Un’idea di libertà. Il Partito radicale nella storia d’Italia, di Lucia Bonfreschi – recensione

I cambiamenti sociali degli anni Settanta in Italia sono eredità di una galassia di partiti e movimenti di varia provenienza. Ma è al Partito radicale, in particolare, che vengono associati gran parte degli esiti di quella stagione. Circa venticinque anni di presenza attiva nell’agone politico, tra il 1962 e il 1988, meritavano uno studio in cui se ne rilevassero attività e direttrici a 360 gradi, anche al di là delle istanze sociali di cui i radicali si fecero portabandiera. Questa operazione è stata recentemente compiuta da Lucia Bonfreschi, ricercatrice indipendente e studiosa dell’Europa del ventesimo secolo, in Un’idea di libertà. Il Partito radicale nella storia d’Italia (1962-1988) (Marsilio, 2022, pp. 320, euro 20).

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La copertina del libro di Lucia Bonfreschi, Un’idea di libertà. Il Partito radicale nella storia d’Italia (1962-1988), pubblicato da Marsilio (2022) nella collana Nodi

Come viene scritto fin dal capitolo introduttivo, non si può descrivere l’attività del Partito radicale senza partire dal suo leader, Marco Pannella, scomparso oltre sei anni fa (e al quale è stato di recente dedicato un film, Romanzo radicale). Pannella impegnò il partito in battaglie laiche (anzi anticlericali), europeiste, antimilitariste, libertarie, riversandovi un carisma comunicativo ben diverso da quello di altri protagonisti della prima repubblica.

La sua attitudine alla guida si mostrò peraltro fin dai primi anni, quando riuscì a tener vivo un movimento politico giovane ma già in agonia. Si trattava del “primo” Partito radicale, fondato nel 1955 da una scissione dell’ala sinistra del Partito liberale italiano e aperto ad altre personalità (tra cui indipendenti come Ernesto Rossi, ex dirigenti del Partito d’Azione e giovani universitari come Stefano Rodotà). Nato in nome di una “alternativa laica”, il “primo” Partito radicale visse anni turbolenti, diviso da spinte centrifughe e da conflitti rispetto al posizionamento da tenere nel panorama politico nazionale.

In seguito a questa crisi interna e a successivi abbandoni, nel 1962 emerse il “secondo” Partito radicale, al quale è dedicato il lavoro di Bonfreschi. È questa la stagione in cui la leadership pannelliana prende il sopravvento, e in cui il partito acquista quella fisionimia che lo porterà al centro delle battaglie sociali. Prima tra tutte, quella per la pace: già il 24 settembre 1961, una delegazione radicale partecipa alla prima edizione della marcia Perugia-Assisi organizzata da Aldo Capitini. Per i radicali – scrive l’autrice – bisognava

«abbandonare il “vecchio” pacifismo […], perché la pace non sarebbe stata il risultato di contingenti accordi diplomatici; bisognava anche superare la posizione di chi si limitava a chiedere la smilitarizzazione dell’Italia: l’obiettivo centrale era un piano di disarmo, atomico e convenzionale, dell’Europa, dai confini dell’Unione Sovietica fino alla Manica» (p. 91).

La prima marcia della pace Perugia-Assisi nel 1961. Foto di  Io c’ero, in pubblico dominio

La ricerca di interlocutori internazionali con cui condividere questa battaglia condurrà nel settembre 1968

«quattro radicali, guidati da Pannella, [a manifestare] a Sofia con cartelli e volantini in favore della Cecoslovacchia occupata dalle forze del Patto di Varsavia» (p. 94).

In questo contesto fu avviata negli anni Sessanta una delle storiche battaglie radicali: quella per l’obiezione di coscienza. A partire dal 1965 i gruppi radicali di Roma e Milano (di gran lunga i più attivi sul territorio nazionale) organizzeranno iniziative in tal senso, che condurranno anche all’arresto e all’incarcerazione di due militanti (pp. 97-98). Oltre dieci anni dopo, l’antimilitarismo tornerà ad essere una battaglia di primo piano, con l’elezione a segretario del partito (nel 1978-1979) di Jean Fabre, un giovane francese militante nonviolento e obiettore di coscienza. Mentre lo sguardo internazionale si amplierà soprattutto tra fine anni Settanta e anni Ottanta con la campagna contro la fame nel mondo e con quella per gli Stati Uniti d’Europa, secondo il progetto federalista di Altiero Spinelli.

Il Partito radicale fallì tuttavia, già negli anni Sessanta, in un altro obiettivo: quello di diventare baricentro di un’unione politica alternativa ai governi a guida democristiana. Questo obiettivo resterà a lungo al centro dell’attività politica del partito, senza però ottenere risultati. Neppure con il Partito socialista, a cui appartenevano Loris Fortuna e altri parlamentari impegnati nelle battaglie sui diritti civili, si sarebbe mai raggiunta un’unione politica, né tantomeno elettorale. I radicali, infatti,

«chiedevano un totale rinnovamento delle formazioni di sinistra, sia sul piano dell’ideologia sia su quello delle strutture interne» (p. 109).

L’esempio francese, dove alle presidenziali del 1965 François Mitterrand aveva ottenuto l’appoggio dei socialisti e dei comunisti, aveva inizialmente lasciato ben sperare nella costruzione di uno schieramento unitario anche in Italia. E a tal fine il partito

«si fece promotore del Comitato per l’Unità delle sinistre in Italia, presentato al pubblico il 1° luglio 1965» (p. 113).

Ma nonostante alcune aperture, «la richiesta radicale di ripensare il socialismo e di abbandonare le vie comunista e social-democratica, per rispondere alle nuove esigenze dell’uomo e del lavoratore della seconda metà del XX secolo» (p. 109) restava fuori dalla realtà.

Delusi dal fallimento delle trattative sull’unità del fronte anti-democristiano, il Partito radicale, su sollecitazione di Pannella, scelse di «potenziare la propria organizzazione attraverso una serie di associazioni e leghe» collegate al partito «ma non subordinate formalmente» (p. 137): associazioni e leghe tutte orientate alla conquista dei diritti civili. Va ricordata, in particolare, la Lega italiana per il divorzio, che condivideva la propria sede romana con quella del partito benché restasse aperta a personalità provenienti anche da altri partiti e movimenti.

Meno successo ebbe, negli stessi anni Sessanta, una Lega fondata ad hoc con l’obiettivo di abolire il Concordato tra Stato e Chiesa. Appartiene invece ai primi anni Settanta la creazione di due nuove organizzazioni che imprimeranno una svolta sul fronte dei diritti: il Fuori!, primo movimento della comunità omosessuale italiana, fondato dal radicale Mauro Pezzana; e il Movimento di liberazione della donna, federato al Partito radicale e in prima linea per la liberalizzazione dell’aborto.

In tutte queste esperienze, e in particolare nella campagna per il divorzio, prima con l’approvazione della legge 352/1970 e poi con la vittoria al referendum del 1974, emerse la capacità dei radicali

«di utilizzare i nuovi metodi di fare politica […]: cartoline, lettere, telefonate, raduni di piazza, campagne di raccolta firme per petizioni popolari, campagne stampa su giornali popolari, picchettaggi ma anche digiuni pubblici» (p. 123).

Questa mobilitazione era tuttavia anche frutto di una precisa strategia politica: quella di

«“costringere” i partiti laici a prendere chiaramente posizione su un tema che, per i socialisti, i social-democratici e i repubblicani, avrebbe complicato i rapporti con i democristiani al governo» (p. 124),

nella prospettiva di una prossima unità delle sinistre.

Roma, 12 maggio 1974. Amintore Fanfani, segretario della Democrazia Cristiana, vota al referendum sul divorzio. Foto Keystone / Getty Images, in pubblico dominio

Questo straordinario attivismo – che passò anche attraverso la pubblicazione di riviste e bollettini informativi e di inchiesta, e poi per l’apertura di Radio Radicale – non condusse tuttavia a un aumento significativo del numero dei militanti del partito, pur crescendo coloro che se ne dichiaravano simpatizzanti. E anche i risultati elettorali, a partire dal 1976, quando il partito iniziò a presentarsi con una propria lista, si rivelarono spesso deludenti rispetto alla popolarità ottenuta dalle singole battaglie per la conquista di nuovi diritti.

E infatti le consultazioni elettorali che vedranno i radicali protagonisti negli anni Settanta e Ottanta saranno soprattutto quelle referendarie. Benché spesso senza il sostegno di altri partiti nella raccolta firme, e nel silenzio di stampa e tv (scalfito solo in seguito ai numerosi scioperi della fame di Pannella e di altri dirigenti e attivisti), a partire dal 1977 i radicali hanno portato al voto popolare decine di quesiti. Alla base di questa strategia politica, scrive Bonfreschi, vi era

«la volontà di aprire un progetto unitario e chiaro non contro una singola legge iniqua e incostituzionale, ma per modificare profondamente e irreversibilmente il sistema dei rapporti fra lo Stato e i cittadini» (p. 239).

Accanto alle numerose battaglie sociali fin qui citate, nel libro Un’idea di libertà se ne ritrovano molte altre. Alcune di esse restano tra le più celebri (e assai attuali): quella per la liberalizzazione delle droghe leggere, ad esempio, o quella contro il nucleare, anni prima del disastro di Chernobyl. Altre, come quelle contro la caccia e a favore dell’amnistia, hanno subìto una progressiva “de-mediatizzazione” già a partire dagli anni Novanta. Il Partito radicale si era però, a quel punto, già trasformato in partito “transnazionale”. In polemica contro la partitocrazia e l’assenza di «garanzie costituzionali», Pannella propose già nel 1985 la «cessazione delle attività del partito». E nonostante il successo di una nuova campagna di iscrizioni, il partito scelse di separare i suoi destini dalla politica elettorale italiana

«per creare un “partito internazionale”, […] per costruire gli Stati Uniti della democrazia politica, in Europa, nell’area mediorientale (a partire da Israele) e in quella africana» (p. 436).

La seconda repubblica avrebbe poi travolto e mutato il destino anche degli altri partiti italiani.

Il libro recensito è stato gentilmente fornito dalla Casa Editrice.

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