La coppa del morto. Storia di un Mondiale che non dovrebbe esistere di Valerio Moggia – recensione

C’è un lato oscuro che attraversa i Campionati del mondo di calcio al via tra poche settimane in Qatar. Lo svelerebbero reportage giornalistici sempre più accurati e dossier di Ong come Amnesty International, il cui segretario generale ha dichiarato:
«È semplicemente imperdonabile che, in uno dei Paesi più ricchi al mondo, così tanti lavoratori migranti siano spietatamente sfruttati, privati delle loro paghe e lasciati a lottare per sopravvivere» (p. 53).
In vari paesi occidentali si è iniziato a parlare di boicottaggio del Mondiale. Uno storico marchio associato al mondo del calcio ha preso posizione con una decisione simbolica. E in alcune città, come Marsiglia, non verranno installati maxischermi per seguire le partite: il sindaco, infatti, non intende dare visibilità a una
«competizione si è gradualmente trasformata in un disastro umanitario e ambientale, incompatibile con i valori che vogliamo siano veicolati attraverso lo sport e il calcio in particolare».
la coppa del morto Valerio Moggia
La copertina del saggio La coppa del morto. Storia di un mondiale che non dovrebbe esistere di Valerio Moggia, pubblicato da Ultra Edizioni (2022) nella collana Sport

A ripercorrere tutte le tappe di questa vicenda ci ha pensato Valerio Moggia, blogger e podcaster da tempo impegnato nel raccontare e studiare questioni di rilevanza sociale riguardanti il mondo del calcio.

Il suo ultimo libro, La coppa del morto. Storia di un Mondiale che non dovrebbe esistere (Ultra Edizioni, 2022, pp. 112, euro 13), affronta fin dal titolo la pietra dello scandalo: lo sfruttamento e la scomparsa di migliaia di lavoratori impiegati nella costruzione degli impianti sportivi e di accoglienza delle nazionali partecipanti al Mondiale. Nonostante le inchieste del Guardian e di altri giornali internazionali, e l’attenzione rivolta a questa vicenda dalle più importanti organizzazioni per i diritti sociali e civili come Amnesty International e Human Rights Watch, è però ancora impossibile risalire al reale numero di vittime. Si possono, allora, ipotizzare soltanto alcune stime. E stando a un rapporto di Amnesty del 2021 i morti

«sarebbero oltre 15.000, per lo più dovuti a non meglio precisate “malattie cardiovascolari”, secondo i dati ufficiali di Doha» (p. 71).

Dopo quello che è apparso come un lungo silenzio del governo qatariota sulla questione, l’emiro del Qatar ha dichiarato che considera il proprio paese “diffamato” da queste accuse. Eppure anche chi non ha perso la vita ha dovuto comunque lavorare per «giorni esposto per diverse ore al sole, in un periodo dell’anno in cui le temperature stazionano sempre tra i 30 e i 40 gradi e l’umidità è all’88%» (p. 66).

Il Ras Abu Aboud Stadium in Qatar. Immagine AB Studio 3D (crop by Elspamo4), CC BY-SA 4.0

Lo sfruttamento della manodopera non riguarderebbe peraltro solo le condizioni di lavoro. Come scrive Moggia, di fronte a un salario di 1.000 riyals (ma era appena di 750 prima delle proteste internazionali),

«L’affitto medio di un appartamento in periferia [a Doha, la capitale del paese] è circa di 3.700 riyals, il costo mensile delle bollette è di 380 riyals […]. Semplicemente, con uno stipendio simile una persona è di fatto esclusa dalla vita sociale di un Paese» (p. 60).

Eppure parliamo di uno dei paesi con il Pil pro capite più alto al mondo: il salario medio, in Qatar, è infatti di 11.000 riyals.

Vignetta sullo sfruttamento del lavoro per la costruzione degli stadi in Qatar prima dei Mondiali del 2022. Immagine di Pascal Kirchmair, CC BY-SA 4.0

Aver affidato l’organizzazione del Campionato del mondo al Qatar non è stato un “colpo di testa”. Da molti anni il paese investe nel calcio in Europa, potendo contare su una potenza finanziaria che pochi altri sponsor possono contrastare. Ne sanno qualcosa i tifosi del Barcellona: la squadra blaugrana, dopo aver resistito per anni alle lusinghe dei privati vestendo una maglia senza sponsor, e dopo aver accettato di dare visibilità solo a organizzazioni benefiche come l’Unicef, ha poi per anni sfoggiato il logo della Qatar Foundation e della Qatar Airways. Come scrive Moggia,

«Il Qatar ha esteso i suoi tentacoli sul mondo del calcio europeo con una rapidità e un’efficacia inquietanti, e la faccenda relativa alle spese spropositate del Paris Saint-Germain ne è un perfetto esempio» (p. 48).

La coppa del morto esamina peraltro anche le origini dell’interesse del paese arabo verso il mondo del calcio internazionale, ben prima degli investimenti in Europa e dell’assegnazione del Mondiale 2022.

I capitoli conclusivi del libro di Moggia guardano però al di là del lato oscuro di questi Mondiali. E cioè a chi, in questi anni, non è rimasto a guardare. A partire dal mondo del calcio norvegese, unito (a partire dalla propria federazione nazionale) nello schierarsi per il boicottaggio della manifestazione. Altri calciatori delle nazionali di Germania, Paesi Bassi e Inghilterra hanno preso posizione. E pochi giorni fa sugli spalti dello stadio del Borussia Dortmund è stato mostrato uno striscione che invitava tutti i tifosi a boicottare le partite dei Mondiali. Si tratta di un punto decisivo in questa vicenda, e lo sottolinea bene Moggia:

«Il governo del calcio, a ogni livello [ha] scelto di fare finta di niente, scaricando così ogni responsabilità di coscienza civile sui giocatori e sui tifosi, costretti a dover fare la propria parte in un circo il cui tendone è imbrattato di sangue» (p. 76).

Non è del resto la prima volta, nella storia, che un Mondiale si gioca in paesi in cui la popolazione locale è esclusa dai diritti civili di base. Senza tornare indietro all’Italia del 1934, Moggia rievoca il dibattito avvenuto a ridosso della Coppa del mondo del 1978 in Argentina. Poco dopo aver ottenuto l’organizzazione della manifestazione, il paese sudamericano era infatti caduto in una delle più buie dittature del Novecento. Anche allora fu l’Europa a mobilitarsi: il quotidiano francese «Le Monde» invitò direttamente al boicottaggio, seguito da altri giornali, da intellettuali e gruppi di attivisti in Olanda, Germania Ovest e Svezia. Eppure,

«nonostante la vasta campagna di boicottaggio, nonostante fossimo nel periodo di maggiore politicizzazione delle masse in Occidente, il mondo del calcio si lasciò scivolare addosso il Mondiale dei desaparecidos come se nulla fosse» (p. 100).

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