ANTIGONE, CERIMONIA CON CANZONI, IL NUOVO MITO DEL TEATRO DEI BORGIA

Il Teatro Curci di Barletta ha ospitato nelle serate dell’1, 2 e 3 dicembre lo spettacolo realizzato dalla compagnia Teatro dei Borgia, Antigone, Cerimonia con Canzoni, drammaturgia contemporanea per la regia di Giampiero Borgia, che si inserisce come la quarta parte del progetto “la città dei miti”, i cui precedenti spettacoli sono Medea per stradaEracle l’invisibile, Filottete dimenticato.

Antigone, Cerimonia con Canzoni
Foto di Rosa Gadaleta

Da sfondo a questa nuova tragedia vi è la pandemia da COVID-19, una novità di ambientazione che si arricchisce di ricordi, le bugie e il racconto nudo, crudo e disvelato dei morti, anzi dei “cari” morti come ribatte Lulù (ergo Ismene) al bello zio Creonte. Un’ambientazione che non perde il contraltare della realtà, ma lo respira ad ampie braccia nei luoghi in cui il culto funebre si allinea ad una danza catastrofica nella città di Bergamo, più precisamente nel suo Cimitero Monumentale. Il peso scenico non è soltanto quello politico del mostrare il rapportarsi della società italiana rispetto alle imposizioni governative di confinamento, stabilite dallo Stato per tutelare la salute pubblica, non solo date dall’impossibilità di uscire dai propri luoghi domestici, ma anche dal divieto di dare personalmente sepoltura ai propri defunti, quanto una strategica mossa teatrale che vede al centro un simbolico recupero di un mito che si fonde con il recupero di morti che in realtà non si recupereranno mai.

Al centro della rappresentazione si trovano le vicende di una famiglia colpita da una catena di lutti, in particolare dalla morte di due fratelli, uno detto “l’Angelo” e uno detto “lo Stronzo”, schiantatisi in macchina contro il muro di un McDonald’s. Per il primo fratello, morto sul colpo, si sono subito celebrati i riti funebri, mentre il secondo, deceduto dopo un prolungato ricovero in clinica, le esequie non hanno avuto luogo causa lo scoppio della pandemia che ha congelato ogni attività “normale”, decretato dal divieto. Soltanto qualche anno dopo i parenti, in una realtà ricostituita, si raccolgono per ricordare quei giorni. “Ninì la pazza” e “lo Stronzo” sono i protagonisti silenti-assenti della riattualizzazione in chiave contemporanea dell’Antigone di Sofocle: figure accolte a metà su un palcoscenico cerimoniale dedicato a loro e a quegli altri che non ci sono più.

Antigone, Cerimonia con Canzoni
Foto di Rosa Gadaleta

Lo spettacolo si apre con un televisore, posizionato al centro di un palcoscenico semi-oscuro, su cui compare l’assessore bergamasco che descrive l’immonda attività burocratica in cui si è ritrovata la città, Bergamo (alias Tebe), nel momento più sconvolgente dell’Italia (importante riportare alla memoria che tra il 2020 e il 2021 Brescia e Bergamo sono state il teatro più bersagliato dalla pandemia, ed era quantomai necessario e solenne che il progetto “la città dei miti” partisse proprio da queste ceneri per mettere in scena la tragedia greca per eccellenza che parla di morte e di sepoltura negata).

I momenti di dialogo e confronto sul rimembrare dolcissimo, si alternano alle odi di un coro fatto di pubblico, quello vero, a cui viene chiesto di partecipare ed essere personaggi-testimoni in prima linea all’inizio della drammaturgia. Non manca la musica, il ritmo, il tempo, che ne fa da padrone nel corso di tutta l’opera: Buonanotte Fiorellino di Francesco De Gregori (eseguita da Luna D’Intino e Sabino Rociola) è il manifesto programmatico con cui si apre e si chiude lo scorrere delle litanie sospirate, davanti un albero in legno a cui si chiede il perdono e la rassegnazione al lutto incessante. Nel primo corteo funebre che apre le scene, condotto dall’officiante Creonte (Christian Di Domenico), si cerca di esorcizzare il dolore con motivetti leggeri, alternati a barzellette sulla morte dal sapore decisamente macabro. Quel macabro che si è invece infiltrato nella vita ordinaria, non certo nei suoi aspetti conturbanti e brutali, ma sotto una forma sublimata, forse difficile da individuare: l’attenzione è tutta prestata alla bellezza fisica dei morti, perché i morti sono diventati belli nella vulgata sociale solo e soltanto quando hanno cominciato a mettere paura, una paura così profonda che non si esprime se non attraverso interdetti, cioè silenzi. Ma non è più tempo di fare silenzio, ormai il COVID-19 è debellato, è invece il tempo delle canzoni, poiché non vi saranno più rappresentazioni della morte. Così le immagini della morte traducono gli atteggiamenti degli uomini davanti alla morte in un linguaggio né semplice né diretto, ma pieno di sotterfugi e di raggiri. In passato la morte era una questione decisamente pubblica di quanto non sia oggi, almeno ritornata pienamente in auge con la pandemia, la frattura sociale con essa è avvenuta in primis in seguito all’intromissione del luogo medico che ha definito la mancata identificazione dei viventi con i morenti, in secundis, come evidenzia Manicardi [1], con la sua desimbolizzazione la morte è divenuta un’intrusa, oscena e assurda. Allo stesso tempo, però, sono il video, la televisione e i social che hanno registrato un nuovo tipo di legame che riproduce l’immagine della Morte, esorcizzata dal rifiuto sociale e ben accetta come rappresentazione ontologica poiché è nell’immagine che riproduce la morte volendo conservare la vita, si consuma un revival.

Lo scopo dei riproposti stasimi greci è porre una città qualsiasi come luogo di aggregazione, un luogo in cui sentirsi come in una grande famiglia, dove il più piccolo gesto diventa momento di raccoglimento proprio per la conservazione di vite spezzate improvvisamente: le pareti del teatro, le tegole e le luci possono racchiudere il suono riecheggiante di chi, emozionandosi, ripoggia nel silenzio del pubblico il dolce strazio di ricordi dolorosi. Lì si racchiude la fermezza del teatro: raccogliere, tutti insieme, per quanto nudi dinanzi alla platea, il saper vivere e cercare insieme di “stare bene” perché, come pronuncia la stessa Lulù-Ismene (Elena Cotugno) allo zio bello Creonte, “noi stiamo bene”, nascondendo dietro quel bene la condizione di un male di vivere distruttivo e irriconoscibile in noi, tanto che quest’Ismene si trasforma nella dolce Antigone che accompagna il vecchio Edipo nel suo esilio, fino alla morte, prendendosene cura.

Antigone, Cerimonia con Canzoni
Foto di Rosa Gadaleta

Nelle due controfigure di Lulù e di Creonte, Antigone e Polinice vengono demoliti nelle loro fattezze di personaggi senza scrupoli e morale, le pecore nere della famiglia la cui vita si conclude con l’oscurità dell’Ade che li “ingoia” in una potenza di morte che è la potenza delle tenebre e dell’orrore. Bergamo, come l’Italia intera, si trasforma in terra della morte in cui Ninì investe tutte le sue energie per curare una tomba “abbandonata”: un’azione esagerata e incomprensibile tanto più che il suo gesto potrebbe costarle non solo l’arresto, ma una macchia penalmente perseguibile, uno zombie che si ammala e fa ammalare la città, “solo” per inseguire l’insano istinto ribelle di deporre le cioccolate sulla finestra dell’ospedale dove si trova il corpo di un fratello, ormai divorato dal COVID-19. È l’ora di Antigone, ora tocca a lei squarciare il velo della legge e del terrore della malattia, superare l’imbelle silenzio di chi aspetta nelle case senza notizie, raccontare a quel coro/pubblico, presenza in preghiera nel dramma, notizie che lo Stato ha taciuto volontariamente su assassinii “nascosti” in tombe a cielo aperto.

Per la giovane Ninì tutti i cadaveri hanno lo stesso valore, tutti sono morti: così Eteocle-l’Angelo e Polinice-lo Stronzo sono la stessa carne in decomposizione, non si distinguono più. Al punto di vista femminile che ancora gioca con le cioccolate e le magliettine di un’adolescente scritte a mano, si oppone quello maschile del Bello che è impaziente di viversi quell’amore, pur disobbedendo alla figura paterna che ne preserva l’immagine del bravo ragazzo. Questo racconto non è tragico, ma, come direbbe Kierkegaard, è impregnato di quella «grazia tragica», in cui l’estetico e l’etico sono visti come preliminari essenziali al religioso. L’atto religioso della messa è l’unica occasione di incontro tra gli uomini (sebbene le chiese in tempo di Covid siano piene di bare chiuse ermeticamente).

I parenti stessi accusano Antigone-Ninì di pazzia, neanche la sorella se ne sottrae, ma probabilmente i veri pazzi sono proprio coloro che in vita non hanno agito politicamente a difesa del bene di un caro, hanno disprezzato la morte e ancor più la malattia, abbandonando i loro cari defunti per paura di vigili leggi governative, prostrandosi all’idea che uscire sarebbe stato pericoloso, subendo una sorte ancor peggiore della sorte, imprigionati sotto l’egida di leggi che sono così e basta: “non potevamo farci nulla”, confessa Lulù piena di quella tenue vergogna mascherata da mancato coraggio. Ismene parla di coscienza collettiva per bocca di un’Antigone, morta per l’ennesima volta, dopo secoli, per aver voluto dare sepoltura ad uno “Stronzo” chiuso in bare anonime insieme ad altri cadaveri, denunciando la dissimulazione operata dal potere politico (tutti approverebbero una giusta legge se non avessero timore di chi sta al comando). Prova di ciò è il personaggio del Coro, rappresentante della pubblica opinione, che, almeno formalmente, all’inizio favorisce Creonte o non interviene in un atto ribelle contro di lui.

Il testo è un referto chirurgico, un puzzle drammaturgico di emozioni ricostruite pezzo dopo pezzo in una sorta di amorosa arringa difensiva. Nessuno è in grado di affermare fermamente il proprio disprezzo per le nuove generazioni, men che meno il boomer Creonte che, in preda alle nostalgie di vecchi regimi patriottici, esalta l’amore per la nascita del figlio e allo stesso tempo ne impedisce la libertà, imponendo cosa e chi amare. Un patriarcato senza nome, senza identità che si isola nei corpi apparentemente vivi e saldi in una messa cerimoniale che si addobba solo esteriormente di luci, fiori, foto e cartoline dal passato. In realtà, quel passato è proprio l’ombra che non permette a questi personaggi di uscire dal loro vecchio rammarico, piegando spietatamente ogni loro gesto. A riprova di questa resistenza e del fallimentare tentativo di fuga da loro stessi, nella scena finale Creonte si spoglia del suo soprabito, quegli abiti pesanti tipici di un ruolo identitario che ormai ne soffoca le verità. Un padre, un marito, un fratello e, infine, uno zio che vive nella sua agonia una crisi devastante di realtà, proprio come si percepiva in quei momenti prostrati da un virus infernale invisibile. Questa proiezione di Creonte in suo figlio il Bello (alias Emone), e poi in Antigone la pazza, è dimostrato in alcuni punti della scena dove vi sono rimandi letterari espliciti al mito. Il boccione di plastica, portato da lui in grembo per tutto il corso dell’opera, è l’oggetto che più incuriosisce lo spettatore: goccia dopo goccia, le lacrime di Creonte pesano come fardelli, ma è anche simbolicamente l’urna delle ceneri dei morti, dei “cari” morti, verso i quali Creonte non ha avuto protezione e premura, piuttosto ha impugnato ferocemente la mano della legge, imponendola come se fosse sua.

Foto di Rosa Gadaleta

Note:

[1] Il testo citato di Luciano Manicardi è Memoria del limite. La condizione umana nella società postmortale, Milano 2011.

[2] I termini cioccolate e boomer, tipiche forme di un italiano popolare e contaminato anche da un lessico specificatamente giovanile, sono una invenzione drammaturgica inserita dal regista per contrapporre la lingua dell’istituzione con quella del candore, dell’ignoranza e della ribellione.

Foto di Rosa Gadaleta

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