ELOQUENZA CICERONIANA: UNA LETTURA DELLA PRO MURENA
Nel panorama della letteratura romana, la figura di Marco Tullio Cicerone è cruciale sia per il peso delle sue opere, manifesto della sua profusa carriera politica e dei suoi studi, sia per l’eloquenza, che ha influenzato autori antichi e moderni.
Dell’Arpinate (appellativo che rimanda ad Arpino, città natale dell’Oratore, situata poco più a sud di Roma, nell’attuale provincia di Frosinone) ci sono giunte una serie di orazioni che rappresentano la più alta espressione della sua carriera di avvocato e strenuo difensore della Res Publica romana; tra queste spicca il discorso in difesa di Lucio Licinio Murena, Pro L. Licinio Murena, pronunciato tra il 9 novembre e il 3 dicembre del 63 a.C.
L’orazione si inserisce in un contesto sociale particolarmente turbolento della storia romana. Roma aveva da poco superato il periodo ‘sanguinario’ della guerra sociale (91 – 88 a.C.), prima, e della rivolta di Spartaco (73 – 71 a.C.), poi; nel 63 a.C., anno del discorso in difesa di Murena – come suddetto – la stessa Roma si trovava a dover fronteggiare l’ennesima minaccia, quella che, a detta di Cicerone, risultava essere, probabilmente, la più insidiosa, ovvero l’attentato alla Res Publica di Lucio Sergio Catilina.
Costui, di famiglia nobile, ma decaduta, dopo aver appoggiato Silla e aver messo in pratica l’eliminazione di tutti gli avversari politici attraverso le liste di proscrizione – quegli anni (82 – 79 a.C.) possono essere, a ragione, ascritti al periodo ‘sanguinario’ della storia romana – cercò, per ben tre volte, di raggiungere il consolato, la più alta e prestigiosa carica del cursus honorum cui un cittadino romano poteva aspirare.
Proprio nel 63 a.C. e poco dopo la fuga di Catilina da Roma (morirà in battaglia, nei pressi di Pistoia, nel 62 a.C.), avvenuta in seguito alla Prima Catilinaria (8 novembre del 63 a.C.) di Cicerone, Lucio Licinio Murena, vincitore alle elezioni del consolato per l’anno 62 a.C., insieme a Decimo Giunio Silano (per quello stesso anno, si era candidato per la terza volta lo stesso Catilina, smascherato dei suoi ingannevoli tentativi di accedere al consolato dallo stesso Cicerone), si trovava a dover fronteggiare diversi capi d’accusa che minavano la sua carriera politica.
Cosa sappiamo dello stesso Murena? Dalle fonti e, in particolar modo, dalla stessa orazione ciceroniana qui presa in esame, Lucio Licinio Murena apparteneva ad una famiglia plebea originaria di Lanuvio; inizialmente prestò servizio militare a fianco del padre nell’83 a.C. per poi cominciare il cursus honorum come questore. Nel 74 a.C. affiancò, come legato, Lucio Licinio Lucullo, nella terza guerra contro Mitridate, re del Ponto, distinguendosi per valore e coraggio. Tornato a Roma, ricevette gli onori che spettavano ai vincitori e nel 66 a.C. fu eletto pretore urbano. Dopo la parentesi come propretore, nel 65 a.C., nella provincia romana della Gallia Narbonese, presentò, nel 63 a.C., la propria candidatura, forte del favore ricevuto dopo la guerra mitridatica, al consolato per l’anno 62 a.C.
L’elezione al consolato di Murena fu particolarmente travagliata dal momento che allo stesso venivano imputati diversi capi d’accusa che ne compromettevano la figura, al tempo molto vivida tra il popolo romano. Ma quante e quali erano le accuse che pendevano sull’imputato? Dall’orazione ciceroniana si deduce che su Murena pesavano fortemente giudizi negativi legati alla corruzione e al broglio elettorale. È da sottolineare che, a Roma, da tempo si era tentato di porre un freno ai brogli elettorali, a coloro che prezzolavano il pubblico per accaparrarsi voti. Sin dal 181 a.C. con la Lex Cornelia Baebia, nel 67 a.C. con la Lex Calpurnia e, infine, nel 63 a.C. con la Lex Tullia, quest’ultima fatta approvare dallo stesso Cicerone, si era passati da un iniziale pena che prevedeva per gli accusati il divieto di presentarsi alle pubbliche magistrature per dieci anni (Lex Cornelia Baebia), all’interdizione totale dalle magistrature con l’aggiunta di una multa (Lex Calpurnia) per arrivare, infine, a punire l’accusato con l’esilio (Lex Tullia) -.
I più fervidi accusatori di Murena furono Servio Sulpicio Rufo e Marco Porcio Catone (colui che sarà, in seguito, definito Uticense); il primo era coetaneo di Cicerone, nacque, infatti, nel 105 a.C., un anno dopo l’Arpinate, ed era un valente oratore. Sulpicio Rufo aveva condiviso con Lucio Licinio Murena alcune cariche politiche del cursus honorum, ovvero la questura, nel 75 a.C., e la pretura, nel 65 a.C.; come lo stesso imputato, aveva presentato la propria elezione al consolato per l’anno 62 a.C., appoggiato dallo stesso Cicerone, uscendone, però, sconfitto. Sulpicio Rufo si mostrò poco delicato nei confronti dell’accusato, riferendo che non soltanto egli s’era macchiato di broglio elettorale, ma non era, altresì, degno, rispetto ad egli stesso, di candidarsi al consolato. Sul secondo accusatore non necessitiamo di presentazione; Catone era, in quegli anni, probabilmente una delle figure più di spicco nel panorama politico romano, fervido difensore della Res Publica, del Senato e improntato alla filosofia stoica che fondava sulla durezza e l’integrità dell’anima il suo precetto; costui, sulla scorta delle accuse mosse da Sulpicio Rufo, che si era prodigato nella ricerca di testimonianze che potessero incastrare Murena, voleva che la pena col conseguente esilio previsto dalla Lex Tullia venisse applicata.
A questo punto Cicerone si trovò a dover fronteggiare, durante il suo discorso, una duplice difficoltà: da un lato, prendere le difese dell’imputato, dall’altro, confutare le accuse di broglio elettorale e ostacolare l’applicazione di quella legge che lui stesso aveva firmato col fine di condannare le condotte illecite durante le elezioni alle magistrature romane.
Lo stesso Cicerone era mosso da un senso di rispetto nei confronti di Murena che, a detta dello stesso oratore, era suo caro e fedele amico e sebbene mostrasse rispetto nei confronti di Sulpicio Rufo, anch’egli suo fidato e di Catone, non poteva esimersi dal difendere l’amico e politico. Nelle prime battute dell’orazione, Cicerone mostra all’uditorio e, soprattutto, agli stessi Sulpicio Rufo e Catone, di sentire particolarmente questa causa dal momento che si trovava a difendere, essendo egli console quell’anno, un imputato che si candidava al consolato e che avrebbe, probabilmente secondo le speranze dello stesso oratore, continuato la sua opera politica di difesa della Res Publica; infatti, nel capitolo 3 del suo discorso, Cicerone, rivolgendosi a Catone, afferma:
A quo tandem, M. Cato, est aequius consulem defendi quam a consule?
«Da chi mai, o Catone, può essere più giustamente difeso un console, se non da un console?»
L’Arpinate, in primo luogo, tenta di persuadere l’uditorio (e lo farà magistralmente!) manifestando la propria perplessità nei confronti delle accuse di Sulpicio Rufo relative alla scarsa dignità di Lucio Licinio Murena di accedere al consolato. Dopo aver presentato l’imputato e le sue memorabili gesta durante la guerra Mitridatica, non da meno rispetto alle altre combattute dai romani, e Cicerone tende più volte a sottolinearlo nel corso del suo discorso, l’Oratore difende l’accusato, presente davanti all’uditorio con vesti malconce (tipico a Roma quando si voleva spingere i giudici ad una maggiore commiserazione), riferendo che Murena non soltanto era la figura più adatta a ricoprire il ruolo di console l’anno successivo, ma che la sua dignità si era rivelata, soprattutto, durante le sue valorose campagne militari.
Lo stesso Cicerone, al principio del capitolo 14, pone l’accento sulla totale trasparenza e lealtà dei costumi di Murena:
Nihil igitur in vitam L. Murenae dici potest, nihil, inquam, omnino, iudices
«Nulla, dunque, può imputarsi ai costumi di Murena; assolutamente nulla, ripeto, o giudici».
Perché non concedere, dunque, all’arte militare pari dignità di quella oratoria in relazione a qualsiasi magistratura romana? Questa domanda riassume, in breve, uno dei concetti fondanti del discorso ciceroniano. L’accusa di Sulpicio Rufo, però, si sostanziava, anche, nella volontà di colpire il suo avversario dal punto di vista legale, imputandogli l’aver prezzolato il popolo e gli amici per accattivarsi la loro simpatia ed i loro voti, mettendo in pratica, così, quel meccanismo che a Roma era definito ambitus, ovvero ‘corruzione politica, broglio elettorale’, meccanismo che era, al tempo, fortemente osteggiato da chi, come Catone e lo stesso Cicerone, si diceva ‘difensore’ dell’integrità e del costume dei romani.
Ma in che modo Murena può aver corrotto il popolo? Questa è una delle ricusazioni che Cicerone muove agli accusatori. Se Murena, come presentato dall’Arpinate, era già celebre in Roma ed aveva un grosso seguito per le vittorie riportate nelle terre d’Asia, perché mai avrebbe dovuto comprarsi i voti dei cittadini romani? Ennesima domanda che spinge alla riflessione; le accuse di Sulpicio Rufo e dello stesso Catone poggiano su basi instabili e lo stesso Cicerone, ammettendo la propria ammirazione per i due ferventi accusatori, afferma che, in caso di testimonianze certe e veritiere sull’imputato, non avrebbe esitato a confermarne la condanna. Ed in più, durante il suo discorso, cerca di confutare e piegare alla commiserazione la durezza catoniana; l’Arpinate più volte mostra rispetto nei confronti dello stoico accusatore, ma cerca di smascherare l’infondatezza delle sue accuse. Nel portare avanti la sua perorazione e nel difendere l’imputato, Cicerone ammette che è quasi impossibile pensare ad un broglio elettorale semplicemente riferendosi alle elargizioni e alla totale generosità di Lucio Licinio Murena; non era, forse, questo un istituto tipico, come suddetto, nella Roma antica? E lo stesso Oratore chiede espressamente a Catone di non mettere sotto censura quella tipica usanza che tanto aveva contraddistinto la potenza di Roma:
Quare noli, Cato, maiorum instituta quae res ipsa, quae diuturnitas imperii comprobat nimium severa oratione reprehendere
«Non voler dunque, o Catone, troppo severamente censurare le consuetudini antiche, che la realtà stessa delle cose e la lunga durata del nostro impero hanno consacrato».
Cicerone riesce, e questa orazione è una delle più alte rappresentazioni dell’eloquenza dell’Arpinate, a porre un freno alle accuse di Sulpicio Rufo e Catone (insieme a loro, c’erano un certo Gaio Postumo e Servio Sulpicio, figlio del Sulpicio Rufo, che incalzeranno l’Oratore e cercheranno di condannare Murena all’esilio) e lo fa con la tipica dialettica del politico maturo che ha già dato prova delle sue capacità oratorie nella difesa di Roma contro i tentativi di Catilina ed ora si trova a dover difendere non soltanto un caro amico, ma un valido politico.
Degno di menzione è il giudizio su Cicerone di Concetto Marchesi (1878 – 1957), insigne latinista, che nella sua Storia della Letteratura Latina, afferma:
“Il console, che assunse la difesa dell’imputato (Pro Murena), non aveva il tono dell’avvocato sollecito della discolpa; egli parlava con la tranquillità di chi fa una lezione di morale pratica e con la gaiezza canzonatoria diretta a dimostrare la quasi bambinesca ingenuità di quegli accusatori così male a proposito zelanti”.
Il processo contro Lucio Licinio Murena si è risolto nel migliore dei modi; infatti, l’imputato sarà assolto dalle accuse e riuscirà ad esercitare meritevolmente la carica di console; a riprova di ciò ci giungono in aiuto le testimonianze degli stessi autori antichi (Quintiliano e Plutarco), tra cui Cicerone, che attestano la presenza, per l’anno 62 a.C., di Murena al consolato.
(Le traduzioni dei passi è a cura di Camillo Giussani, Due scandali politici, BUR – Biblioteca Universale Rizzoli 1998)