale antropizzato.
Questo tipo di dato è possibile ottenerlo intrecciando i dati archeologici, che prescindono dalla corretta metodologia di scavo applicata, le fonti scritte (ove presenti) ed anche i dati etnobotanici (tradizioni ancora presenti nel territorio).
Dai reperti rinvenuti nei siti vesuviani è possibile capire se avvenivano delle selezioni delle specie per migliorarne la produttività?
Un esempio in merito riguarda i tantissimi vinaccioli portati in luce nello scavo di Poggiomarino. Dagli studi effettuati è stata evidente la presenza di vinaccioli appartenenti sia a vite selvatica che a vite domestica testimoniando dunque la compresenza delle due specie ma anche il presunto passaggio dall’una all’altra e la selezione.
Quali sono le metodologie di scavo che consentono di fare interagire l’archeobotanico con le altre professionalità presenti in uno scavo archeologico?
L’interazione tra archeobotanico e tutte le professionalità presenti sullo scavo è necessaria. Per effettuare una corretta programmazione e pianificazione delle operazioni di scavo devono essere coinvolti tutti professionisti così da attuare le metodologie più idonee a seconda delle caratteristiche dello scavo in questione.

La densità del costruito in un’area urbana e la conseguente adiacenza delle aree verdi può costituire un problema nell’individuazione di specie vegetali effettivamente coltivate nell’area in analisi?
Spesso sullo scavo si ha la necessità di intervenire, in accordo con i vari enti, tagliando alberi e arbusti che insistono nell’area di lavoro. In qualche occasione le radici di questi alberi (come nel caso degli ailanti) arrivano fino ai piani archeologici e possono disturbarli.
Differente è il caso dei campionamenti per il recupero dei reperti archeobotanici: per far sì che siano corrette, tutte le operazioni di campionamento sono studiate e programmate tenendo conto delle variabili e degli eventuali elementi inquinanti così che le interpretazioni possano risultare il più corrette possibili.
Le campionature palinologiche in aree già scavate possono risultare falsate dalla presenza di pollini provenienti da giardini moderni?
Normalmente non si effettuano campionature palinologiche in aree già scavate a meno che queste non siano esposte da poco tempo o che sia possibile effettuare il prelievo in sezioni verticali che possono essere ripulite dallo strato contaminato dal moderno.
Bisogna puntualizzare che non è possibile effettuare il campionamento pollinico ovunque perché non tutti i sedimenti sono idonei alla conservazione dei pollini; anche in questo caso è quindi necessario lavorare in accordo con gli altri professionisti (geologi, archeologi) presenti sul cantiere di scavo per individuare i punti più adatti al campionamento.
Intervista all'archeobotanica Chiara Comegna, Foto: Courtesy of Arkeostoriae - archeologia e narrazioni
Qui per rivedere il seminario: "I semi dell'avvenire. Storiae di botanica ed alimentazione nel mondo" di Chiara Comegna
https://www.facebook.com/100486155139681/videos/614883519179999
Una paradossografia pseudo-aristotelica: il “De mirabilibus ascultationibus”
UNA PARADOSSOGRAFIA PSEUDO-ARISTOTELICA: IL “DE MIRABILIBUS ASCULTATIONIBUS”
Quando ci si imbatte nella lettura di Aristotele spesso l’attenzione ricade su opere come la Metafisica, Poetica, Politica etc. che, seppur pregevoli per le informazioni e ricche di spunti filologici, non mancano certo di contributi esplicativi. La situazione, però, non è omogenea, non tutte le opere, aristoteliche o presunte tali, hanno ricevuto lo stesso trattamento o, seppur emendate e commentate, non risaltano all’attenzione del lettore esperto e non.

La questione del De mirabilibus ascultationibus è degna di nota sia per le problematiche storico-filologiche sia per le informazioni, spesso stravaganti, contenute all’interno della raccolta. Come si deduce dall’intestazione, l’opera è definita pseudo-aristotelica, non a caso differenti filologi (Alessandro Giannini, per citarne uno) hanno riscontrato diverse problematiche nel ricercare l’autore di questa raccolta di eventi mirabolanti. La difficoltà nell’individuazione della paternità è connessa con la varietà dei contenuti, varietà che riguarda non solo le informazioni, ma anche e soprattutto la datazione delle stesse. Non mancano, infatti, capitoli che riferiscono eventi precedenti o, addirittura, posteriori ad Aristotele stesso: in questa circostanza, allora, come ci si dovrebbe comportare? Giunge in soccorso la tradizione del Corpus Aristotelicum. Per quanto riguarda la tradizione dei filosofi, in particolar modo Platone e Aristotele, le loro ‘scuole’ hanno giocato un ruolo fondamentale per la salvaguardia delle loro opere, nel caso di Aristotele il Liceo ha permesso che una buona parte della produzione aristotelica venisse tramandata ai posteri. All’interno di questa istituzione, il Liceo per l’appunto, definendola con una terminologia moderna, Aristotele ammaestrava i suoi allievi con le sue lezioni. Non è da escludere, quindi, che se diversi capitoli del De mirabilibus ascultationibus possano essere, con i dubbi del caso, ascritti allo Stagirita, gli altri possano avere una paternità diversa: si può ipotizzare, in questo caso, che differenti capitoli siano ascrivibili agli allievi. A confermare quest’ultima ipotesi c’è la questione della fonte o delle fonti della raccolta. Se ci si attiene alle informazioni degli studiosi, le fonti principali dell’opera paradossografica pseudo-aristotelica sono da indicare in Timeo, Teopompo e Teofrasto. Quest’ultimo, infatti, è stato allievo di Aristotele al Liceo.

Connessa alla difficoltà della paternità della raccolta c’è la questione della datazione. Anche in questo caso si deve ipotizzare una pluralità di aggiunte seriori, anche se, cercando di datare quei capitoli ascrivibili ad Aristotele, si potrebbe definire come terminus ante quem il 384 a.C. (anno della nascita di Aristotele) e come terminus post quem il 322 a.C. (anno della morte dello stesso), in quest’arco di tempo, presumibilmente, va cercata l’origine di alcuni capitoli di probabile paternità aristotelica.
Le difficoltà legate alla paternità e alla datazione ricadono, anche, sulla struttura dell’opera. I capitoli non hanno una successione cronologica né tantomeno contenutistica, ma spesso risultano inseriti in maniera confusionaria e priva di una organizzazione razionale.
Dopo questa brevissima parentesi storico-filologica, è importante spiegare le ragioni che devono spingere studiosi e appassionati alla lettura del De mirabilibus ascultationibus. Come si evince dal titolo, l’opera presenta informazioni paradossali. Lo Pseudo-Aristotele (o si potrebbe definire anche Anonimo, date le suddette problematiche di paternità), tratta argomenti di vario genere: dalla zoologia alla botanica sino ai fenomeni geologici. Tutti i paradossi, eccetto rari casi, sono accompagnati dal luogo d’origine: si va dal Medio Oriente alla Grecia continentale sino all’Illiria e Italia (Sicilia e Magna Grecia).
Ogni sezione presenta delle caratteristiche principali: la sezione botanica è legata agli effetti ed usi delle diverse erbe e fiori disseminati sulla Terra (si deve tener presente che per Terra va intesa la superficie conosciuta sino al IV-III a.C.). Lo Pseudo-Aristotele (o Anonimo) parla di erbe benefiche e malefiche, di erbe legate ai culti religiosi e quelle legate alla sfera matrimoniale e, addirittura, racconta di fiori che emanano un odore acre tale da allontanare le bestie feroci.
La sezione zoologica è interessata alle dimensioni e alle funzioni di diversi animali. Si passa da bestie più grandi del normale a pesci che riescono a sopravvivere sulla spiaggia. Lo Pseudo-Aristotele tratta anche, per esempio, di locuste che, se ingerite, salvano dai morsi dei serpenti; quest’ultima informazione poteva (e può) essere utile per uno studioso di rimedi farmaceutici.
La sezione geologica è legata sia ai diversi fenomeni naturali: vengono trattati i casi di alta e bassa marea nello stretto di Messina, laghi che generano vortici e sputano una grande quantità di pesci, sia alla presenza, in diverse località, di metalli e pietre preziose. Spesso questa sezione è interessata, anche, da fenomeni mitologici: lo Pseudo-Aristotele parla, per esempio, di un evento accaduto a Catania ai due pii fratres (fratelli devoti), Anfinomo e Anapio; dopo l’eruzione dell’Etna, i due fratelli, con i loro genitori sulle spalle, furono salvati dalla lava grazie alla loro pietas (devozione), questo evento segnò così tanto i catanesi da farlo incidere sulle monete coniate tra il II e il I a.C. Quest’ultimo dato, per esempio, può risultare utile agli studiosi di numismatica.
L’intera raccolta è ricca di queste informazioni e il De mirabilibus ascultationibus, per concludere, può essere definita un’opera poliedrica: utile agli studiosi del Corpus Aristotelicum o agli appassionati e interessante anche per medici, erboristi e zoologi, antichi e non.

Città greca "perduta" è in realtà risultato formazioni geologiche subacquee
2 Giugno 2016
La scoperta di quelli che sembravano pavimenti, colonnati e cortili aveva fatto pensare ai sommozzatori che quella ritrovata sott'acqua nei pressi dell'isola di Zacinto, in Grecia, potesse essere una città greca "perduta".
In realtà, secondo un nuovo studio pubblicato su Marine and Petroleum Geology, si tratterebbe solo del risultato di fenomeni naturali verificatisi nel Pliocene, 5 milioni di anni fa.

Queste le conclusioni del team di ricerca, composto da membri dell'Università dell'Anglia Orientale e dell'Università di Atene, che ha preso in esame la composizione delle formazioni, utilizzando diversi strumenti di analisi.
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Geologia e campi di battaglia della Guerra Civile Americana
17 Marzo 2016
Da un punto di vista geologico, il campo di battaglia della Guerra Civile Americana ad essere stato studiato di più è quello nei pressi di Gettysburg in Pennsylvania.
Qui si trova un mix di tenere rocce sedimentarie e di diabase, cioè di dure rocce ignee. Questo produsse le celebri conformazioni del paesaggio che è possibile vedere ad esempio a Cemetery Hill e Little Round Top, e che divennero forti posizioni difensive per gli eserciti dell'Unione. Un tipo di roccia ancor più comune, i carbonati (tra i quali, ad esempio, calcari) produsse numerose altre posizioni difensive nei teatri del conflitto, tanto a oriente come ad occidente.
Le rocce dolomitiche come quelle calcaree hanno modellato il terreno di numerosi campi di battaglia: Antietam, Stones River, Chickamauga, Franklin, Nashville, e Monocacy. Chiaramente il terreno giocò un ruolo importante con riguardo al valore delle tattiche impiegate.
Un nuovo studio, pubblicato su Geosphere, spiega come le roccie carbonatiche abbiano prodotto terreni ondulati che riducevano la portata e l'efficacia di artiglieria e armi di piccolo calibro (ad esempio, “Sunken Road” ad Antietam). Inoltre, il terreno poteva non essere dissodabile: le foreste contribuivano così a tenere nascoste le truppe, offrendo copertura a chi avanzava (ad esempio, a Stones River). Su una scala geografica più ampia, i carbonati potevano offrire il vantaggio da un punto di vista difensivo di un terreno più elevato (ad esempio, Missionary Ridge, Chickamauga, Franklin, e Nashville). Su una scala inferiore, le stesse rocce costituiscono i karren, che formano una sorta di trincee naturali per le truppe che si difendono (ad esempio, “Slaughter Pen”, sempre a Stones River).
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Le "pietre solari" dei Vichinghi: verso una verifica della teoria
30 Gennaio 2016
I Vichinghi utilizzarono ‘pietre solari’ di cristallo per scoprire l'America?
Traduzione da The Conversation. Autore Stephen Harding, Professore di Biochimica applicata, Università di Nottingham
Antichi documenti ci raccontano di come gli intrepidi navigatori vichinghi (che scoprirono l'Islanda, la Groenlandia ed infine il Nord America) navigarono utilizzando punti di riferimento, uccelli e balene, e poco altro. Ci sono pochi dubbi sul fatto che i marinai vichinghi avrebbero utilizzato pure la posizione notturna delle stelle e quella del sole durante il giorno, e gli archeologi hanno scoperto quella che sembra essere una meridiana vichinga per la navigazione. Ma senza bussole magnetiche, come tutti gli antichi marinai avrebbero avuto difficoltà a ritrovare la strada al passaggio delle nubi.
Ad ogni modo, vi sono anche diversi resoconti nelle saghe nordiche e in altre fonti di una sólarsteinn, “pietra solare” (NdT: “sunstone” in Inglese). La letteratura non dice per che cosa fosse utilizzata, ma il tema ha scatenato decenni di ricerche che hanno indagato se non si trattasse di un riferimento a una forma affascinante di strumento per la navigazione.
L'idea è che i Vichinghi possano aver utilizzato l'interazione della luce solare con particolari tipologie di cristallo per creare un aiuto per la navigazione che possa aver funzionato persino in condizioni di cielo coperto. Questo avrebbe significato che i Vichinghi scoprirono i principi base della misura della luce polarizzata secoli prima che questa fosse spiegata scientificamente (e che sono oggi utilizzati per identificare e misurare diverse sostanze chimiche). Gli scienziati si stanno ora avvicinando a stabilire se questa forma di navigazione possa essere stata possibile, o se si tratta solo di una teoria fantasiosa.
Dispersione e polarizzazione
Per comprendere meglio come questo può aver funzionato, abbiamo bisogno di comprendere alcune cose sul modo con cui la luce, e in particolare la luce solare, può essere influenzata. La luce che viene dal sole è dispersa e polarizzata dall'atmosfera. Questo avviene quando la luce è assorbita ed emessa nuovamente con la stessa energia delle molecole nell'aria e per diversi valori, sulla base della lunghezza d'onda della luce. L'estremità blu dello spettro della luce è dispersa più del rosso, come si spiega nella teoria sviluppata dal fisico britannico Lord Rayleigh nel diciannovesimo secolo. La dispersione per particelle nell'atmosfera spiega perché il cielo appaia blu.
Più importante è che le onde di luce dispersa siano pure polarizzate fino a una certa estensione. Questo significa che vibrano in un piano piuttosto che in tutte le direzioni al contempo. Il valore della polarizzazione subito da un raggio di luce solare dipende dal suo angolo per l'osservatore e dal fatto che la luce sia stata ulteriormente dispersa da nuvole e altre particelle che causano depolarizzazione.
Lungo la linea costiera della Norvegia e dell'Islanda si trovano frammenti cristallini di carbonato di calcio noti come calcite o spath d'Islanda (NdT: silfurberg in Islandese, Iceland spar in Inglese). Quando la luce solare polarizzata entra in un cristallo di calcite, avviene qualcosa di molto interessante. La calcite è fortemente birifrangente, il che significa che divide la luce che la attraversa in diverse direzioni e con diverse intensità, anche se l'intensità totale sarà costante.
Questo significa che gli oggetti visti attraverso un cristallo di calcite appaiono come doppi. Ciò che più conta per i nostri scopi, la differenza tra le due onde luminose dipende da come la luce originale è polarizzata e dalla posizione e orientamento del cristallo rispetto alla fonte di luce.

La tormalina e la cordierite sono cristalli con proprietà simili, eccetto per il fatto che invece di dividere la luce come la calcite, sono fortemente dicroiche. Questo significa che assorbono una componente della polarizzazione più fortemente dell'altra. Ancora una volta, le proprietà dicroiche dipendono da come la luce originale è polarizzata e dalla polarizzazione e dall'orientamento del cristallo rispetto alla fonte di luce.
Così, e almeno in teoria, l'esame di come la luce solare passava attraverso uno di questi cristalli – e con appropriata calibratura – potrebbe essere utilizzato come guida per marinai al fine di stimare la posizione del sole. Questo potrebbe allora permettere loro di determinare la direzione del nord geografico – persino senza comprendere i principi scientifici dietro questi fenomeni.
Se avanzassimo l'enorme supposizione che i Vichinghi possedevano questi cristalli/pietre solari a bordo delle loro navi e, ciò che più conta, sapessero cosa farci, la domanda sarebbe: la differenza nella luce sarebbe stata percettibile ai loro occhi? E sarebbe stata percettibile con sufficiente accuratezza (dopo errori causati dalle imperfezioni nei cristalli e dalla depolarizzazione), da essere usata come aiuto per la navigazione persino in condizioni di cielo coperto?
Verifica della teoria
L'ultima in un impressionante elenco di pubblicazioni recentemente comparse sull'argomento su Royal Society Open Science ha cercato di rispondere esattamente a questa domanda. Gabor Horvath e i suoi colleghi hanno guardato alla possibilità che i segnali ottici da queste tre tipologie di cristallo fossero sufficientemente forti da essere percettibili e con sufficiente accuratezza da predire la posizione del sole sotto un cielo coperto.
Per fare questo, hanno simulato le condizioni, posizione del sole compresa, di un viaggio vichingo tra Norvegia, Groenlandia meridionale e Terranova. Hanno scoperto che con un cielo limpido, col quale il grado di polarizzazione è alto, tutti e tre i cristalli mostravano sufficiente segnale e buona accuratezza. In condizioni di leggera nuvolosità, con le quali il grado di polarizzazione era in qualche modo ridotto ma sempre relativamente alto, cordierite e tormalina funzionavano meglio della calcite.
Solo la calcite molto pura (con le impurità ottiche rimosse) aveva prestazioni a un livello simile a quello degli altri due cristalli. Se la polarizzazione della luce solare era molto bassa, la calcite sembrava dare i risultati migliori nel predire la posizione del sole attraverso le nuvole. E in condizioni di cieli molto nuvolosi o di nebbia, gli errori di misurazione diventavano troppo alti per tutti e tre i cristalli.
La squadra di Horvath sta ora guardando ad ulteriori errori nella predizione della posizione del nord geografico, utilizzando queste informazioni. Se il metodo non funzionerà in condizioni di cielo nuvoloso utilizzando la tipologia di cristalli imperfetti che i Vichinghi avranno probabilmente posseduto, l'intera teoria sarebbe probabilmente sbagliata. E nei giorni di cielo limpido, sarebbe stato più semplice utilizzare meridiane calibrate.
Ma se i ricercatori stabiliscono che le pietre solari possono essere state accuratamente utilizzate per determinare la direzione del nord geografico, allora l'idea sembrerà praticabile. Tutto quello che resterebbe quindi, per provare finalmente questa affascinante teoria, sarebbe di trovare una nave vichinga con una pietra solare calibrata al suo interno. Per quello, ad ogni modo, potrebbe volerci del tempo.
Traduzione da The Conversation. The Conversation non è responsabile dell’accuratezza della traduzione.
Leiv Eriksson oppdager Amerika ("Leif Erikson scopre l'America") di Christian Krogh (1893), Nasjonalgalleriet Oslo. Da Wikipedia, Pubblico Dominio.
L'Età della Plastica
27 Gennaio 2016
Un altro aspetto rilevante dell'Antropocene, secondo un nuovo studio, sarebbe determinato dalla plastica. Si prevede che per la metà del secolo, le terre e gli oceani saranno significativamente caratterizzati da strati di rifiuti plastici, ovviamente connessi alle attività umane.
La nuova ricerca enfatizzerebbe il fatto che le attività umane, per mezzo di materiali di lunga durata, stiano dominando la superficie del pianeta, dando vita a una vera e propria "Età della Plastica". Tra le caratteristiche della plastica, difatti, vi sono quelle dell'essere inerte e di non degradarsi. Conseguentemente, rifiuti plastici permangono nel terreno, mentre nei mari vengono consumati dagli organismi e uccidono plancton, pesci, uccelli marini.
Ma la plastica è pure materiale che rientra nel ciclo sedimentario, per cui c'è una buona possibilità che si fossilizzi, lasciando un segno anche per milioni di anni. La plastica, dunque, oltre ad essere un materiale tipico della vita moderna, e un inquinante, diviene pure un indicatore geologico chiave.
Con Antropocene, secondo la definizione di Eugene F. Stoermer, si indica l’era geologica segnata dalle attività umane, il cui impatto sugli ecosistemi del pianeta è rilevante.
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Antropocene: prove forti di una Terra segnata dall'uomo
7 Gennaio 2016
Antropocene: prove forti di una Terra guidata dall'uomo
Le testimonianze di una nuova epoca geologica che segna l'impatto dell'attività umana sul pianeta sono ora schiaccianti, secondo un recente studio, opera di un gruppo internazionale di scienziati della Terra. L'Antropocene, che si sostiene sia cominciato alla metà del ventesimo secolo, è segnato dalla diffusione di materiali come l'alluminio, il cemento, la plastica, ceneri volanti e fallout da test nucleari per tutto il pianeta, in coincidenza con emissioni elevate di gas serra e invasioni di specie a livello trans-globale senza precedenti.
Un gruppo internazionale di scienziati sta studiando la possibilità che l'attività umana abbia guidato la Terra in una nuova epoca geologica – l'Antropocene. Chiedono: fino a che punto le azioni umane sono registrate come segnali misurabili negli strati geologici, ed è l'Antropocene sensibilmente differente dall'Olocene, la stabile epoca degli ultimi 11.700 anni che ha permesso lo sviluppo della civiltà umana?
L'Epoca nota come Olocene è stata un tempo durante il quale le società umana sono avanzate addomesticando gradualmente la terra, per incrementare la produzione di cibo, costruire insediamenti urbani e diventare padroni nello sviluppo delle risorse idriche, minerali ed energetiche del pianeta. L'epoca dell'Antropocene, come da proposta, è ad ogni modo segnata da un tempo di rapidi cambiamenti ambientali portati avanti dall'impatto di un'impennata della popolazione umana e degli incrementati consumi durante la ‘Grande Accelerazione’ della metà del ventesimo secolo.
Il dott. Colin Waters del British Geological Survey afferma: “Gli umani hanno da tempo prodotto ripercussioni sull'ambiente, ma recentemente c'è stata una diffusione rapida globale di nuovi materiali, inclusi alluminio, cemento e plastica, che stanno lasciando il loro segno nei sedimenti. L'utilizzo di combustibili fossili ha disperso particelle di ceneri volanti ovunque nel mondo, coincidendo abbastanza bene col picco di distribuzione del ‘picco da bomba’ dei radionuclidi generati dai test delle armi nucleari.” “Tutto questo dimostra che c'è una realtà sottostante il concetto di Antropocene”, ha commentato Jan Zalasiewicz dell'Università di Leicester, co-autore e presidente del gruppo di lavoro.
Lo studio, che presenta la firma di 24 membri del gruppo di lavoro sull'Antropocene, dimostra che gli umani hanno modificato sufficientemente il sistema Terra, al punto da produrre una gamma di segnali nei sedimenti e nel ghiaccio, e che questi sono sufficientemente distintivi da giustificare il riconoscimento dell'Epoca dell'Antropocene nella scala temporale geologica. Nel 2016 il gruppo di lavoro sull'Antropocene raccoglierà ulteriori prove sull'Antropocene, che contribuiranno a formulare raccomandazioni sulla possibilità che questa nuova unità temporale debba essere formalizzata e, in tal caso, come la si debba definire e caratterizzare.
Le rocce vulcaniche dei Campi Flegrei, ispirazione del cemento dei Romani?
9 Luglio 2015
I Romani si sono forse ispirati alle rocce vulcaniche dei Campi Flegrei, per la creazione del loro celebre cemento, visibile nel Pantheon e nel Colosseo, oltre che in diversi porti nel Mediterraneo (Alessandria, Cesarea, e a Cipro).
Già con Seneca (e con Vitruvio prima di lui) si notava che la cenere a Puteoli diventava pietra, a contatto con l'acqua. I Romani erano degli attenti osservatori della natura: utilizzarono la pozzolana per il loro cemento, e tuttavia una fonte diversa per la calce. E queste considerazioni potrebbero pure permettere oggi lo sviluppo di nuove tipologie di cemento, a partire da elementi simili.
Queste sono alcuni dei risultati di un nuovo studio pubblicato su Science da Tiziana Vanorio e Waruntorn Kanitpanyacharoen. Gli studiosi sono partiti dall'analisi delle rocce fibrose, simili al cemento, che si trovano nella caldera del supervulcano dei Campi Flegrei. Tiziana Vanorio era una delle 40 mila persone residenti a Pozzuoli, che furono evacuate nel 1982, in seguito all'innalzamento del terreno e a piccoli terremoti che seguirono. L'esperienza lasciò un segno vivido che l'ha spinta poi ad esaminare questa sorta di coperchio roccioso che sigilla la caldera.
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“Fiamme eterne” di tempi antichi potrebbero essere scintilla dell'interesse dei moderni geologi
“Fiamme eterne” di tempi antichi potrebbero essere la scintilla dell'interesse dei moderni geologi
Fuoriuscite superficiali di Gas e petrolio son state parte delle pratiche religiose e culturali per migliaia di anni
New York| Heidelberg, 18 Maggio 2015 (testo Inglese cortesemente fornito da Springer, e qui tradotto)
Le fuoriuscite superficiali di gas e petrolio hanno avuto un ruolo formativo in molte antiche culture e società. Hanno fatto sorgere leggende riguardanti l'Oracolo di Delfi, i fuochi della Chimera e le “fiamme eterne” che furono centrali in molte pratiche religiose - dall'Indonesia e dall'Iran all'Italia e all'Azerbaijan. I moderni geologi e coloro che si occupano di prospezione per la ricerca di petrolio e gas possono imparare molto approfondendo le storie geologiche e mitologiche sulle pratiche religiose e sociali del Mondo Antico, scrive Giuseppe Etiope dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia Italiano. La sua ricerca è ora pubblicata in un nuovo libro di Springer: Natural Gas Seepage.
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