Basta con Verga a scuola!” Una considerazione di questi giorni1 che pesa come un macigno e alla quale si può rispondere in svariati modi.

Non si può parlare di letteratura e non citare Giovanni Verga. È come parlare di mare senza considerare le onde fascinose e tremende che lo animano da dentro, è come parlare del cielo e non parlare della sua pioggia salvifica, a volte rovinosa, è come parlare di terra senza parlare di radici rampanti. Ebbene sì, questo è Verga: onde, pioggia, radici. È tutto quello che può essere trascurato ma, evitato il quale, non si può dire di aver vissuto appieno o di aver compreso davvero il vivere.

A lungo una voce solitaria, destinata poi a una lezione condivisa. Un modo di sentire le cose così vero e carnalmente sofferto da venir spesso confuso per sconfitta. Un canto di ingiustizia così stagnante da essere fraintesa con passività e stallo. Un ritratto così infelice del mondo da essere confuso per pessimismo. Un’espressione così amara di vita da risultare noiosa o usuale.

Giovanni Verga letteratura italiana
Verga è letteratura! In foto, Giovanni Verga, dal libro Giovanni Verga di Luigi Russo, Riccardo Ricciardi Editore, Napoli (1920). Foto di ignoto, in pubblico dominio

Tutto questo è Verga e tanto altro: una prosa così gestuale da fare uscire i personaggi dalle righe e vederli agire nella vita umana; un amore così grande per la Sicilia da lasciarla per vent’anni. La ricerca della sostanza contro il gusto della vacua forma.

Religione o trappola. L’ideale della famiglia nel pensiero di Verga e Pirandello

La ruralità incolta e l’urbano orrore, uno, due, tre narratori. La famiglia e la sua essenza e la bestialità dell’innocenza. Verga è Verga e non si può annullarlo. Non si può privare gli interlocutori del piacere della sua natura solo per la fatica della lettura! Semmai aiutarli a capirla, a sentirla a interpretarla, a viverla.

Come si può pensare di non leggere per sé o per un pubblico di spettatori Verga e le sue opere? Come si può fare a meno di ricordare la violenta teatralità della novella La lupa con cui lo scrittore trasforma il suo interlocutore in uno spettatore:

Svegliati!” disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. “Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola.” Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani. “No! non ne va in volta femmina buona nell’ora fra vespero e nona!” singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l’erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. “Andatevene! andatevene! non ci venite più nell’aia!”Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone.
Ma nell’aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla. Quando tardava a venire anzi, nell’ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte –e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: “Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell’aia!” 2

La Lupa: una favola familiare

Come si può pensare di non leggere Storia di una capinera e la struggente pena d’amore di Maria che tiene inchiodati tutti fino all’ultimo rigo finale?

[…] la storia di un’infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e l’amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava tristamente il suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l’ala ed era morta. Ecco perché l’ho intitolata: Storia di una capinera”

Come non commuoversi alla lettura delle sue parole?

[…] Nino! Nino! ov’è Nino?… voglio vederlo!… perché non me lo fanno vedere?… voglio veder lui solo! non vedrò mio padre, non vedrò mio fratello… non vedrò mia sorella… Mia sorella!… lei!… che me l’ha rubato!… perché me l’ha rubato?… non sapeva ch’egli era mio?… perché non posso vederlo?… digli che venga… digli che venga a liberarmi!… andremo assieme a Monte Ilice… andremo a nasconderci nel castagneto… soli… come le belve… digli che venga! che venga armato del suo fucile… così farà paura alle mie carceriere… son donne… si lasceranno intimorire… egli le ucciderà se occorre… mi salverà… mi troverà qui, nella mia cella… io gli salterò al collo… Ah! ah!… la monaca!..” 3

Come si può pensare di fare a meno di Rosso Malpelo e della sua eredità anaffettiva?

Malpelo si chiamava così perchè aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perchè era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicchè tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.”4

Come si può pensare di non leggere il dialogo commovente tra Isabella e il padre Gesualdo in punto di morte?

[…] — Senti… Ho da parlarti… intanto che siamo soli…

Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani erranti che l’accarezzavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente, senza dire una parola. Di lì a un po’ riprese:

Ti dico di sì. Non sono un ragazzo… Non perdiamo tempo inutilmente. — Poi gli venne una tenerezza. — Ti dispiace, eh?… ti dispiace a te pure?…

La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti più dolci, e qualcosa gli tremava sulle labbra. — Ti ho voluto bene… anch’io… quanto ho potuto… come ho potuto… Quando uno fa quello che può…”5

Come si può fare a meno di leggere di Mazzarò e il suo affannoso attaccamento alla roba?

[…] Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me!”6

Come si può pensare di fare a meno dei Malavoglia e del suo ideale di famiglia? Della saggezza dei proverbi di Padron ‘Ntoni?

[…] Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro.

Diceva pure: – Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo.”7

Potrei continuare all’infinito nella rassegna delle innumerevoli letture verghiane, ma voglio concludere citando le parole di Luigi Pirandello nel suo discorso in onore dell’amico del tre dicembre 1931 alla Reale Accademia d’Italia.

[…] È bene, è giusto, per il senso e il valore che io annetto alla cosa, che il nuovo Governo d’Italia riconosca la gloria e onori la virtù nuda e forte dell’arte di uno scrittore come Giovanni Verga.

Due tipi umani, che forse ogni popolo esprime dal suo ceppo: i costruttori e i riadattatori, gli spiriti necessarii e gli esseri di lusso, gli uni dotati d’uno «stile di cose», gli altri d’uno «stile di parole»; due grandi famiglie o categorie di uomini che vivono contemporanei in seno a ogni nazione, sono in Italia, forse più che altrove, ben distinte e facilmente individuabili. Ma solo per uno che conosca bene le cose nostre e sappia vederci addentro. Perché invece gli osservatori disattenti, italiani o stranieri che siano, restano facilmente ingannati dal rumore, dalla pompa, dalla ricchezza delle manifestazioni di quelli che ho chiamati «dallo stile di parole», e credono che in Italia esistano soltanto questi.

[…] Se pensiamo che Dante muore in esilio e il Petrarca è incoronato in Campidoglio, che Machiavelli finisce com’egli stesso si descrive in una lettera famosa; che l’Ariosto è fatto di poeta «cavallaro», mentre solo la follia toglie i beneficii della fortuna al Tasso, che tuttavia alla fine è proposto anche lui al sommo onore dell’incoronazione in Campidoglio; se pensiamo che da una delusione è accolto il primo apparire dei Promessi Sposi e che il Leopardi passa di vita quasi ignorato, quando si sa a quali venturosi onori pervenne il Monti, dobbiamo convenire che in questa nostra Italia..ha più diritto di cittadinanza chi sa dire piú parole che cose; dobbiamo convenire che può riuscire perfino crudele, troppo difficile, insopportabile, lo sforzo lucido che deve durare chi voglia esprimere nudamente delineando le dure sagome delle cose da dire: cose e non parole, cose prepotenti che esigano da noi un assoluto rispetto per la loro nuda verginità. Ma a chi sa durar questo sforzo – passano gli anni, passano anche i secoli – si ritorna. A Dante, sempre, si ritorna. Si ritorna a Machiavelli. Si ritorna all’Ariosto. Si ritorna al Leopardi e al Manzoni. E si ritorna a Giovanni Verga,a cui i giovani (ed era inevitabile) ritornano, sazii e stanchi di quella troppa letteratura che era tornata a dilagare in Italia per colpa di chi non aveva saputo vedere nel Leopardi e nel Manzoni i due grandi filtri che avevano purgato la poesia e la prosa italiane dalla secolare retorica. quando il Verga finì di vivere la sua avventura e cominciò il suo vero travaglio creativo, l’opera che ne nacque cessò d’avere ogni risonanza e rimase come sorda.[…]”

[…] Giovanni Verga è il più «antiletterario» degli scrittori. Non era possibile che in un tempo tutto echeggiante di quella nuova e grande avventura letteraria avesse se non una mediocre risonanza l’opera e l’arte di Giovanni Verga, che è la più antitetica che si possa immaginare.”

Purtroppo oggi la storia si ripete e si commette l’errore di prestare attenzione solo a scrittori di parole e non considerare invece SCRITTORI DI COSE come GIOVANNI VERGA.

Giovanni Verga
Giovanni Verga, foto dal libro The house by the medlar-tree (I Malavoglia), nell’edizione di Harper & Brothers Publishers, New York e Londra, 1890, tradotta da Mary A. Craig e con introduzione di W. D. Howells

Note:

1 Susanna Tamaro, in occasione del Salone del libro di Torino 2023.

2G.Verga La lupa in Vita dei campi, Mondadori Education, 1987

3G.Verga, Storia di una capinera, Milano Fratelli Treves. 1912

4G. Verga, Rosso Malpelo in Vita dei campi, Mondadori Education, 1987

5G.Verga, Mastro don Gesualdo, Mondadori, Milano 1973.

6 G.Verga, La roba in Novelle rusticane, Interlinea Ed. nazionale delle opere di G. Verga, 2016.

7G. Verga, I Malavoglia, Milano Fratelli Treves, Editori 1907.

Verga è letteratura! Si veda l’immagine precedente per i crediti della foto di Giovanni Verga, per l’immagine di sfondo e la composizione da Canva, licenza d’uso

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