Chiara Mercuri, “La nascita del femminismo medievale” | Maria di Francia ha le chiavi del Regno d’Amore
Nel suo fortunato trattato latino, Andrea Cappellano ipostatizza l’amore come un luogo da abitare: un palazzo dalle quattro porte coincidenti coi punti cardinali, le cui guardiane esemplificano a loro volta diversi modi di accogliere l’amore. Di André le Chapelain (1150-1220), cappellano di corte a cui il De Amore fu commissionato, è la metafora immaginifica del palazzo. Suo è il nome con cui l’opera fu tramandata. Ma le chiavi del Regno d’Amore sul cui territorio quel palazzo fu eretto – oltre che le più geniali intuizioni dell’ars amatoria medievale – furono di una donna: Maria di Francia, contessa di Champagne, la committente. Appartiene a lei, dice Chiara Mercuri in La nascita del femminismo medievale (Einaudi, 2024), il manifesto della rivolta dell’amor cortese – rivoluzione
“non raccontata nei manuali solo perché fallita”1.
Maria di Francia, sovrana di una nuova intellighènzia
Non c’è peggior condanna per un libro, esordisce Mercuri alle soglie della sua bella ricognizione storica, che
“finire nello scaffale sbagliato, soprattutto se lo scaffale in questione è di genere sentimentale”2.
È per questo che la produzione di Maria di Francia non è presa sul serio, la sua stessa identità è sfumata, e il suo nome nei libri di testo è all’ombra di quelli degli intellettuali che furono alle sue dipendenze, Andrea Cappellano e Chrétien de Troyes. Per questo – e anche perché, naturalmente, era una donna.
Contessa di Champagne, figlia di Eleonora d’Aquitania e del re di Francia, attiva anche presso la corte d’Inghilterra dopo le seconde nozze della madre, Maria di Francia è dotata dell’ardimento necessario ad immaginare un mondo nuovo e della solerzia per approntare le regole atte ad abitarlo. Regole che, in gran parte, sono mappe per uscire dalle strettoie di un vecchio mondo inospitale: quello del feudalesimo altomedievale.
Per Maria, domina della nuova intellighènzia bassomedievale, era tanto evidente l’affacciarsi di una nuova realtà sociale quanto impellente la necessità di rieducare i suoi membri a un dialogo tra i sessi. I primi secoli del Medioevo, infatti, avevano creato una sempre maggior distanza tra uomini e donne, condannando i primi alla difesa armata e le seconde all’universo del privato. La Chanson de Roland è una perfetta testimonianza di tale separazione: i suoi anonimi autori avevano raccontato, a un pubblico di soli uomini, imprese eroiche di uomini soli. In un mondo in cui le donne trovavano rappresentazione come mere comparse, il valore di un uomo si misurava dal coraggio con cui era disposto a sacrificare la vita per il suo signore. Così fece Orlando per re Carlo. Che si potesse pensare un’intera realtà priva di donne, però, non era invenzione dell’epica medievale, ma conseguenza del volto dell’Europa nell’Alto Medioevo.
Pars destruens: l’amore feudale
La venuta dei popoli germanici significò il tracollo della condizione femminile. L’equilibrio originatosi dalle ceneri dell’Impero romano e dall’affermazione della legge salica aveva dato vita a ciò che, nel saggio di Mercuri, viene indicato come “amore feudale”. Un sistema di rapporti che prevedeva la percezione, da parte degli uomini, che le donne fossero un bene da possedere o da rigettare e, da parte delle donne, di sé stesse come un bene da preservare, da mettere nelle mani di chi lo potesse difendere. Nel XII secolo, quando spiragli di libertà si aprirono e l’immobilismo sociale cominciò a cedere, Maria di Francia si fece trovare pronta e salda nel proposito di scardinare queste ed altre soffocanti percezioni. Un’operazione culturale che non si poteva compiere lasciando illeso il cuore del potere feudale, la piramide dei suoi equilibri patriarcali.
Della trappola feudale, Maria di Francia deve aver saggiato la dura concretezza in giovane età, quando il fallimento del matrimonio dei suoi genitori giunse a far pronunciare su sua madre, la brillantissima Eleonora d’Aquitania, il peggiore dei giudizi – né migliore fortuna ebbe con il secondo marito, re Enrico II d’Inghilterra, che la condannò a finire i suoi giorni in isolamento in una torre. Mercuri intreccia così i fili della storia nazionale, personale e letteraria nel mirabile tessuto della sua narrazione, mostrando come la profonda ed epidermica conoscenza di quel sistema discriminatorio sia stata la leva con cui Maria tentò di rovesciarlo tramite il potere delle storie.
Pars costruens: forgiare e consegnare le chiavi del regno.
La prima chiave per sciogliere le illusioni dell’amore feudale, per Maria, furono i suoi Lais. Componimenti poetici – “lamenti” nell’etimologia – fiabeschi solo in apparenza, perché
“nella sostanza denunciano la triste condizione femminile dell’epoca rielaborando crudi fatti di cronaca”3.
Questi ed altri i postulati da decostruire, secondo il vario esempio dei protagonisti: il possesso, la gelosia, il controllo, la fedeltà, la verginità come valori. Alcune delle inedite soluzioni degli attori di questi Lais conservano un inesausto respiro liberatorio. Come quella, nel Lais d’Eliduc, della moglie del cavaliere che, scoprendo il marito innamorato di un’altra donna, non lo ostacola ma collabora con lui alla realizzazione di una felicità in cui sa di non essere coinvolta. O come quella del finale del Lais de Lanval, in cui è l’amata a portare in salvo l’amato sul dorso del suo cavallo bianco, e non il contrario.
Ma il progetto di rivoluzione culturale di Maria è comunitario, e non si limita alle opere che portano il suo nome. Chiara Mercuri le rende giustizia nel ridisegnare la cartografia delle influenze da lei esercitate nell’ideazione di due delle opere fondamentali della cultura cortese: il già citato De Amore di Cappellano e il Lancillotto di Chrétien de Troyes. Mercuri riporta puntualmente come, ogni volta che gli autori si trovavano a dover affermare tesi innovative e spinose, lo facessero nascondendosi dietro il nome della loro illustre committente. Se di femminismo inteso come movimento socio-culturale, dunque, non si può ancora parlare per il medioevo, Maria di Francia dona a queste opere una prospettiva e sensibilità femminista.
Se dell’amor cortese il De Amore rappresenta la teorizzazione e il Lancillotto l’exemplum, sempre c’è Maria a instillare in essi un’inedita prospettiva femminista. C’è Maria dietro alla figurazione di un Inferno popolato non dalle adultere, ma dalle continenti, citato nel De Amore. Maria dietro all’ideale di un cavaliere che, nel salire sulla carretta dei miserabili, rinuncia al suo onore per salvare Ginevra, prima di tutto, dallo stupro. È Maria a pretendere che l’adulterio del Lancillotto resti scandalosamente impunito. C’è Maria a tirare le fila degli avvenimenti che giungono a dire al lettore: non c’è peccato nell’amore elargito ma in quello represso. Le sue protagoniste, dalle fate dei Lais a Ginevra, non hanno paura di mostrare il loro desiderio: addirittura, nel Cavaliere della carretta,
“il sesso è esplicito, ed è presentato come conseguenza del desiderio di una donna”4.
Amore è cortesia
“Se l’avessi lasciato in pace” – recitano i versi dell’Antologia di Spoon River in epigrafe al saggio di Mercuri – “il mio amore avrebbe potuto trasformarsi in un bellissimo dolore […]. Ma io lo torturai […] ed esso si mutò in odio”.
L’eroina di questa storia, Maria di Francia, percepì chiaramente i pericoli corsi dall’amante il cui territorio psichico sia invaso dai morbi feudali del possesso e del controllo. Così l’autrice di questa disamina sembra, scegliendo i versi di Lee Masters come viatico della sua opera, ravvisare nei modi correnti dell’amore un certo gusto per la tortura. Come a dire che i rischi dell’amore feudale sono più prossimi a noi di quanto si possa pensare: l’attitudine a martirizzare ciò che è spontaneamente vuole nascere deve essere ancora un’osservata speciale.
Il libro di Chiara Mercuri ha molti pregi. È la mano che toglie la polvere dalle lettere del nome di Maria, che ritraccia la sua figura con segni lussureggianti, senza privare la ricostruzione documentale di una chiarezza che fa afferrare la storia come si afferra un pezzo di pane. Ma il suo primo merito è la rieducazione sentimentale. Impariamo che non esiste un diritto ad essere amati, ma solo un apprendistato all’amabilità. Che l’attitudine che ci porta a guardare all’amore come ciò che può garantirci eterna felicità è ciò che ci fa fallire come amanti perche, dice l’autrice, nessun settore della vita è preposto a questo. Che castità significa spreco se è in nome dell’onore, e offerta se è in nome dell’amore di qualcuno che è l’unico che si riesce ad amare. Che vera parola di miele da pronunciare all’orecchio dell’amante, questa dovrebbe essere: tu non sei mio.
Note:
1 Chiara Mercuri, La nascita del femminismo medievale, Einaudi, 2024, p. IX.
2 Ivi, p. 3.
3 Ivi, p. 71.
4 Ivi, p. 174.
Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.