NUTRIRE L’IMPERO.

STORIE DI ALIMENTAZIONE DA ROMA E POMPEI

Museo dell’Ara Pacis

2 luglio – 15 novembre 2015

Mostra ideata in occasione dell’EXPO 2015

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Cosa e come mangiavano gli antichi romani? Come trasportavano migliaia di tonnellate di provviste dai più remoti angoli della terra? E come le conservavano durante tutto l’anno? A queste e a tante altre curiosità risponderà la mostra “Nutrire l’Impero. Storie di alimentazione da Roma e Pompei” ospitata dal Museo dell’Ara Pacis di Roma dal 2 luglio al 15 novembre 2015 che traccerà un affresco complessivo sull’alimentazione nel mondo romano grazie a rari e prestigiosi reperti archeologici, plastici, apparati multimediali e ricostruzioni.
14. Bassorilievo

 

NUTRIRE L’IMPERO.

STORIE DI ALIMENTAZIONE DA ROMA E POMPEI

Museo dell’Ara Pacis

2 luglio – 15 novembre 2015

La mostra, ideata in occasione dell’EXPO 2015, racconta il mondo dell’alimentazione

in età imperiale quando, intorno al bacino del Mediterraneo,

si avviò la prima “globalizzazione dei consumi”

Cosa e come mangiavano gli antichi romani? Come trasportavano migliaia di tonnellate di provviste dai più remoti angoli della terra? Come facevano a farle risalire lungo il Tevere fin nel cuore della città? E come le conservavano durante tutto l’anno? A queste e a tante altre curiosità risponderà la mostra “Nutrire l’Impero. Storie di alimentazione da Roma e Pompei” ospitata dal Museo dell’Ara Pacis di Roma dal 2 luglio al 15 novembre 2015 che traccerà un affresco complessivo sull’alimentazione nel mondo romano grazie a rari e prestigiosi reperti archeologici, plastici, apparati multimediali e ricostruzioni.

L’esposizione, ideata in occasione dell’EXPO 2015, è promossa dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo di Roma – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, dall’Assessorato a Roma produttiva e Città Metropolitana e da EXPO con la cura scientifica della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e della Soprintendenza speciale per Pompei, Ercolano e Stabia, di nuovo insieme a 25 anni di distanza dalla fortunata esperienza della mostra Riscoprire Pompei (1993). L’ideazione e il coordinamento scientifico sono di Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini. Ricostruzioni multimediali e catalogo (con testi di C. Parisi Presicce, M. Osanna, E. Lo Cascio, F. Coarelli, P.Arnaud, C. Virlouvet, S. Keay, P. Braconi, C. Cerchiai, G. Stefani, M. Borgongino, M.P. Guidobaldi, A. Lagi) sono a cura di l’Erma di Bretschneider.

A seguito della pax romana, intorno al bacino del Mediterraneo si determinò quella che oggi chiameremmo la prima “globalizzazione dei consumi” con relativa “delocalizzazione della produzione” dei beni primari. In età imperiale i romani bevevano in grandi quantità vini prodotti in Gallia, a Creta e a Cipro, oppure, se ricchi, i costosi vini campani; consumavano olio che giungeva per mare dall’odierna Andalusia; amavano il miele greco e soprattutto il garum, il condimento che facevano venire dall’Africa, dall’Oriente mediterraneo, dal lontano Portogallo, ma anche dalla vicina Pompei. Ma, soprattutto, il pane che mangiavano ogni giorno era un prodotto d’importazione, fatto con grano trasportato via mare su grandi navi dall’Africa e dall’Egitto.

Il percorso espositivo ripercorre le soluzioni adottate dai romani per il rifornimento e la distribuzione del cibo, con i mezzi di trasporto via terra e soprattutto lungo le rotte marine. Si affrontano, inoltre, i temi della distribuzione “di massa” e del consumo alimentare nei diversi ceti sociali in due luoghi per molti versi emblematici: Roma, la più vasta e popolosa metropoli dell’antichità, e l’area vesuviana, con particolare riguardo a Pompei, Ercolano e Oplontis, fiorenti centri campani.

Il visitatore è introdotto al tema del movimento delle merci da una grande carta del Mediterraneo realizzata con tecnica cinematografica. Qui si animeranno i principali flussi alimentari dei beni a lunga conservazione – grano, olio, vino e garum – e si visualizzano le rotte marine dai porti più grandi del Mediterraneo, Alessandria e Cartagine. In questa prima sezione è anche affrontato il problema della lavorazione degli alimenti primari, della loro confezione in anfore caratteristiche per ogni prodotto, dell’immagazzinamento e della distribuzione del cibo.

Nella seconda sezione le merci arrivano a Roma e a Pompei attraverso i porti di Pozzuoli e di Ostia. Qui è presentata la ricostruzione in grafica digitale del porto di Traiano, con i risultati inediti degli scavi recentissimi condotti dalla Soprintendenza di Ostia e dall’Università di Southampton per la ricostruzione del complesso portuale romano.

Chiude questa parte della mostra il tema della grande distribuzione gratuita dei beni principali di sostentamento ai cittadini romani adulti, la plebe urbana e romana alla quale era riconosciuto un privilegio unico: quello di condividere i beni della conquista, dapprima solo grano, ma dal III secolo d.C. anche olio, vino e carne.

La terza sezione illustra il consumo delle merci e dei prodotti alimentari che poteva avvenire sia in luoghi pubblici, come le popinae e i thermopolia, gli antichi “bar” o “tavole calde” in cui romani e pompeiani consumavano il “cibo di strada”, sia nei raffinati triclinia (sale da pranzo in cui i commensali mangiavano stando semidistesi su tipici lettini da banchetto) del ceto abbiente. Esposizioni di resti di cibo da Ercolano aiuteranno a comprendere la qualità dei consumi in un ricco centro campano.

Grazie al contributo scientifico e ai prestiti provenienti da Pompei, Ercolano e Oplontis, sarà possibile ammirare corredi da tavola provenienti sia da contesti di estrema ricchezza – come il cosiddetto “tesoro di Moregine”, un completo da tavola in argento di ritorno da cinque anni di esposizione al Metropolitan Museum di New York – sia raffinate suppellettili in ceramica, in vetro e in bronzo, sia infine il vasellame utilizzato in contesti quotidiani più popolari.

Due approfondimenti concludono la mostra: uno dedicato ai diversi alimenti consumati in epoca romana con la loro diffusione e il relativo prezzo (esemplificato dalla preziosa testimonianza dell’Edictum de pretiis rerum venalium dell’imperatore Diocleziano, il più famoso dei “calmieri” dell’antichità) e uno dedicato alla “filosofia del banchetto“, laddove l’amore profondo per la vita e la festa alimentare che la celebra si mescola con la malinconica consapevolezza della fugacità di ogni piacere.

SCHEDA INFO

Mostra

Nutrire l’Impero. Storie di alimentazione da Roma e Pompei

Luogo

Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma

Apertura al pubblico 2 luglio – 15 novembre 2015
Tutti i giorni dalle ore 9.30 – 19.30 (la biglietteria chiude un’ora prima)

Info Mostra

060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 21.00)

www.arapacis.it, www.museiincomuneroma.it

Twitter: @museiincomune #Nutrirelimpero

Promossa da

Assessorato alla Cultura e al Turismo di Roma – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Assessorato a Roma produttiva e Città Metropolitana ed EXPO

Cura scientifica di

Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e Soprintendenza speciale per Pompei, Ercolano e Stabia

Ideazione e coordinamento scientifico

Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini

Organizzazione

Zètema Progetto Cultura

Ricostruzioni multimediali e catalogo

L’Erma di Bretschneider

Sponsor Sistema Musei Civici

MasterCard Priceless Rome

Con il contributo tecnico di

Atac

Servizi di vigilanza

Si ringrazia

Travis

Associazione “Porto di Ripetta”

Biglietti

Biglietto integrato Museo dell’Ara Pacis + Mostra € 17 intero, € 13 ridotto

Solo mostra € 11 intero, € 9 ridotto

IL PERCORSO DELLA MOSTRA

NUTRIRE L’IMPERO, NUTRIRE ROMA

Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini

Nell’arco di tempo che va da Augusto a Costantino (27. a.C. – 337 d.C. ), Roma è stata una metropoli di circa 1 milione di abitanti, alla testa di un impero che, secondo le stime correnti, ne contava 50/60 milioni. Nessuna città raggiunse più questa grandezza fino alle soglie della rivoluzione industriale.

Nutrire Roma, alimentare una tale concentrazione umana, soprattutto di grano, costituì un’ impresa di cui furono diretti responsabili gli imperatori. Facendosi carico dell’annona di Roma, ovvero del suo fabbisogno alimentare, il principe stabiliva un rapporto diretto e personale con il suo popolo. Soprattutto con i cittadini romani, maschi, adulti e residenti – la plebs urbana et romana, detta anche “plebe frumentaria” – che ogni mese ricevevano dallo stato, a titolo gratuito, 5 moggi di grano a testa, circa 35 Kg di frumento, una quantità che, trasformata in pane, risultava più che sufficiente per il sostentamento individuale.

Si trattava di un diritto/privilegio, a seconda dei punti di vista, del “popolo dominante”, riconosciuto ad un massimo di 200.000beneficiari, limite fissato da Augusto. Traducendo in cifre, vediamo che le sole distribuzioni gratuite di grano, lefrumentationes, comportavano l’importazione di quantità di frumento oscillanti tra i 9 e i 12 milioni di moggi l’anno, vale a dire fino a 84.000 tonnellate (Virlouvet 2000). Se poi si considera il rifornimentoalimentarenecessario all’intera città, la quantità di grano importata sale a cifre che gli storici, non concordi per carenza di fonti, stimano tra i 50 milioni di moggi,ovvero 350.000 tonnellate (Tchernia 2000), e i 60 milioni di moggi, ovvero 420.000 tonnellate ogni anno (De Romaniis 2009).

Alla fine della Repubblica il grano consumato a Roma veniva dall’Africa, dalla Sicilia e dalla Sardegna, come ricorda Cicerone (De imperio Cnei Pompei, 34). Le cose mutarono con la conquista dell’Egitto e la politica di espansione agricola che Roma attuò in Africa: durante l’alto impero, il tributo granario venne prodotto e pagato per 1/3 dall’Egitto e per i restanti 2/3 dall’Africa(Flavio Giuseppe, Bell.Iud., II, 383e 386), soprattutto le province corrispondenti alle odierne Tunisia, Algeria e Libia.

Il risultato fu una produzione “delocalizzata” e monoculture estensive specializzate. Nonché forme di consumo che, forse per la prima volta nella storia, possiamo considerare “globalizzate”.

Tutto ciò fu realizzato grazie all’efficienza della macchina amministrativa statale, che da una parte favoriva il libero commercio e dall’altra riscuoteva il grano quale imposta in natura (ma anche il vino, l’olio e altri alimenti), garantiva il suo trasporto su grandi navi mercantili che attraversavano il Mediterraneo, e ne seguiva il percorso fino ai monumentali magazzini (gli horrea) del grande Emporiumromano, nell’odierno quartiere di Testaccio.

Tchernia 2000 = A. Tchernia, Subsistances à Rome: problèmes de quantification, in Nicolet, C. et al., (eds.), Mégapolesméditerranéennes: Géographieurbainerétrospective, Paris2000, pp. 751-760.

De Romanis 2009 = F. De Romanis, In tempi di guerra e di peste. Horrea e mobilità del grano pubblico fra gli Antonini e i Severi, in Antiquitésafricaines, 43, 2007, p. 187-230

Il principe e l’alimentazione di Roma

Nutrire Roma e garantire al tempo stesso il commercio alimentare in un impero in cui l’agricoltura era alla base dell’economia, fu compito di cui si fecero carico gli imperatori. Da Augusto in poi, fu il principe-monarca a controllare direttamente l’approvvigionamento di Roma. Ciò avvenne in vari modi , ma principalmente attraverso la figura del “prefetto dell’Annona” , un alto magistrato scelto tra la classe dei cavalieri, che diventava responsabile della “filiera” del grano, e in seguito anche dell’olio, che viaggiavano verso Roma. Il prefetto era scelto dall’imperatore, che lo nominava e revocava liberamente, pagandolo con le risorse del suo fiscus (Pavis D’Escurac 1976, 14-26). Il popolo di Roma sapeva benissimo chi ringraziare in caso di abbondanza o con chi prendersela quando il cibo scarseggiava. Claudio nel 51 d.C. dovette sottrarsi sotto scorta alla rabbia di una plebe che in pieno Foro lo coprì d’insulti e lo colpì con lanci di pane raffermo (Tacito, Ann. 12,43.2). Nerone dovette rinunciare ad esibirsi in Grecia perché il popolo temeva che in sua assenza il cibo sarebbe scarseggiato a Roma . Anche per questo gli attributi dell’abbondanza – nelle vesti della dea Annona o di Cerere – entrarono stabilmente nell’immagine pubblica dell’imperatore e della sua famiglia, come bene esprime il busto di Livia, moglie di Augusto, ritratta nei panni della dea Cerere.

Pavis D’Escurac 1976 = H. Pavis d’Escurac, La préfecture de l’annone, service administratif imperial d’Auguste à Costantin, Rome 1976.

Anfora-campione e parte di modius

Anche nel mondo romano i carichi di merci viaggiavano accompagnati dalla loro documentazione. L’anforetta qui esposta costituisce uno di questi documenti e serviva a certificare genere, quantità, proprietà e trasportatore di un carico di 15.200 moggi (circa 106 tonnellate) di grano. Ma non solo, perché serviva anche a certificare, contro possibili frodi, la qualità del carico spedito. L’anforetta conteneva infatti un campione del grano trasportato, che doveva risultare conforme a quello consegnato.

Sulla spalla dell’anforetta si legge:

Ante (missum) exemplar

tr(itici) m(odiorum) X̅V̅CC

in n̅(ostra) cumba AMPRI de tutela Iovis et

Iuno(nis) parasemi Victoria P(ubli) Pompili

Saturi. Mag(ister) M(arcus) LartidiusVitalis domo Clupeis.

« Campione dei 15.200 modii del grano trasportato sulla nostra navicella da carico di proprietà di Publio Pompilio Saturo con l’insegna della Vittoria sotto la protezione di Giove e di Giunone. Comandante della nave Marco Lartidio Vitale, originario di Clupea ».

Sul ventre viene precisato il compenso spettante al trasportatore, circa l’ 1,3% del carico:

Vect(ores)estisrec(epturi) so͂l͂͛͛(ven)di ͂ (causa ?) gratis m(odios) CC.

« Voi trasportatori riceverete duecento modii di grano a titolo di compenso ».

S(olutio) f(acta) pr(idie) idusOctobr(es).

« Consegna avvenuta il 14 ottobre »

A fianco una parte di modius, ovvero il contenitore usato come unità di misura dei cereali e degli altri « aridi ». Il cerchio superstite costituiva la parte superiore del contenitore, probabilmente in legno, e ne facilitava la presa.

I mercati

II primo mercato (macellum), inteso come edificio destinato al commercio dei generi alimentari, sorse a Roma alla fine del III secolo a.C., nell’area poi occupata dal Foro della Pace. La sua caratteristica architettura è ricostruibile dal Macellum Magnum, il più grande dei mercati romani, fatto costruire da Nerone sul Celio nel 59 d.C. e dal Macellum di Pozzuoli, quello meglio conservato in Italia. Si trattava di edifici monumentali a pianta quadrangolare, con i punti vendita distribuiti intorno ad un cortile centrale porticato. Spesso al centro della corte si trovava una rotonda colonnata (tholos) che poteva ospitare una fontana o una statua. Essenziale era anche la presenza di un’area di culto, in genere dedicata agli dei che proteggevano il commercio, Mercurio o Nettuno. Il macellum era specializzato nella vendita di merci di pregio, come pesce, molluschi (ostriche comprese) carne, salumi, cacciagione e probabilmente garum. Sembra che vi si potesse trovare anche frutta, ma non vino, olio, formaggi o cereali. Vi si potevano invece ingaggiare cuochi, come ricorda Plinio ( Nat.Hist. 18. 107-108). Il macellum romano ebbe larga fortuna e si diffuse con la conquista, prima in Italia, quindi nelle province. Sembra anzi che l’apertura di un macellum in una città provinciale fosse un privilegio e l’indice di un particolare statuto della città stessa. In Africa il primo macellum venne edificato a Leptis Magna, attuale Libia, in epoca augustea. Consisteva in un semplice colonnato senza botteghe, ma con due grandi tholoi centrali che ospitavano i banchi per la vendita. Con il mercato di Thamugadi (Timgad, Algeria), colonia fondata da Traiano nel 100 d.C., siamo invece di fronte ad un esempio di munificenza privata: il mercato, senza tholos e con botteghe aperte sui lati lunghi del cortile, fu costruito dal facoltoso Sertius e da sua moglie all’inizio del III secolo d.C..

Laire De Ruyt , Macellum, marché alimentaire des Romains. Louvain-La-Neuve 1983

Jean Andreau, Quelques observations sur les macella, in Tout vendre, tout acheter. Structures et equipements des marchés antiques, a cura di V.Chankowski et P. Karvonis, Bordeau-Atene, 2012.

F.Coarelli, I mercati, il trasporto e il commercio dei prodotti alimentari nell’antica Roma, infra

Le anfore

Diversamente dagli alimenti solidi, come il grano, il trasporto delle derrate liquide o semiliquide come il vino, l’olio e le salse di pesce, è affidato a contenitori in terracotta, in particolare alle anfore (dal termine greco amphìphèro, porto da entrambe le parti, riferito alle due anse dei contenitori). Questo genere di recipienti rappresenta il mezzo più efficace per garantire la conservazione e la spedizione di grandi quantitativi di merci per via marittima o fluviale.

Nelle navi lo stivaggio delle anfore avveniva impilandole le une sulle altre con un sistema “a scacchiera”, in modo che quelle dello strato superiore si inserissero fra tre colli delle anfore sottostanti. I contenitori si adeguavano alla forma della carena e venivano fissati e protetti dagli urti con ramaglie di ginepro, di erica, giunchi, paglia ed altro.

Le anfore venivano fabbricate nelle regioni di produzione delle merci, con forme diverse a seconda della provenienza, della cronologia e del contenuto. In età romana circolavano in tutto il Mediterraneo, spingendosi fino alla Britannia e al Bosforo, testimoniando l’unificazione commerciale, oltre che politica, dell’impero.

Il primo a comprendere l’importanza di questi oggetti per la ricostruzione dei traffici commerciali fu Heinrich Dressel, che alla fine dell’Ottocento studiò la relazione tra le diverse forme di anfore e le iscrizioni conservate su di esse. Così Dressel gettava un ponte tra archeologia, epigrafia e storia economica. Di qui si è sviluppata una solida tradizione di studi.

Oggi siamo in grado di attribuire le anfore a grandi blocchi di produzioni (italiche, galliche, iberiche, africane e orientali) e, all’interno di questi, a sempre più specifici ambiti di provenienza, riuscendo a “tracciare” i rapporti commerciali dei popoli del Mediterraneo.

D. P. S. Peacock – D. F. Williams, Amphorae and the Roman Economy: An Introductory Guide, London – New York 1986

T. Bertoldi, Guida alle anfore romane di età imperiale. Forme, impasti e distribuzione, Roma, 2012

Mare, navi e armatori

“ … nessuno ricorda che l’Italia ha bisogno di risorse esterne e che la vita del popolo romano è esposta ogni giorno alle incertezze del mare e delle tempeste!” (Tacito, Ann. III, 2.52).

Con queste parole risentite Tiberio fustigava in senato i lussi e gli sperperi di Roma, ricordando che invano si sarebbero cercate in patria le risorse necessarie alla sopravvivenza dei cittadini se gli alimenti di base non fossero arrivati d’oltremare. Difficilmente si potrebbe esporre meglio la dipendenza alimentare di Roma dai suoi rifornimenti via mare già nell’alto impero.

Eppure Roma non ebbe mai una flotta mercantile di stato. Per il trasporto degli alimenti che le arrivavano come tributo dall’intero Mediterraneo si affidava ad appalti aggiudicati ad armatori privati, i navicularii , che però potevano essere anche mercanti in proprio, cioè negotiatores. Per garantirsi i loro buoni uffici si ricorse ad incentivi, che andavano dall’assicurazione statale delle perdite subite dagli armatori per il cattivo tempo (Svet., Claudius 18) alle esenzioni fiscali per chi metteva al servizio dell’annona navi capaci di trasportare almeno 10.000 moggi di grano, l’equivalente di 350 tonnellate (Rickman 1980,76). Fin qui l’aspetto liberale dello stato, che però nel tempo si tramutò in un forte dirigismo. Non è chiaro quando sia avvenuto il passaggio dal mercato libero dei trasporti alimentari per l’annona di Roma al controllo statale della loro movimentazione. C’è chi pensa che il passaggio ebbe una accelerazione sotto Traiano, che incoraggiò la formazione di corporazioni di professionisti coinvolti nell’approvvigionamento per meglio controllare il suo meccanismo. Fatto sta che il trasporto del grano e dell’olio riscossi dallo stato divenne, a partire dal II secolo, un dovere (munus) di alcune categorie che in cambio ne ricevevano privilegi. Gli armatori, ad esempio, ebbero ricchezze ed esenzioni, ma vennero anche obbligati a vincolare se stessi, i loro eredi e il loro capitale a trasporti periodici di beni per conto dello stato (Rickman 1980, 90-1).

Le navi impiegate nei trasporti alimentari nel mondo romano erano scafi di stazza variabile, che potevano trasportare dalle 70 alle 600 tonnellate di carico. Quelle ritenute ottimali per il trasporto del grano dovevano andare oltre le 350 tonnellate. Si navigava unicamente a vela, senza bussola e senza carte marine. L’esperienza dei capitani, la loro conoscenza delle coste e, in mare aperto, dei venti e dei cieli notturni, faceva la differenza e consentiva la navigazione anche su grandi distanze (Arnaud 2005).

Rickman 1980 = G. Rickman, The corn supply of ancient Rome, Oxford 1980

Arnaud 2005 = P.Arnaud, , Pascal, Les routes de la navigation antique : itinéraires en Méditerranée, Paris 2005

Il sistema portuale di Roma

Famosa per le sue strade, Roma si riforniva soprattutto via mare degli alimenti di base: grano, olio, garum, vino e molto altro. Convergendo da ogni direzione verso il più grande mercato dell’antichità, le navi si avvalevano di un’infrastruttura portuale “a sistema” (Keay 2012), che andava da Centumcellae (Civitavecchia) a nord, fino a Puteoli (Pozzuoli) a sud (Keay 2015). Il grano egiziano, ad esempio, arrivava a Pozzuoli, un enorme bacino naturale di 600 ettari provvisto di moli monumentali, come quello di 372 metri fatto costruire da Nerone (Camodeca 1994). Pozzuoli forniva inoltre un’impressionante capacità di stoccaggio delle merci, grazie alla capienza dei suoi magazzini (Lo Cascio 1993). Da Pozzuoli il grano, subito trasferito su navi più piccole o prelevato nella stagione invernale dai magazzini, arrivava ad Ostia dopo 3 giorni di navigazione costiera. Di qui avrebbe risalito il Tevere sulle “caudicarie”, barche da carico con fondo piatto per un ridotto “pescaggio”.

Nell’anno 42 l’imperatore Claudio volle dare a Roma un porto alla sua altezza, che ovviasse alla complicata logistica dei trasporti da Pozzuoli. Diede perciò il via alla realizzazione di un’imponente “opera pubblica”, forse la più grande del tempo. Il Porto di Claudio fu scavato 3 km a nord di Ostia, in parte nella terra ferma, in parte chiudendo un bacino di 200 ettari (Keay 2015) con due moli convergenti. L’ingresso era segnalato da un faro paragonabile per dimensioni a quello di Alessandria d’Egitto. Ma si vide che la stessa vastità del bacino ne minacciava la sicurezza e le correnti che portavano il limo dalla foce del Tevere al nuovo porto ne provocavano l’insabbiamento.

Nerone pensò allora ad un’infrastruttura alternativa alla logica portuale, facendo iniziare lo scavo di un canale navigabile per centinaia di chilometri tra il lago di Averno, all’altezza di Pozzuoli, e il Tevere, che avrebbe consentito l’alaggio delle merci, cioè il traino dei carichi su barche da Pozzuoli a Roma. L’opera non fu mai realizzata. Fu invece Traiano a ridisegnare, tra il 100 e il 113 d.C., l’assetto definitivo del porto di Claudio, inaugurato appena quarant’anni prima, aggiungendo un bacino esagonale interno. Traiano faceva anche scavare un nuovo canale largo 40 metri, il Canale Romano, che univa il suo bacino esagonale al canale di Fiumicino e quindi al Tevere.

L’area di Portus è da qualche anno oggetto di scavi e ricerche da parte di un team di archeologi dell’Università di Southampton, che in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica di Ostia, ha acquisito i dati che vengono per la prima volta presentati in forma ricostruttiva in questo filmato.

Keay 2012= S.Keay, The port system of Imperial Rome, in Rome, Portus and the Mediterranean (ed. S.Keay), Oxford 2012

Keay 2015 = S. Keay, I porti di Roma, infra

Lo Cascio 1993 = E. Lo Cascio, Puteoli e l’annona di Roma, in Puteoli, a cura di F. Zevi, Napoli 1993, pp. 51-60

Camodeca 1994 = G. Camodeca, Puteoli porto annonario e il commercio del grano in età imperiale, in Le Ravitaillement en blé de Rome et des centres urbains des débuts de la République jusqu’au Haut-Empire, Actes du colloque international de Naples, 14-16 Février 1991, Roma 1994, pp. 103 – 128.

I saccarii

I facchini che scaricavano il grano dalle navi per caricarlo su barche più piccole, o che lo immagazzinavano portandolo “sacco in spalla” nei grandi depositi ostiensi, per questo detti saccarii, erano forse la figura più caratteristica tra quelle che animavano il grande sistema portuale di Ostia antica. I saccarii vestivano una corta tunica che lasciava libere le braccia, stretta in vita da una larga fascia avvolta in più giri sui fianchi, per contenere l’addome sotto sforzo. Le due statuette esposte in mostra evidenziano anche la presenza di un copricapo girato “a turbante”, che forse li aiutava a sostenere il peso in equilibrio, mentre un lembo di tunica proteggeva la spalla sinistra, su cui poggiava il sacco.

I saccarii affollavano numerosi i moli e le strade di Portus, come di altri porti della penisola, dalla tarda primavera all’inizio dell’autunno, quando attraccavano le navi onerarie dall’Egitto, dall’Africa e dalle isole. Almeno una parte di loro, tuttavia, non avventizia, doveva essere attiva tutto l’anno, se non altro per le movimentazioni di granaglie negli stretti corridoi dei depositi, dove per mancanza di spazio e per ragioni igieniche non venivano introdotti animali da soma. Come molte altre categorie di lavoratori, i saccarii erano riuniti in corporazioni, i collegia o corpora, forme consociative che si pongono tra le confraternite, per quanto riguarda la religiosità praticata in comune, e il sindacato. E’ noto infatti che, almeno dall’epoca di Traiano, i collegia stipulavano contratti di lavoro collettivi con lo Stato.

Le statuette fittili di saccarii qui esposte, entrambe provenienti da Ostia , fanno parte di un corpus di poche decine di esemplari, tra integri e frammentari, emersi da scavi archeologici effettuati a Pozzuoli, Pompei, Ostia Antica, Roma, Tarquinia e Luni, sul Tirreno, e ad Egnazia, sulle coste pugliesi.

E.Martelli, Sulle spalle dei saccarii. La rappresentazioe dei facchini e il trasporto di derrate nel porto di Ostia in epoca imperiale, Oxford 2013;

C.Pavolini, La vita quotidiana ad Ostia antica, 3° ed. , Roma-Bari 2010

Gli approdi sul Tevere

Dalla fondazione di Roma fino al II secolo d.C., le rive del Tevere videro l’estensione e il potenziamento degli approdi, anche se il fiume non era naturalmente vocato a diventare il grande porto fluviale che fu nell’antichità. Al Porto Tiberino, che si sviluppò ai piedi del Campidoglio e dell’Aventino a partire dal VI secolo a.C. (Colini 1986; Coarelli 1992), presto si aggiunsero attracchi a nord, sulla sponda del Campo Marzio settentrionale, dove scaricavano le merci dall’Umbria e dalla Sabina; sulla riva destra del fiume, a Trastevere; e soprattutto a sud del porto Tiberino, nella zona dell’Emporium, il nuovo porto iniziato a costruire nel 193 a.C., a seguito della spinta espansiva e commerciale seguita alla seconda guerra punica. Secondo valutazioni recenti (Keay 2012, 34) circa 1500 metri di infrastrutture sulla riva sinistra, tra Foro Boario e Testaccio, e forse altrettante sulla destra, attrezzavano il Tevere a ricevere alimenti e merci per la Roma imperiale.

L’area commerciale per eccellenza, il “ventre” della città (Coarelli 2015) dove si concentrava il traffico maggiore per lo sbarco, lo stoccaggio e anche la vendita delle merci, era l’Emporium, sul Lungotevere Testaccio, con i suoi moli, uno scivolo per gli scafi e alle spalle un entroterra pianeggiante di circa 60 ettari, esteso fino al Monte Testaccio, dove sorgevano i magazzini più grandi di Roma e del Mediterraneo. Questi nascevano inizialmente come strutture private legate ai nomi di importanti famiglie di imprenditori, in seguito per lo più inglobate nella proprietà imperiale e quindi parte della grande macchina annonaria (è il caso, ad esempio, degli HorreaGalbana e degli HorreaLolliana) . Dell’affollata attività che si svolse in quest’area della Roma imperiale è testimone, come noto, il Monte Testaccio, alto 30 metri, 1500 metri di perimetro alla base, che venne a comporsi dall’età augustea per il sistematico accumulo di resti di anfore olearie giunte fin qui dalla Betica (Andalusia) (Aguilera Martin 2002).

Molto è ancora da verificare sulla destinazione dei singoli edifici legati all’Emporium. La più grande e celebre struttura, nota negli studi come Porticus Aemilia, è infatti interpretata sia come area commerciale che come arsenale militare (navalia) (Cozza -Tucci 2006; Hurst 2010; Arata-Felici 2011 ). I tre grandi cortili porticati rappresentati nella Forma Urbis alle spalle della Porticus Aemilia sono alternativamente identificati con gli HorreaGalbana o piuttosto come gli ambienti di servizio e alloggio dei numerosi lavoratori di questi magazzini imperiali che, sappiamo da testimonianze epigrafiche, erano inquadrati quasi militarmente in tre coorti (Rodríguez Almeida1977-78; Virlouvet 2005). Di sicuro in quest’area veniva custodita la maggior parte del grano e dell’olio consumato a Roma, ma anche molto altro, come ha rivelatolo scavo recente del nuovo Mercato di Testaccio (Sebastiani-Serlorenzi 2008 e 2011).

Aguilera Martin 2002 = A. Aguilera Martin, El monte Testaccio e la llanurasubaventina. Topografia extra portamTrigeminam, Roma 2002.

Arata-Felici2011 = F.P. Arata– E. Felici, Porticus Aemilia, navalia o horrea? Ancora sui Frammenti 23 e 24

b-d della Forma Urbis, in ArchClass62, 2011,pp. 127–53.

Coarelli1992 = F. Coarelli, Il Foro Boario, dalle origini alla fine della Repubblica, Roma 1992.

Colini 1986 = A.M. Colini, PortusTiberinus, in Il Tevere e le altre vie d’acqua del Lazio antico, Roma 1986, pp. 157–97.

Cozza-Tucci 2006 = L.Cozza – P.L.Tucci, Navalia, in ArchClass 57, 2006, pp.175-201.

Hurst 2010 = H. Hurst, Exceptions rather than the Rule: the Shipshed Complexes of Carthage and

Athensin D.J. Blackman – M.C. Lentini (a cura di), Ricoveri per navi militari nei porti delMediterraneo antico e medievale, Bari 2010, 32 s.

Keay 2012 = S. Keay, The Port System of Imperial Rome, in S. Keay (ed.), Rome, Portus and the Mediterranean (Archaeological Monographs of the British School at Rome), London 2012, pp. 33-67.

Rodríguez Almeida 1977-78 = E. Rodríguez Almeida, « CohortestresHorreorumGalbanorum », in RPAA, 50, 1977-78, pp. 9-25.

Sebastiani – Serlorenzi 2008 = R. Sebastiani -M. Serlorenzi, (a cura di), Il progetto del Nuovo Mercato di Testaccio, in Workshop di Archeologia Classica, 5, 2008, pp. 137-71.

Sebastiani – Serlorenzi2011 = R. Sebastiani – M. Serlorenzi , Nuove scoperte dall’area di Testaccio (Roma), Tecniche costruttive, riuso e smaltimento dei contenitori anforici pertinenti ad Horreae strutture utilitarie dell’età imperiale, in J. Arce – B. Goffaux (éd.), Horrea d’Hispanie et de la Méditerranéeromaine, Madrid 2011, pp. 67-95.

Virlouvet 2006 = C. Virlouvet, Encore à proposdesHorreaGalbana de Rome : entrepotsouergastules?

in CCG 17, 2006, pp. 23-60.

Il molo di Tor di Nona

Lo scalofluviale meglio notonel tratto settentrionale del Tevere fu messo in luce e poi distrutto alla fine dell’Ottocento all’altezza di Tor di Nona (possibile corruzione per “torre dell’Annona”), durante i lavori per costringere il fiume entro muraglioni. Fu rilevata allora la presenza di un grande molo in blocchi di tufo, lastricato in travertino e obliquo al fiume, insieme ad un notevole sistema ligneo di frangiflutti e di arginatura della sponda (Marchetti 1891). Sul molo, forse databile in età repubblicana (Pavolini 2005), fu costruito in età augustea un tempietto circolare con un altare di fine fattura, dedicato ad Ercole, divinità per eccellenza legataal commercio (La Rocca 1984, p. 62): agli attributi dell’eroe fanno riferimento infatti i tre capitelli (due in mostra) con pelle di leone.

Il molo riceveva i prodotti dell’entroterra etrusco, umbro e sabino, che discendevano il fiume su barche o zattere. Tra le merci dovevasbarcarea Tor di Nonamateriale da costruzione, legna, grano, olio e vino (Diosono 2008), anche se è discussa la collocazione di un portusvinariussuperior attestato dalle iscrizioni (Coarelli 1999, 156). Ugualmente incerta è la collocazione delle Ciconiae (oggi diremmo “le gru”), le attrezzature per lo scarico delle merci che dovevano dare un aspetto caratteristico a questo tratto della riva sinistra del Tevere (de Caprariis 1999).L’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) aggiunse il vino alla distribuzione annonaria; le botti di vino fiscale venivano sbarcate e trasportate dalle Ciconiaeal Tempio del Sole,che sorgeva nell’area dell’odierna piazza San Silvestro. Qui il vino veniva depositato, prima di essere vendutoa prezzo “politico”, ovvero calmierato, alla plebe annonaria (Vera 2006).

Coarelli 1999 = F.Coarelli, in E.M. Steinby(a cura di), s.v. PortusVinarius in LexiconTopographicumUrbisRomae, IV, Roma 1999, p. 156.

Coarelli 2015 = F.Coarelli,I mercati, il trasporto e il commercio dei prodotti alimentari nell’antica Roma, in questo volume .

de Caprariis 1999 = F. de Caprariis, I porti della città nel IV e V secolo d.C., in W.V.Harris (ed.), The Transformations of Urbs Roma in late Antiquity, Portsmouth1999, p. 217 ss.

Diosono 2008 = F. Diosono, Il commercio del legname sul Tevere, in F. Coarelli – H. Patterson (eds.),Mercator placidissimus. The Tiber Valley in Antiquity. New Research in the Upper and Middle River Valley, Roma 2008, pp. 251-83.

La Rocca 1984 = E. La Rocca, La riva a mezzaluna (Studi e Materiali del Museo della Civiltà Romana, 11), Roma 1984

Marchetti 1891 = D. Marchetti, Di un antico molo per lo sbarco dei marmi riconosciuto sulla riva sinistra del Tevere, in BCAR 1891, pp. 45-60.

Pavolini 2005 = C. Pavolini, Il fiume e i porti, in A. Giardina (a cura di), Roma antica, Roma 2005.

Vera2006 = D. Vera, Un’iscrizione sulle distribuzioni pubbliche di vino a RomaCIL, VI, 1785 = 31931, in Studi in onore di Francesco Grelle, Bari 2006, pp. 303-18.

L’Annona e il suo prefetto

Il rifornimento alimentare di Roma, l’Annona, rappresentava un’impresa logistica di grande complessità, che esigeva non solo annate di buoni raccolti, ma una macchina amministrativa ben funzionante. Poiché la fame è notoriamente la causa prima delle rivolte popolari, è evidente l’importanza politica di un’annona perfettamente organizzata, destinata a nutrire la popolazione più vasta e forse anche la più esigente dell’impero.

A capo dell’amministrazione annonaria, nell’8 d.C. Augusto aveva posto un magistrato di alto rango, il praefectus Annonae, un imprenditore che apparteneva alla classe dei cavalieri, veniva nominato direttamente dall’imperatore che lo pagava con le risorse del suo fiscus, restava in carica senza limiti di tempo e garantiva fedeltà assoluta, essendo revocabile in qualsiasi momento (Pavis D’Escurac 1976, 14-26).

Nei secoli dell’impero, il Prefetto dell’Annona curò l’importazione a Roma delle enormi quantità di grano (dalle 280.000 alle 420.000 tonnellate, a seconda dei calcoli) che ogni anno veniva versato dalle Provincie al fisco. Rifornire di frumento l’intera città, comportava la stipula di un gran numero di contratti con singoli imprenditori privati o anche con intere categorie di lavoratori (procuratori, trasportatori, armatori navali, autorità portuali, scaricatori, controllori, misuratori, proprietari di magazzini, mugnai e panettieri) che componevano la “filiera” del grano, dalla produzione al consumo. Per questo il prefetto si avvaleva di due “uffici” esteri, ad Alessandria d’Egitto e in Numidia, e con il tempo di uno stuolo di collaboratori, compreso un “procuratore all’Annona” operante ad Ostia, dove confluiva il grano fiscale.

Intorno al 140 d.C., tra il regno di Adriano e quello di Antonino Pio, il procuratore dell’Annona divenne responsabile anche dell’approvvigionamento dell’olio per Roma, che veniva importato dalla Betica, moderna Andalusia, e dall’Africa, nella misura di almeno 260.000 anfore, pari a circa 156.000 ettolitri ogni anno.

Pavis D’Escurac 1976 = H. Pavis d’Escurac, La préfecture del’annone, service administratif imperial d’Auguste à Costantin, Rome 1976.

Il Sarcofago dell’Annona

Il Sarcofago dell’Annona, apprezzato capolavoro rinvenuto nel primo tratto dell’antica via Latina, un tempo colorato e dorato come evidente da numerose tracce, è datato intorno al 270-280 d.C., l’indomani della grave crisi militare e politica della cosiddetta “anarchia militare”. Ai due estremi del sarcofago figurano due personificazioni: l’Africa, principale provincia frumentaria, con un copricapo a testa di elefante e le spighe in mano, e Portus, il bacino attrezzato a nord di Ostia dove approdavano le “onerarie” che trasferivano il grano a Roma. Portus è rappresentato come figura femminile con un faro in mano e una prua di nave ai piedi. Al centro del rilievo figurano il prefetto e sua moglie nel gesto della dextrarum iunctio, l’unione della destre che manifesta il vincolo coniugale. Tra di loro è stata riconosciuta Giunone Pronuba o Concordia, mentre meno certa è l’individuazione, alle spalle del prefetto, della figura con barba (il Genius del Senato o Oceano?). Tra quest’ultima e l’Africa si riconosce la Fortuna Annonaria o Frumentaria, identificata dalla cornucopia e dai due modii, le misure romane del grano, ai piedi. In posizione simmetrica si trova invece la personificazione di Ostia, con un timone sorretto con la sinistra e una “tessera frumentaria” alzata con la mano destra: è questa una delle rare figurazioni della tabella rettangolare consegnata ai circa 200.000 cittadini romani, maschi adulti e residenti nell’urbs, che avevano diritto alle distribuzioni gratuite di grano consegnato mensilmente presso la Porticus Minucia, nei pressi dell’odierno Largo Argentina, poi trasformate da Aureliano in distribuzioni giornaliere di pane in vari punti della città detti graduus.

A.Ambrogi, Il sarcofago cosiddetto dell’Annona, in Palazzo Massimo alle Terme. Le collezioni, a cura di R.Paris e C.Gasparri, Milano 2013, pp. 348-9

C. Virlouvet, Tessera frumentaria : les procédures de distributiondu blé public à Rome à la fin de la République et au début de l’Empire , Roma 1995.

Strade e veicoli

Strabone giudicava i Romani superiori ai Greci in tre cose: strade, acquedotti e rete fognaria (Geogr. V 3.8). Non è possibile dubitarne, visti i grandiosi resti di queste infrastrutture e dal momento che la rete stradale europea ricalca ancora sostanzialmente quella tracciata o integrata dai Romani. Altrettanto vero è che la rete viaria romana, realizzata a spese pubbliche, talvolta su terreni espropriati, spesso da manodopera militare, fu dettata dalla logica dell’espansione più che da quella commerciale. Ciononostante le strade romane integrarono la rete dei commerci laddove erano precluse vie più economiche: negli scambi interregionali, sulle corte distanze, nei valichi di montagna, dalle regioni interne alla costa, tra una via fluviale e l’altra, etc. I mezzi di trasporto più usati erano il cavallo, il mulo e l’asino, quando non ci si spostava a piedi, come i soldati. I veicoli erano invece molto vari, a seconda della funzionalità. Per il trasporto del grano o altre derrate alimentari si usava il plaustrum, a due ruote piene con cerchioni di ferro, trainato spesso da una coppia di buoi; il serracum con ruote più basse e più solide, per il trasporto di carichi pesanti; il carrus, per trasporti militari ma anche per grandi carichi.

R. Levrero, Vie commerciali marittime e terrestri. Il commercio internazionale dei Romani, Roma 2014

Pane e fornai

In un passo famosodella Storia Naturale (Nat. Hist. 18.19.83) Plinioricorda che i Romani erano vissuti a lungo mangiando puls, una polenta di farro tostato e macinato mescolata con latte e accompagnata da verdure o, più raramente, da carne. Il pane entrò a far parte della loro dietanel IV secolo, quando arrivò il grano nudo (triticum) da cui si poteva ricavare una farina adatta all’impasto, che veniva cotto in casa. Molto più tardi arrivarono i panettieri, i pistores, che si diffusero a seguito della concentrazione di masse urbane che avevano difficoltà a panificare tra le mura domestiche (Ampolo 1995). A Roma i primi fornai risalgono alla metà del II secoloa.C. e dunque Eurisace, il più noto di essi, realizzando la sua tomba-memorial tra il 30 e il 20 a.C. si colloca orgogliosamente al vertice di una professione in ascesa e senz’altro molto remunerativa (Soraci 2005). Non bisogna confondere i pistores con i nostri fornai: nella grande Roma del IV secolo ce ne erano 250, secondo i Cataloghi regionari(Ceparano 1998), e controllavano tutta la filiera della panificazione, dall’acquisto e molitura della farina alla distribuzione del pane, come testimonia il rilievo posto da Eurisace al coronamento del suo sepolcro, ancora oggi visibile presso Porta Maggiore. Dalla lettura del rilievo si evince che Eurisace doveva, con tutta proobabiltà, essere anche un panificatore per conto dello stato.

C.Ampolo 1995 = C. Ampolo, Pane antico: mulini, panettieri e città. Aspetti sociali della panificazione,

in O. Longo, P. Scarpi (a cura di), Nel nome del pane, Atti del Convegno Homo edens IV , Bolzano 1995, pp. 229- 243

Soraci 2005 = C. Soraci, Dalle frumentationes alle distribuzioni di pane. Riflessioni su una riforma di Aureliano, «Quaderni Catanesi di studi antichi e medievali», n.s., anno IV-V, 2005-2006, 345-437.

Ceparano 1998 = M.L. Ceparano, I pistrina nei Regionari di IV secolo, in Mélanges de l’Ecolefrançaise de Rome. Antiquité, CX, 2, 1998, pp. 917-927.

Olio

Nel mondo romano l’olio non serviva unicamente a scopo alimentare: grandi quantità di ne venivano consumate per l’illuminazione, il riscaldamento, la cosmetica, in ambito medico e nelle officine artigianali. Di conseguenza ne esisteva una gran varietà. Sembra ad esempio che in età augustea l’olio africano godesse di scarsa fama e fosse ritenuto, almeno da Plinio, buono più che altro per le lampade (Nat. Hist. XV, 1, 8). Quando invece si trattava di cibo, i buongustai mostravano una netta preferenza per l’olio italiano: quello che veniva prodotto in Liguria, oppure nell’Istria, ma soprattutto quello di Venafro, nell’odierno Molise. Quest’ultimo doveva essere “un’eccellenza” se lo raccomandano Orazio, Marziale, Giovenale, lo stesso Plinio e persino il greco Strabone, che si riferisce a Venafro come alla località da cui “proviene l’olio migliore” (Geogr. V, 3, 10).

Le cose tuttavia stavano diversamente a livello di consumi di massa: la collina delle anfore di Testaccio, una discarica di frammenti di milioni di anfore accatastati tra il I e il III secolo d.C. in prossimità dell’Emporium di Roma, testimonia un’importazione massiccia di olio proveniente dalla Betica, l’odierna Andalusia. In effetti l’olio spagnolo dovette dominare il mercato romano rivolto al consumo popolare, alimentare e non, per tutto il primo secolo dell’impero, per poi essere affiancato e infine cedere il passo all’olio africano nel corso del II secolo d.C. (Pacetti – Vitti 2015). Cosa aveva potuto trasformare l’olio africano, che aveva sofferto una pessima letteratura, sicuramente eccessiva, nell’olio più commerciato e consumato persino a Roma?

Era accaduto che l’espansione romana in Africa aveva dato inizio alla trasformazione del suo paesaggio agrario a partire dall’Africa proconsularis, la provincia senatoria che comprendeva le odierne Tunisia e Algeria orientale (Africa romana 1998). Qui l’agricoltura era stata praticata in modo intensivo e molto raffinato, come scrive Plinio, ma unicamente nelle oasi : “ … sotto le palme, che sono gigantesche” (Nat. Hist. XVIII, 51). Ma i Romani, o meglio le non molte famiglie senatorie che si spartirono i territori vinti, miravano a un ben diverso sfruttamento agricolo. E poiché la tecnica per impiantare coltivazioni estensive di olivi e ricavarne olio con massimo rendimento era già stata messa a punto in Italia (e rimarrà sostanzialmente la stessa fino alla moderna industria olearia) i Romani iniziarono a incentivare l’olivicoltura africana a partire dai contratti agricoli (Fentress 1990) e poi con leggi ed esenzioni (Vismara 2007) prima nell’entroterra cartaginese, quindi in Tripolitania (Libia) e Mauritania (Marocco). Quando poi Settimio Severo (197-211 d.C.), un africano nato e cresciuto a Leptis Magna, concesse distribuzioni gratuite di olio alla plebe romana, si può essere sicuri che quello che i cittadini dell’Urbe ritiravano quotidianamente presso le mensae olearie disseminate in città era olio africano (Vismara 2007, 24).

Pacetti – Vitti 2015 = Pacetti, Francesco; Vitti, Massimo, Le anfore: una testimonianza della storia economica e del commercio alimentare, infra alle pp. ….

Africa romana 1998 = L’Africa romana, Atti del XII convegno di studio, Olbia, 12-15 dicembre 1996, a cura di M.Khanoussi, P. Ruggeri e C.Vismara, Sassari 1998.

Fentress 1990 = Fentress, Elizabeth, Agricoltura, economia rurale e trasformazioni del paesaggio agrario, in S.Settis (a cura), Civiltà dei Romani. La città, il territorio, l’impero, Milano 1990, pp. 139-152

Vismara 2007 = Vismara, Cinzia, L’Olio africano: le fonti letterarie ed epigrafiche: le immagini, in Vismara, Cinzia (a cura di), Uchi Maius 3: i frantoi: miscellanea, Sassari 2007, p. 19-28.

Vino

Tra la fine della repubblica e i primi secoli dell’impero il vino si trasforma da bevanda consumata da élite privilegiate in bene di largo consumo, fino a diventare, a partire da Aureliano (270-275 d.C.) oggetto di distribuzioni a prezzo ribassato, di cui erano beneficiari quei circa 200.000 romani che già percepivano gratuitamente grano e olio.

Il consumo quotidiano e generalizzato del vino a Roma e in tutto l’impero fu possibile grazie allo sviluppo della sua produzione intensiva su vasti fondi, che vennero impiantati non più solo in centro Italia – dove già dal II secolo a.C. grandi vigneti venivano coltivati intorno ad una villa padronale e lavorati da schiavi specializzati, residenti nella pars rustica della villa – ma soprattutto nelle provincie, specialmente quelle della Spagna tarragonese e della Gallia (Fentress 1990). Dai porti sul Mediterraneo ispanici e gallici, ma anche da quelli della Grecia, dell’Anatolia (Asia Minore) e della Mauretania (Marocco), dai primi secoli dell’impero cominciarono a partire navi che trasportavano il vino in anfore verso i maggiori centri di consumo, ovvero le maggiori città del Mediterraneo, Roma in testa con un consumo formidabile, valutato tra 1.600.000 e 2.000.000 di ettolitri l’anno (Tchernia 1986, 21 e sgg., Tchernia 2000).

L’entrata del vino nella vita quotidiana degli abitanti dell’impero – ferma restando la distinzione tra i grands crus riservati alle élite e il vino del popolo e dell’esercito, con tutte le tappe intermedie – va dunque inquadrata in fenomeni più ampi, come lo sviluppo di grandi centri urbani, non solo Roma, intorno al Mediterraneo, il diffondersi delle coltivazioni intensive, la possibilità di commercio marittimo su larga scala, l’unità monetaria e politica che favoriva gli scambi e, non ultimo, il fatto che il vino costituiva un apporto calorico fondamentale nella dieta romana. Al punto che, quando a Roma correvano voci su una possibile futura scarsità di vino, la plebe poteva insorgere contro coloro che controllavano il suo approvvigionamento, come accade nell’anno 377 contro l’autorevole (e a quanto pare innocente) prefetto dell’Urbe Lucio Aurelio Simmaco, che si vide bruciare la casa (Ammiano Marcellino, Res Gestae xxvii.3.3-4) da una plebe che qualche anno più tardi avrebbe chiesto la punizione dei fomentatori (Mazzarino 1980, 411).

Fentress 1990 = Fentress, Elizabeth, Agricoltura, economia rurale e trasformazioni del paesaggio agrario, in S.Settis (a cura), Civiltà dei Romani. La città, il territorio, l’impero, Milano 1990, pp. 139-152.

Tchernia 1986 = Tchernia, André, Le vin de l’Italie romaine. Essai d’histoire économique d’après les amphores, Rome 1986.

Tchernia 2000 = Tchernia, André, “Subsistances à Rome: problèmes de quantification”, in Claude NICOLET, Robert ILBERT, Jean-Charles DEPAULE (a cura), Mégapoles méditerranéennes. Géographie urbaine rétrospective, Maisonneuve, Rome-Aix-en-Provence-Paris, Ecole française de Rome 2000, 751-760

Mazzarino 1980 = Mazzarino, Santo, Il basso impero. Antico, tardoantico ed era costantiniana, Bari 1980

Garum

Il garum era una salsa a base di pesce, salata e lasciata macerare lungamente al sole, ampiamente usata nella cucina romana come esaltatore del gusto. Il suo odore era notoriamente pessimo, tanto che Marziale scherza alle spalle di un amico capace di frequentare donne amanti del garum (Epigr. XI, 27, 2). Ciononostante i Romani erano disposti a sborsare cifre notevoli per procurarsi le sue varietà più prelibate, il che spingeva Seneca a mettere in guardia i giovani contro “la preziosa poltiglia di pesci andati a male” (Ep. XV, 95.25). Inutilmente, perché il garum, benché costasse poco meno di un profumo, occupò il quarto posto nel commercio degli alimenti a lunga conservazione, e i Romani lo trovavano, probabilmente a ragione, exquisitus (Plinio N.H., 31.93). Da Plinio e Marziale sappiamo inoltre che a Roma il garum più apprezzato era quello detto “sociorum” che veniva dalla Betica (Spagna) ed era a base di sgombro. Le più note fabbriche di garum ispaniche erano collocate nei pressi di Cadice, appena a nord dello stretto di Gibilterra, dove l’Atlantico era particolarmente ricco questa varietà di pesce. Altro grande centro di produzione fu Pompei, il cui garum contendeva la fama ai migliori del Mediterraneo, prodotti oltre che in Spagna, sulle coste africane dell’attuale Libia e del Marocco (Plinio, Nat. Hist., 31, 94). La cosiddetta “Officina del Garum” (I,12,8), scoperta a Pompei nel 1960, sembra testimoniare che qui il pesce impiegato per il garum fosse lo “zerro” (spicara smaris), pesce piccolo e molto comune sui fondali di posidonia, che veniva utilizzato intero (Carannante 2008).

Il garum era così diffuso e popolare da essere considerato parte integrante della dieta dei legionari di stanza ai confini dell’impero. Sembra ad esempio che garum di ottima qualità venisse importato dalla Betica in Britannia e qui distribuito ai legionari a titolo gratuito, insieme agli altri alimenti di base. (K.M.Spence 2006). Bisogna infine tener conto che il garum era impiegato largamente in medicina per le sue qualità cauterizzanti e disinfettanti, come testimonia Galeno, medico romano, che ne indica trentadue diversi usi (Galeno 1.1.42-43, citato da Curtis 1984,430)

K.M.Spence 2006 : K.M.Spence, Reconstructing the Garum Trade From Roman Provincial Hispania Baetica to Britannia, in https://www.academia.edu/1454627/Reconstructing_the_Garum_Trade_From_Roman_Provincial_Hispania_Baetica_to_Britannia_Transport_Amphorae_Bear_Physical_Testimony_by_Karen_M._Spence)

Carannante 2008 = Carannante, Alfredo, L’ultimo garum di Pompei. Analisi archeozoologiche sui resti di pesce dalla cosiddetta “Officina del garum”, in Automata, Anno III-IV (2008-2009) Fasc. 1.

R. I. Curtis 1984: R.I. Curtis, Salted Fish Products in Ancient Medicine, in Journal of the History of Medicine and Allied Sciences, XXXIX, 4, p. 430-445

Agricoltura in area vesuviana

In età imperiale, sia il suburbio di Roma che la ricca Campania apparivano come una distesa ininterrotta di terreni coltivati e fattorie. Le tecniche agricole che vi erano praticate ci sono note dalla Naturalis Historia di Plinio, ma soprattutto grazie ai trattati di agronomia (di Catone, Varrone, Columella e Palladio) che insegnavano a realizzare profitti dalla coltivazione della proprietà terriera. I loro scritti trovano riscontro negli scavi delle fattorie (villae rusticae) che erano alla base dell’economia del I sec. d.C.

Nell’area vesuviana, dove la fertilità dei suoli permetteva più raccolti annuali, le villae rusticae erano numerose, sia come centri di produzione e trasformazione di derrate alimentari, sia che ospitassero anche la residenza di lusso del proprietario. La villa nasceva essenzialmente per la produzione del vino, ma aveva anche coltivazioni destinate all’autoconsumo. Accanto ai vigneti troviamo dunque campi di cereali e leguminose, oliveti per l’olio ad uso locale, prati per piccoli allevamenti, frutteti ed orti.

Uno degli esempi più significativi è la Villa della Pisanella, ritrovata a Boscoreale, presso Pompei, di cui si espone il plastico ricostruttivo. La dimensione dei locali destinati alla lavorazione e conservazione del vino attesta che questa era la produzione agricola principale, ma la presenza di torchi per olio, di un granaio, di un forno con macina, di contenitori con cereali e di un’aia, ci dicono che le colture erano diversificate, per garantire, oltre al guadagno, anche l’autonomia economica del complesso rurale. Gli strumenti agricoli utilizzati erano realizzati in legno, in ferro o nei due materiali, con perdita quasi totale delle parti in legno e deterioramento di quelle in ferro: vanghe e pale; picconi e zappe; falci, falcetti e roncole; rastrelli a 4, 5 o 6 denti. Nella Villa della Pisanella sono stati rinvenuti 2 falci da fieno, frammenti di falci più piccole e 2 roncole.

Ma quali ortaggi e quali frutti coltivavano i pompeiani?

I Romani dei tempi più antichi erano quasi del tutto vegetariani, tanto che Plauto li chiamava “mangiatori di erbe”. Questo spiega la varietà degli ortaggi: rape, carote, ravanelli, agli, cipolle, porri, zucchine, cetrioli, asparagi, carciofi, cavoli, insalate e vari tipi di legumi per il giusto apporto di vitamine, sali minerali e fibre. Tra i frutti, oltre la vite, introdotta in Italia dai Greci ma forse già presente in forma selvatica, erano coltivate varietà di mele, pere, pesche, agrumi (arance, limoni, limette e cedri), fichi, melagrane, ciliegie, susine, e sorbe.

M. Borgongino – G.Stefani, Agricoltura in area vesuviana, infra.

Un magazzino nel suburbio pompeiano

A Oplontis, presso l’attuale Torre Annunziata, si trova il complesso detto villa B, destinato a funzione commerciale.Come la vicina villa A, lussuosa residenza d’otium, la villa B si affacciava sul mare, ma ad una quota più bassa rispetto alla residenza. L’imponente edificio, d’impianto databile tra la fine del II e l’inizio del I sec. a. C, si sviluppa intorno ad un cortile porticato di 9×4 colonne di tufo grigio, a due ordini, con fusti lisci e capitelli dorici. Intorno al cortile si apre una serie di ambienti a pianta quadrangolare, disposti su due piani. Il cortile costituisce il cuore del complesso e i suoi ambienti erano adibiti a funzioni di deposito, come dimostrano le tracce di numerazione dipinta in lettere capitali di colore rosso a fianco delle porte. L’intero complesso trova confronto con horrea (magazzini destinati alla conservazione e distribuzione delle derrate alimentari) di Roma, Porto, Puteoli e di Ostia, dove l’horreum di Ortensio è il più vicino al nostro edificio.

L’attività che si svolgeva in questo spazio è chiarita dal rinvenimento di un notevole numero di anfore, più di quattrocento, per la maggior parte vinarie, disposte in ordinate piramidi nel portico, e dalla presenza di un fornello su cui era una pentola di bronzo, fissata alla colonna da una catenella, contenente resti di pece destinata alla picatura, l’impermeabilizzazione dei contenitori di terracotta attraverso il rivestimento della superficie interna con pece. Nel cortile le anfore venivano lavate, impeciate e riempite con vino trasportato dalle campagne con il culleo, il carro munito di otre vinario. Una volta preparate per la spedizione, le anfore venivano contrassegnate col il nome del destinatario e l’indicazione del contenuto: a tale scopo era utilizzato il calamaio rinvenuto nello scavo.

Gli ambienti intorno al cortile erano destinati a contenere merci diverse e in generale più pregiate, quali anfore di vini provenienti dalla Grecia insulare e da Creta, destinate all’élite cittadina. Tra le merci conservate si segnalano circa sette metri cubi di melograne messe a seccare tra stuoie di paglia. Forse venivano usate per estrarre dalla loro buccia il tannino, sostanza che trovava molte applicazioni, compresa la manipolazione del vino. Una splendida cassaforte in legno, rivestita di fasce bronzee e decorata con applique ed intarsi in argento, rame e bronzo dorato, è firmata “Pythonymos, Pytheas e Nikokrates, operai di Herakleides, fecero”. E’ stata rinvenuta nel lato est del portico, forse abbandonata nei concitati momenti della fuga.

I recenti studi sulla line di costa antica hanno evidenziato che il magazzino di Oplontis era probabilmente dotato di un approdo. Tale possibilità sembra confermata dal rinvenimento di un gruppo fuggiaschi che si erano raccolti in uno degli ambienti a volta del lato sud in attesa di soccorso, accanto a casse contenenti i loro beni, monete e monili in oro.

Il consumo di carni

Pecore e capre costituivano una risorsa alimentare primaria su tutto il territorio imperiale, ma non tanto per la carne quanto per il latte, che veniva trasformato quasi tutto in formaggi. Naturalmente i piccoli di questi animali finivano sulle tavole meglio fornite, ma anche la carne dei capi adulti veniva consumata, una volta completato il ciclo produttivo dell’esemplare, su mense in genere meno esclusive.

La fonte di carne più diffusa e apprezzata era però il maiale, che i romani sapevano preparare secondo una grande varietà di ricette. Il solo Plinio ne riporta cinquanta (NH 8,77). Il maiale richiede poche cure, mangia di tutto e può essere allevato nei boschi allo stato brado. Dai romani veniva allevato sia brado sia, con tecnica industriale, all’interno di recinti, dove la scrofa figliava una mezza dozzina di maialini per anno.

Sotto l’imperatore Aureliano (270 – 275) la carne di maiale cominciò ad essere distribuita gratuitamente e con regolarità ai cittadini romani che già godevano della distribuzione di pane e olio gratuiti, nonché di vino a prezzo “politico”. La carne suina distribuita era quella che il fisco riscuoteva come tassa in natura sia dagli allevatori dell’Italia centrale e meridionale, nel qual caso i maiali giungevano a Roma sulle loro zampe, perdendo di peso, sia dagli allevatori sardi, che li imbarcavano su navi attrezzate. Si calcola che a Roma, nei mesi invernali, la carne di suino macellata e distribuita gratuitamente ammontasse a circa 10 tonnellate ogni giorno (G. Barker 1990, p.155). In questo modo ogni avente diritto ne riceveva complessivamente circa 8 chilogrammi in 5 mesi, un non trascurabile apporto proteico alla sua dieta. Si ritiene che le macellazioni e le distribuzioni avvenissero nel forum suarium, un’area localizzata tra il Pincio e l’odierna piazza Santi Apostoli.

I bovini erano invece considerati animali da lavoro per la loro insostituibile capacità di traino. L’importanza dei buoi per l’aratura rendeva secondario il consumo della loro carne, come dimostrano Catone e poi Columella quando consigliano all’agricoltore di tenere da parte granaglie non per la famiglia umana, ma per la coppia bovina che a settembre avrebbe dovuto tirare l’aratro. Buoi e mucche allevati in epoca romana erano inoltre di taglia notevolmente inferiore a quella attuale: mediamente 115 cm al garrese contro i 140 cm di un’odierna mucca da latte. Naturalmente esistevano razze che facevano eccezione, ma il peso medio di un bovino adulto viene calcolato, sulla base dei ritrovamenti ossei, intorno ai 250 chili contro i 700 che può raggiungere oggi un esemplare adulto.

Pollame e uccelli integravano la dieta romana, sia allevati in cortile, come galline, oche, anatre e piccioni, sia catturati da uccellatori, che li rivendevano nei mercati locali. Del resto bisogna considerare che caccia e pesca, liberamente esercitate nel tempo libero, dovevano costituire un’importante fonte integrativa sia per le classi più povere, sia per il piacere dei ricchi, sulle cui mense arrivavano in gran quantità cinghiali, lepri, pernici, fagiani, cervi, caprioli, ma anche ghiri, gru, rane e lumache.

Il cibo “di strada”

Un elemento tipico del paesaggio urbano erano i negozi – i thermopolia o popinae e le cauponae – in cui il cibo preparato (zuppe, carni, pesci, frutta secca etc.) veniva venduto e consumato. Queste rivendite a volte erano associate ad hospitia e stabula destinati ad ospitare i viaggiatori e i loro animali. Secondo recenti studi a Pompei erano circa 90 ed occupavano una superficie di 1,7 ettari, pari al 4% dell’area finora messa in luce. Queste osterie-trattorie-ristoranti-alberghi sono spesso riconoscibili per il loro tipico aspetto: un grande varco d’ingresso, protetto di notte da una griglia a coulisse, consentiva un comodo accesso ad un bancone che conteneva murati i dolia , grandi recipienti in cui erano conservati i cibi. Su un lato del bancone stava un espositore a gradini su cui si sistemavano i vasi con i diversi cibi ed un fornello per riscaldare la pietanza prima di servirla. La presenza nei locali di un altare – per lo più dipinto coi Lari protettori, spesso associati a Mercurio o a Fortuna – assicurava il cliente sulla protezione degli dèi e dell’onestà dell’oste. Interessante è la sistemazione degli annessi con i magazzini, talvolta una piccola cella vinaria di doli interrati, spesso la cucina e soprattutto una o più stanze (cellae meretriciae) per incontri con donne o uomini messi a disposizione dal gestore. Né mancava il piacere del gioco, testimoniato dal rinvenimento di dadi (talvolta truccati) e da pitture con vivaci scene ludiche.

Tempi e modi del mangiare “alla romana”

La colazione del primo mattino (ientaculum), a base di pane, formaggio e uova, era seguita in genere da due tipi di pasto: la colazione di mezzogiorno (prandium) e la cena (cena).

Il prandium,necessario per rifocillarsi dopo le attività lavorative, eraun semplice spuntino spesso consumato da soli in casa, in piedi o seduti su sgabelli, mangiando cibi freddi e rapidi o i resti della cena precedente, oppure lo si acquistava per strada, da venditori ambulanti o nei luoghi di ristoro pubblico (thermopolia e popinae).Il termine prandium indicava anche il pasto serale dell’uomo solitario, del soldato in guerra o quello unico delle famiglie in lutto.

La cena si consumava verso le tre o le quattro del pomeriggio, dopo essere stati alle terme, e spesso era occasione di riunione fra amici (convivium), che lavati e distesi, liberi dagli affanni del mattino potevano dedicarsi ai piaceri dell’otium. Se una cena in famiglia o fra pochi amici intimi comprendeva in genere un antipasto e un piatto di carne, in occasione di veri e propri banchetti il pasto era molto più articolato e le pietanze anche molto elaborate: ab ovo usque ad mala, ossia dalle uova, l’inizio delle portate, fino alle mele, che ne chiudevano la serie. Si cominciava con l’antipasto costituito da uova, olive, frutti di mare e verdure, detto gustatio o promulsis, dal nome del vino mielato, mulsum, che accompagnava i cibi. Seguivano poi varie portate di carne e pesce, gli arrosti di cacciagione e i piatti elaborati (mensa prima o caput cenae). Chiudevano il pasto le secundae mensae, ossia i dolci e la frutta, e ci si attardava poi a conversare bevendo.

Fuori casa presso i thermopolia e le popinae si potevano acquistare a prezzo contenuto cibi pronti oltre a vino caldo o freddo. Molto apprezzate erano le focacce calde, si potevano avere poi le uova, sia sode che fritte, assieme a pezzi di carne essiccata e salsicce, che costituivano anche un rapido pranzo da consumare alle terme, e poi formaggio per una veloce colazione di viaggio insieme al pane. Nerone aveva vietato la vendita di alcuni cibi cotti serviti nelle popinae, a favore altri, soprattutto legumi e verdure. Alcuni cibi come la “grassa trippa” e, in genere, le interiora erano molto graditi al popolo perché saporiti e di costo contenuto e probabilmente questi cibi venivano sia acquistati per essere cucinati a casa, che venduti nelle osterie.

M.P. Guidobaldi, La preparazione e il consumo del cibo nella sfera privata: spazi, tempi e modi, infra

C. Cerchiai, Cibi di lusso e piatti dei poveri nella Roma imperiale, infra

I Triclini

Nelle dimore signorili la stanza adibita a sala da pranzo era il triclinio, nome che deriva dai tre letti (klinai) sui quali i commensali si distendevano per mangiare, secondo un uso derivato dal mondo greco, disposti a ferro di cavallo attorno a una mensa la cui posizione è spesso indicata sul pavimento della sala da un disco di marmo. I letti tricliniari potevano essere mobili, con montanti e intelaiatura di legno e parti ornamentali in bronzo e argento, oppure, nelle sale da pranzo all’aperto affacciate sui giardini e protette da pergolati o leggere tettoie, i cd. triclini estivi, essere realizzati in muratura e con piani inclinati, resi confortevoli da cuscini e coperte pregiate. I tre letti, disposti a ferro di cavallo, erano detti, da destra a sinistra, summus, medius e imus; ogni letto accoglieva tre persone e i tre posti erano detti locus summus, medius e imus, ove la distribuzione dei posti spettava al proprietario di casa: all’ospite di maggiore riguardo era riservato il posto all’estremità inferiore del medius, detto locus praetorius, mentre il padrone di casa occupava il primo posto dell’imus.

Dimensioni, ricchezza degli apparati decorativi e degli arredi variano in rapporto al lusso delle abitazioni. A Pompei, come a Ercolano, si assiste anche alla duplicazione delle sale da ricevimento (gli oeci), di dimensioni così vaste da poter accogliere un numero maggiore di letti tricliniari e lasciare spazio sufficiente per inservienti, musici e artisti che potevano allietare i commensali. Alcuni affreschi da Pompei, come il quadro con scena di banchetto dalla Casa del Triclinio esposto in mostra, o come quello dalla Casa dei Casti Amanti, restituiscono una vivida immagine dell’atmosfera delle cene conviviali, che potevano coinvolgere interi settori dell’abitazione articolati attorno al giardino, come dimostrano i gusci di frutti di mare simili alle arselle, gustate dai convitati della Casa IX 12,9 di Pompei mentre passeggiavano lungo i vialetti del giardino e lanciati tra le aiuole (M.P. G.).

M.P.Guidobaldi, La preparazione e il consumo del cibo nella sfera privata: spazi, tempi e modi, infra

Gli argenti di Moregine

Nell’ottobre del 2000, durante la realizzazione della terza corsia dell’autostrada A3, in località Moregine, nel comune di Pompei, è stata rinvenuta una gerla di vimini. Si trovava in una latrina posta nell’area di passaggio tra il nucleo neroniano di un edificio e le sue terme. La gerla appariva riposta da qualche fuggitivo, nelle ore convulse che precedettero l’eruzione, sotto altri oggetti di uso comune. Era ben conservata, chiusa da un coperchio e ricolma di terra e cenere compattata. Portata in laboratorio fu oggetto di analisi radiografiche quindi svuotata con un’operazione di microscavo. Al suo interno, stipato con accuratezza, un piccolo ma completo servizio di argenti da tavola di 20 pezzi: è infatti rappresentato sia l’argento da portata (escarium) che quello per i liquidi (potorium). I pezzi erano riposti impilati, in modo da sfruttare al massimo lo spazio disponibile e forse avvolti in un panno, così da rivelarsi in ottimo stato di conservazione, fatta eccezione per la lanx usata come contro chiusura della gerla. Con un peso complessivo di 3850 grammi, il servizio rappresenta l’ultimo del genere rinvenuto in area vesuviana. I grafiti sul fondo degli argenti ci restituiscono, tra altre informazioni, il nome del proprietario: Erastus (Erasti sum). La maggior parte dei pezzi sembra databile all’età augustea, mentre i due canthari e la lanx paiono attribuibili ad un periodo antecedente: essi potrebbero rappresentare l’argentum vetus di famiglia (A.M.S).

A.M. Sodo, Gli argenti di Moregine , infra.

L’ospite indesiderata

Sic erimus cuncti, postquam nos auferet Orcus. Ergo vivamus dum licet esse bene

Così saremo tutti, dopo che la morte ci rapirà. Perciò godiamocela, finché possiamo.

(Petronius, Satyr. 34.10)

Facendo piangere Trimalcione sulla caducità della vita e sull’illusione di tutti piaceri, Petronio si prendeva gioco di quel nuovo ricco che era il protagonista del più famoso dei banchetti letterari romani. E tuttavia quello che Petronio parodiava era un uso reale nel corso delle cenae in cui il vino correva abbondante: la riflessione sulla morte all’apice della festa della vita e dunque l’invito al carpe diem.

La morte, variamente rappresentata, compariva sui pavimenti dei triclinia più ricchi, sotto forma di emblemata a mosaico, sulle coppe da vino come “danza degli scheletri”, ma anche sotto forma di larvae conviviales, vale a dire scheletrini snodabili, solitamente in bronzo (ma quello che Trimalcione getta più volte sulla tavola era d’argento), esibiti nei banchetti.

Sulle coppe argentee di Boscoreale gruppi di scheletri, rappresentanti di filosofi illustri, erano affiancati da scritte che invitavano al piacere: “Godi, finchè sei in vita, il domani è incerto”, e ancora “La vita è un teatro”, oppure “Il piacere è il bene supremo”.

Il vino ispirava i convitati a parlare con la duplice voce di Dioniso: l’esaltazione vitale e l’estasi, ma anche il senso di annullamento che le fa seguito. In questo modo i Romani declinavano, sopra uno sfondo epicureo, l’associazione tra banchetto e morte presente in ogni cultura.

K.M.D. Dunbabin, Sic erimus cunctis: the skeleton in graeco-roman art, in Jahrbuch des Deutschen Instituts, 1986, 11, 185-255.

L’Editto di Diocleziano

L’editto dei prezzi (Edictum Diocletiani et Collegarum de pretiis rerum venalium) che Diocleziano volle emanare nel 301 d.C. fissava il tetto massimo dei prezzi delle merci che circolavano, dei salari pagati e dei servizi erogati nei territori controllati da Roma. Si trattava di una misura concepita come risposta alla crisi politica dell’inizio del III secolo, quando più pretendenti all’impero si erano fronteggiati, battendo moneta in proprio e provocando svalutazione e inflazione. L’editto fa seguito ad altre misure prese da Diocleziono, come i decreti che intendevano riformare il sistema di tassazione e stabilizzare la moneta, e come quelli prevedeva pene severe per i contravventori, fino alla pena di morte. E’ noto che e suoi effetti sul piano economico furono negativi, provocando sia paralisi del commercio che mercato nero. Il suo valore documentale è tuttavia prezioso, fornendo una serie di informazioni sui prodotti e i commerci della sua epoca.

Di seguito alcune tabelle riguardanti i prodotti alimentari:

Equivalenze: 1 libbra = 327,45 grammi; 1 moggio italico = 8,754 litri; 1 moggio militare = 17,51 litri ; 1 sestario italico = 0,547 litri

-Frumento 1 moggio militare 100 denari

-Orzo 1 moggio militare 60 denari

-Lenticchie 1 moggio militare 100 denari

-Avena 1 moggio militare 30 denari

-Fave non

macinate 1 moggio militare 60 denari

-Fagioli secchi 1 moggio militare 100 denari

-Vino Falerno 1 sestario italico 30 denari

-Vino comune 1 sestario italico 8 denari

-Birra di frumento o di orzo 1 sestario italico 4 denari

-Olio di prima torchiatura 1 sestario italico 40 denari

-Olio di seconda qualità 1 sestario italico 24 denari

-Salsa di pesce, prima qualità 1 sestario italico 16 denari

-Salsa di pesce, seconda qualità 1 sestario italico 12 denari

-Sale 1 moggio militare 100 denari

-Miele, la migliore qualità 1 sestario italico 40 denari

-Miele, seconda qualità 1 sestario italico 24 denari

-Carne di maiale 1 libbra italica 12 denari

-Carne di bue 1 libbra italica 8 denari

-Polli 1 paio 60 denari

-Carne di cinghiale 1 libbra italica 16 denari

– Agnello per 1 libbra 12 denari

-Pesci di mare, di scoglio 1 libbra italica 24 denari

-Pesci, seconda qualità 1 libbra italica 16 denari

-Pesci salati 1 libbra italica 6 denari

-Sarde o sardine 1 libbra italica 16 denari

-Cavoli piccoli, prima qualità numero 5 4 denari

-Porri, misura massima numero 10 4 denari

-Bietole, misura massima numero 5 4 denari

-Rape, misura massima numero 10 4 denari

-Cipolle fresche, prima qualità numero 25 4 denari

-Aglio 1 moggio italico 60 denari

-Uova numero 4 4 denari

-Noci fresche, prima qualità numero 50 4 denari

-Albicocche numero 10 4 denari

-Pesche, misura massima numero 10 4 denari

-Mele, la migliore qualità numero 10 4 denari

-Prugne gialle, misura massima numero 30 4 denari

-Mele cotogne numero 10 4 denari

-Fichi, la migliore qualità numero 25 4 denari

-Datteri numero 25 4 denari

-Olive in salamoia numero 40 4 denari

-Latte di pecora 1 sestario italico 8 denari

-Prezzemolo 1 libbra 120 denari

-Zenzero secco 1 libbra 250 denari

-Pepe 1 libbra 800 denari

Salari

-Al bracciante agricolo, con vitto il giorno 25 denari

-Al muratore in pietra, con vitto il giorno 50 denari

-Al falegname intarsiatore, come sopra il giorno 50 denari

-Al marmista, come sopra il giorno 60 denari

-Al fornaio, come sopra il giorno 50 denari

-Al pittore figurativo, come sopra il giorno 150 denari

-Al fabbricante di pergamene

per un foglio piegato in quattro,

della misura di 1 piede quadrato,

di pergamena bianca o giallognola 40 denari

-Al sarto per taglio e guarnizione, per

Mantello con cappuccio di prima qualità 60 denari

-Al pedagogo, per ogni fanciullo il mese 50 denari

-Al maestro di lingua greca o latina

e al maestro di geometria, per ogni allievo, il mese 200 denari

-Al maestro di oratoria o al maestro

di eloquenza, per ogni allievo il mese 250 denari

-All’avvocato patrocinatore o al giurista,

onorario per l’istanza giudiziaria 250 denari

per il patrocinio 1.000 denari

M. GIACCHERO (ed.), Edictum Diocletiani et Collegarum de pretiis rerum venalium in integrum fere restitutum et Latinis Graecisque fragmentis, Genova 1974.

Tesoro di Hildesheim

I pezzi presentati sono copie galvanoplastiche in argento e oro, eseguite nel 1934, di originali appartenenti al servizio di argenteria noto come Tesoro di Hildesheim, scoperto nel 1868 presso l’omonima località, a circa 250 chilometri di distanza dal limes romano sul Reno. I reperti giacevano a circa 2 metri di profondità, probabilmente occultati in situazione di pericolo, come poteva avvenire in zona di confine.

I circa settanta pezzi recuperati, per la maggior parte di età augustea, formavano un servizio da tavola comprendente l’argentum escarium, vale a dire piatti per il consumo delle vivande e vassoi da portata, l’argentum potorium, ossia vasellame per i liquidi, e oggetti d’apparato particolarmente prestigiosi, destinati all’esposizione durante i banchetti. Alcuni di essi sono eccezionali per grandezza e rarità: un tavolino portatile composto da un tripode pieghevole con ripiano d’appoggio per il vasellame; un candelabro scanalato e decorato; un kantharos, fornito di alte anse a volute; un cratere interamente ricoperto da fine decorazione a rilievo, il cui originale perduto è documentato da copie come quella del Museo della Civiltà Romana (attualmente in mostra a Milano).

Uno dei pezzi più antichi è il lussuoso piatto d’argento parzialmente dorato, ornato da un emblema centrale, sorta di medaglione incastonato entro una corona di ovuli, con raffigurazione di Atena. Il piatto, insieme ad altre tre coppe con emblemata centrali, raffiguranti i busti di Eracle fanciullo in lotta con i serpenti, di Attis e di Cibele, può considerarsi uno dei pezzi più notevoli del servizio.

La decorazione degli altri pezzi del tesoro verte su temi naturalistici, tipici dell’età augustea.

Alla base dell’alimentazione

L’acqua è alla base del sistema alimentare romano, come di quello contemporaneo: la sua presenza consente il fiorire civiltà, il suo controllo scatena guerre.

Roma, sorta lungo il Tevere, naturalmente ricca di fonti e circondata da monti con grandi riserve idriche, si fece maestra di captazione, trasporto e distribuzione di acque di alta qualità e talvolta, come nel caso dell’acqua Marcia, di qualità eccezionale.

I romani costruirono i primi imponenti acquedotti ad arcate e, da questi rifornite, le prime monumentali terme pubbliche, riproponendo questi grandiosi monumenti in tutti i territori dell’impero.

Nella Roma augustea, Agrippa resse per circa vent’anni l’amministrazione delle acque e dopo aver edificato l’acquedotto Vergine e le prime terme pubbliche dietro il Pantheon, alla sua morte lasciò una familia publica aquaria di 240 tecnici tra servi e liberti. L’imperatore Claudio affiancò a questa una familia aquaria Caesaris composta da altri 460 addetti, compresi ingegneri idraulici e un gran numero di operai specializzati. Questi controllavano l’acqua di Roma al servizio di un magistrato, il curator aquarum, una delle più importanti cariche dello Stato, nominato direttamente dall’imperatore.

L’acqua era pubblica e solo l’imperatore tramite il curator poteva concederla a privati e officine. Alla fine del I secolo d.C. Roma contava 561 fontane e godeva di circa 600.000 metri cubi al giorno di approvvigionamento. Nel 235 d.C., sotto Alessandro Severo, la città era rifornita da 11 acquedotti che le davano circa 1 milione di metri cubi al giorno, volume che sarà di nuovo raggiunto solo nel XX secolo. Ancora oggi la Barcaccia, la fontana di Trevi, quelle di piazza Navona, del Pantheon e dell’Ara Coeli sono alimentate dalle fonti antiche dall’acqua Vergine.

Anche Pompei disponeva di 3 reti idriche indipendenti, che diramavano da un unico castellum aquae, un grande serbatoio presso Porta Vesuviana. La prima rete riforniva le fontane, la seconda gli edifici come terme e palestre, la terza le abitazioni dei benestanti. Le fontane di Pompei erano circa 50, disposte in genere agli incroci, in modo che non si dovessero percorrere più di qualche decina di metri per attingere l’acqua pubblica.

Testi e immagini forniti da Ufficio Stampa Zètema – Progetto Cultura

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