DANTE E LA QUESTIONE DELLA LINGUA – LEZIONE DEL PROFESSOR FRANCESCO SABATINI PER L’AICC DI BARI

Scrivere di Dante non è impresa facile. Parlare del Sommo Poeta e della sua Opera immortale richiede uno sforzo non indifferente. Affrontare la Divina Commedia o qualsiasi altro capolavoro del nostro Dante implica l’approfondimento della conoscenza di noi stessi e della nostra storia. Scoprire Dante e seguire la fonte inesauribile del suo intelletto ci porta a disvelare la dimensione più autentica dell’umano sentire.

Già dal primo ed emblematico verso dell’Inferno, siamo calati nel cuore della cultura europea, tra l’evo antico e l’evo moderno, indotti ad assaporare, lemma dopo lemma, il progetto più ambizioso e vasto della letteratura di ogni tempo, volto a stringere l’intero scibile in un abbraccio ecumenico ed atemporale, a discriver fondo a tutto l’universo. Il poema è ormai eterno, avvolto in un’aurea sacrale e misteriosa.

Dettaglio dal monumento equestre a Niccolò da Tolentino: Domenico di Michelino, Dante ed i tre regni, 1465, Firenze, Santa Maria del Fiore. Foto © Marie-Lan Nguyen / Wikimedia Commons, pubblico dominio

Sì, perché le terzine dantesche portano in sé un segreto, l’intima forza caratterizzante di una lingua incredibilmente innovativa e fresca. Dante descrive, nella sua totalità, il mondo che vede e vive in lui. Un mondo con una precisa connotazione storica, ma comprensibile ai nostri occhi per ciò che rappresenta. La Divina Commedia si fa portatrice della visione cristiana della storia, mutandone gli aspetti e i contenuti, ma con lineamenti razionali tipici del pensiero greco e latino, fino a quel momento utilizzati per interpretare la realtà del mondo.

Dante non è il teologo, il moralista che una critica poco attenta descrive. Dante è, prima di ogni altra cosa, un ricercatore appassionato, che si propone di conseguire la piena realizzazione della felicità dell’intero genere umano. L’alto disio dantesco, che è immerso nel suo tempo e del suo tempo raccoglie i dolori, le sofferenze, la miseria e la grandezza, guarda con suprema pietà alla colpa e alla depravazione dell’uomo, attraverso un’immedesimazione unica e commossa. Ogni gesto umano appartiene a Dante, viene da lui interpretato e rivelato, facendo affiorare quell’universalità che fa dell’opera il libro di tutti.

Dante, affresco (1499-1502) ad opera di Luca Signorelli, particolare tratto dalle Storie degli ultimi giorni, cappella di San Brizio, Duomo di Orvieto. Foto di Georges Jansoone (JoJan), CC BY-SA 3.0

Il 17 gennaio 2020 è stata istituita un’intera giornata dedicata al Sommo Poeta, il Dantedì, da celebrarsi il 25 marzo di ogni anno. La data corrisponde allo stesso giorno del 1300, in cui, secondo la tradizione, Dante si perse nella selva oscura, dando così inizio al suo viaggio. Quest’anno, peraltro, ricorre il settecentesimo anniversario della morte del poeta, avvenuta il 14 settembre del 1321. L’idea del Dantedì, proposta a più riprese dal giornalista e scrittore Paolo Di Stefano, è stata divulgata attraverso un’intensa campagna di promozione, supportata anche dal ministro Dario Franceschini. Il Dantedì è divenuto ormai una ricorrenza a cui non è possibile rinunciare, visto anche il patrocinio di prestigiose istituzioni culturali, quali l’Accademia della Crusca, la Società Dantesca Italiana, la Società Dante Alighieri e l’Associazione degli Italianisti nella Società Italiana per lo studio del pensiero medievale.

Per celebrare la ricorrenza, l’Associazione Italiana di Cultura Classica di Bari, presieduta dalla Professoressa Pasqualina Vozza, ha organizzato, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Bari, un incontro con il Professore Francesco Sabatini, celebre linguista, filologo e lessicografo, Emerito dell’Università degli Studi Roma Tre, nonché presidente onorario dell’Accademia della Crusca. Il Professor Sabatini già nel 2019 aveva tenuto per l’AICC di Bari due seminari sul tema Il Latino nella società contemporanea.

Francesco Sabatini Dante Alighieri
Francesco Sabatini (Avezzano, 2017). Foto di Marica Massaro, CC BY-SA 4.0

In questa occasione, invece, il professore si è occupato della questione riguardante la formazione della lingua italiana, la cui problematica è trattata ampiamente nel De vulgari eloquentia. L’opera affronta, come si può facilmente immaginare dal titolo, il tema dello sviluppo della lingua volgare dal latino e fu realizzata tra il 1303 e il 1305. Si tratta di un trattato in latino, rivolto ai dotti, che Dante voleva persuadere della bellezza della lingua del bel paese là dove ‘l sì sona. Non ci si sofferma mai abbastanza sulla portata dell’opera e sulla sua incisività.

Dante, prima ancora di occuparsi nello specifico della lingua italiana, tratta a fondo il tema dell’origine del linguaggio verbale umano, gettando le basi per le conclusioni a cui approdò, secoli dopo, Linneo. Leggendo Tommaso d’Aquino e Isidoro di Siviglia, arriva a tracciare una linea di estrema modernità, che vede nel linguaggio la marca distintiva ed esclusiva della specie umana. L’opera, quindi, si sviluppa da un autentico interesse antropologico e filosofico per il fenomeno, che il poeta affronta con lucidità e fermezza e che sarà alla base del suo più noto capolavoro, scritto in volgare proprio per coinvolgere il grande pubblico e dimostrare l’aderenza della lingua stessa a temi di alto valore speculativo.

Attraverso il suo “ingegno e gli scritti e la cultura di altri”, il poeta dà inizio ad un’indagine che lo porta a ricercare il volgare illustre, ovvero la lingua che possa distinguersi per eleganza e prestigio tra i vari volgari italiani. Passa in rassegna le condizioni linguistiche europee, dividendole in tipologie storico-geografiche, affrontando il problema della lingua letteraria unitaria e aprendo la questione della lingua, destinata a rimanere irrisolta per secoli.

I paragrafi iniziali forniscono importanti informazioni sui volgari diffusi in Italia, identificati e suddivisi in una quindicina di tipologie dallo stesso poeta. Nessuno dei volgari municipali, però, dimostra di possedere le caratteristiche adeguate ad una lingua letteraria che sia comune all’intera Penisola, una koinè che dia forma alle alte tematiche trasmesse in prosa e in versi. La lingua volgare, spontanea e naturale, deve scostarsi dall’artificiosità del latino, occuparsi di qualsiasi argomento, ma rispondere a quattro importanti requisiti. Il volgare letterario deve infatti essere illustre, cardinale, aulico e curiale. Doveva dar lustro a chi lo parlava, essere il cardine attorno al quale tutti gli altri dialetti ruotavano, essere aulico e curiale, poiché avrebbe dovuto essere degno delle corti e dei tribunali. Nessuno dei volgari che Dante aveva elencato  poteva, a suo giudizio, prestarsi a tale scopo.

De vulgari eloquentia Dante Alighieri Francesco Sabatini
Un’edizione (1577) del De vulgari eloquentia di Dante Alighieri. Foto Disponibile nella biblioteca digitale BEIC e caricato in collaborazione con Fondazione BEIC, Pubblico dominio

Occorreva concepirlo come una creazione retorica che rispondesse alla lingua adoperata per iscritto dai principali scrittori del tempo, incluso lo stesso Poeta. Le brillanti idee dantesche racchiuse nel De vulgari eloquentia, base teorica ed ineludibile per comprendere la Commedia, non godettero di subitanea fama, a causa della scarsa circolazione dell’opera. È evidente, però, che la messa in pratica delle teorie linguistiche dantesche, ovvero la lingua adoperata per il sommo poema, godette di un successo senza precedenti, viste le numerose ed immediate attestazioni della lettura dell’opera in varie parti della Penisola. La Commedia iniziò presto ad essere recitata e commentata, venne fatta circolare attraverso copie e se ne trova traccia nei documenti notarili del tempo.

Il Poeta riuscì ad unire una terra atavicamente divisa sotto la sua egida, che divenne indiscussa. La sua grandezza risiedette proprio nel dar voce al bisogno di una lingua comune, che unisse le varie realtà politiche italiane sotto un unico vessillo. Dante voleva dar vita a quel progetto di unione culturale, che inevitabilmente avrebbe portato ad un’unificazione politica. La lingua doveva farsi veicolo di pensiero, saldare i legami e permettere la creazione di una società nazionale compatta. Ecco che la Commedia, al di là delle tematiche politiche che animano le sue pagine, diviene un laboratorio necessario alla creazione della nostra identità.

Un continuo evolversi di sperimentalismi, un susseguirsi costante di invenzioni e raffinamenti. Dante dimostrò di aver assimilato il motto di Isidoro di Siviglia, che, nelle Etimologiae (IX I 11), scriveva “Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt”, sono le lingue che fanno i popoli, non i popoli che fanno le lingue. Il poeta si sobbarca il ponderoso incarico di creare una lingua per dare voce ad un popolo. Nell’ultimo canto del Paradiso, culmine dell’esperienza trascendente, Dante prova a spiegare ai lettori la visione finale, la folgorazione al cospetto della luce divina. Nel tentare di rendere a parole l’esperienza di cui è stato testimone, scrive:

O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,

e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;

(Paradiso, Canto XXXIII 67-72)

 

Chi è la futura gente a cui il poeta fa riferimento? Dante parla a chiunque sia ancora in grado di comprenderlo. Parla a noi posteri, figli della sua loquela. A distanza di settecento anni, siamo ancora cullati dai versi di tutta la sua produzione, che continua a rischiarare il cammino della nostra esistenza, oggi più che mai bisognosa de lo dolce lume del suo genio.

1 Comment

  1. Splendido”servizio “ su Dante e sulla lingua che ci accomuna ,nonostante , i tentativi di “demolizione “ attivati dai sostenitori anglofoni .

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