Il tema delle migrazioni anglosassoni nell’Alto Medioevo è finito al centro di un’indagine condotta dall’Istituto Max Planck di Antropologica evolutiva, dall’Università del Lancashire Centrale e dal gruppo di Ricerca archeogenetica dell’Università di Huddersfield, che focalizzando l’attenzione sull’Inghilterra orientale ha conseguito importanti risultati nella definizione dei rapporti e delle contaminazioni tra le diverse popolazioni che abitarono il Vecchio Continente nei secoli immediatamente successivi alla caduta dell’Impero romano d’Occidente.
Un team di ricerca piuttosto numero e composito, formato da oltre 70 archeologi e genetisti, che analizzando a fondo un campione di 400 individui provenienti da Irlanda, Germania, Britannia, Danimarca e Paesi Bassi hanno cercato di ricostruire le dinamiche che hanno contraddistinto il periodo di principale attività dei popoli anglosassoni, circoscrivibile in un arco temporale che dai primissimi anni del V secolo d.C. si estende fino al 1066, anno della battaglia di Hastings.
Da un’età di transizione come quella dell’Alto Medioevo derivano cambiamenti sostanziali in termini di abitudini e stili di vita, ma anche di migrazioni e cambiamenti di equilibri sullo scenario politico e sociale europeo. Tuttavia, nonostante le testimonianze fornite dagli storici dell’epoca come Beda il Venerabile, che parlava delle migrazioni di Angli e Sassoni in Britannia, la moderna ricerca non è riuscita ad individuare una posizione comune nella definizione della portata di questi flussi migratori, che per alcuni studiosi interessarono l’intero continente su ampia scala, mentre per altri riguardarono esclusivamente una ristretta cerchia di avventurieri e combattenti.
Almeno finora, dato che dalle indagini condotte dall’équipe di ricerca in questione è emerso un notevole flusso migratorio che all’epoca vide protagonisti l’area continentale del Mare del Nord e, come meta di riferimento, l’Inghilterra orientale.
Gli studi, infatti, dimostrano come nel corso dell’Alto Medioevo i tre quarti degli abitanti di quest’ultima area fossero rappresentati da individui i cui antenati provenivano direttamente dalle regioni interne del Mare del Nord. Ad essere coinvolti nel processo migratorio, inoltre, furono interi nuclei familiari e non singoli individui, come dimostrato dai campioni di DNA mitocondriale esaminati dalla dottoressa Maria Pala, che evidenziano una presenza sia maschile che femminile sul territorio.
L’integrazione tra la popolazione autoctona e i ceppi originari dell’area continentale ebbe però esiti diversi, che variano da centro a centro dell’antica Inghilterra anglosassone. Ad esempio, la maggior parte dei resti rinvenuti nel cimitero di West Heslerton, nel North Yorkshire, testimoniano una diretta discendenza continentale, al contrario di quanto avviene invece nel contemporaneo sito di Worth Matravers, dove le corrispondenze appaiono quasi nulle. Ad ogni modo, casi come quest’ultimo risultano decisamente rari nello scenario tratteggiato dagli studiosi, che in alcune circostanze si sono imbattuti perfino in sepolture differenziate tra indigeni e “nuovi arrivati”.
«Con 278 antichi genomi dall’Inghilterra e un altro centinaio dal resto d’Europa, possiamo ora contare su delle informazioni estremamente affascinanti sulla popolazione e sulle vicende individuali successive all’età romana» spiega il ricercatore Joscha Gretzinger.
Eppure, nonostante un flusso migratorio notevole, solo il 40% del materiale genetico dell’attuale popolazione inglese è direttamente riconducibile agli antenati continentali, un risultato evidentemente frutto dei flussi migratori ben più massicci che dovettero caratterizzare l’Europa – e via via tutto il mondo conosciuto – nei secoli successivi.
Materiali: Università di Huddersfield; Istituto Max Planck