Stavolta vi porto in un piccolo paese della Calabria, ed esattamente a Fosco, un borgo “accecato dalla luce, a dispetto del nome che era uno straccio di cotone buttato sulle case”. Siamo negli anni ’80.
Di seguito, la recensione procede con accenni alla trama del romanzo.
Protagonista della vicenda narrata da Paola Cereda è Irene, una ragazza di 15 anni forse già troppo grande e matura per la sua età, “troppo femmina e verace” per i gusti della società del tempo, governata ancora dalle dinamiche e dalle logiche dei “masculi”.
“Voglio fare la scuola d’arte”, aveva detto Irene ai genitori. L’arte si rivelerà una salvezza nella vita della ragazza, questa sua passione non l’abbandonerà mai, neanche nei momenti di maggiore difficoltà. Invece no, niente scuola d’arte per lei. Proprio non si poteva permettere una cosa del genere. “Che fesseria.” Bisognava che andasse alla Ragioneria, per le donne non c’era certo spazio per coltivare le proprie passioni, le proprie ambizioni. Bisognava far silenzio ed obbedire al volere dei genitori, soprattutto a quello del padre.
I genitori di Irene non avevano fatto altro che aspettare il figlio maschio, che arriva soltanto dopo tre figlie femmine. E quando nasce “U Principi”, come veniva definito il piccolo Sebastiano, tutte le attenzioni dei genitori e della famiglia sono rivolte esclusivamente a lui, come se le sorelle fossero delle fugaci comparse nella vita di chi le aveva messe al mondo.
“U principi è u cchiu bellu. U principi è u megliu.”
Un altro principe era certamente Angiolino, il figlio di Totonnu, lo gnuri del paese. Grazie al ruolo che il padre rivestiva nella società di Fosco, infatti, il bambino godeva di ogni privilegio possibile: “era il primo a ricevere il buongiorno dal preside e la benedizione pasquale dal parroco. Era il primo a entrare e uscire dalla classe. Gli altri seguivano a distanza”.
Le tre notti dell’abbondanza (Giulio Perrone Editore, 389 pp., 18,00 euro), è una fotografia di un classico borgo meridionale di 40 anni fa e dei suoi abitanti, in cui a comandare sono ancora gli gnuri del paese come Totonnu, ai quali bisogna mostrare il massimo rispetto e riverenza e, di certo, non si può in alcun modo disobbedire.
Irene e Rocco, l’amore della sua vita, sono l’emblema del desiderio di cambiamento, della giovane linfa vitale che difficilmente muore di fronte alle logiche della malavita, degli gnuri sempre in guerra tra loro.
Irene, “sempre con la testa altrove”, non permette a nessuno di toglierle quella voglia di vivere e quella gioia di guardare il mondo con gli occhi quasi di una bambina, a dispetto del suo aspetto fisico già così maturo per la sua giovane età.
La ragazza, circondata da membri una società così chiusa nelle sue logiche gerarchiche patriarcali, simboleggerà lo spirito e la voglia del cambiamento propri di una ragazza intraprendente e desiderosa di sconvolgere i meccanismi che regolavano la sua vita e quella degli altri nel suo paese.
Paola Cereda, con uno stile semplice che favorisce una lettura scorrevole e piacevole, riesce a dar vita a dei personaggi con una profonda e complicata psicologia in grado di renderli autentici. Grazie a Irene, Rocco, ma anche grazie a Gianna, Sebastiano, Lorenza, e Zì Totonnu, ci immedesimiamo nelle vicende come se fossimo anche noi lettori dei protagonisti, in grado di soffrire, piangere e sognare un cambiamento con loro.
Il ritmo narrativo rende le vicende mai piatte e noiose. Esse sono sempre piene di vita come i giovani Irene e Rocco, sempre aperti ad un futuro migliore, al contrario della cittadina di Fosco, per cui non sembra esserci speranza. Per il borgo non sembra esserci altro destino rispetto a quello di rimanere chiuso, inaccessibile ed aspro, come lo sono alcuni dei suoi abitanti.