Padrone, marito e padre: gerarchie nella Politica di Aristotele
La filosofia elabora significati, funzionali alla conservazione del dominio in una data società, a sé contemporanea o futura. È il caso della Politica di Aristotele. Nel Libro I, viene stabilito che la gerarchia, cioè la presenza di un comandante e di un obbediente, è un principio naturale:
“Quando si costituisce un composto unitario constante di più parti, continue o discrete, in ogni caso si riscontra un qualcosa che comanda e qualcosa che obbedisce” (Aristotele, Politica, I, 1254a, p. 87).
L’intera realtà è comprensibile in termini autoritari. Questo è evidente tanto negli esseri animati quanto in quelli inanimati. L’animale, ad esempio, consta di anima e corpo. La prima ordina, il secondo esegue. Quando ciò non accade, c’è una violazione del codice legittimo. Per questo, la ricerca aristotelica prende le mosse dal cosiddetto uomo meglio disposto, prototipo del dover essere politico, contrapposto all’animale malfunzionante. È opportuno chiarificare i rapporti di forza:
“perché nei perversi o in quelli che agiscono perversamente si direbbe spesso il corpo comandi all’anima, in quanto essi si trovano in posizione di difetto e contro natura” (Aristotele, Politica, I, 1254a -1254b, p. 87).
Chi scuote la sintassi del dominio è tacciato di perversione, difetto, innaturalità. Ci si rivolge, dunque, ad un modello rassicurante, per sfuggire all’errore. Ci avviciniamo velocemente alla dimensione immediatamente umana dell’indagine politica. Se la gerarchia è un principio naturale e, come abbiamo visto, animale, varrà sicuramente anche per la nostra specie. Infatti, lo stagirita afferma che:
“fin dalla nascita alcuni sono destinati a obbedire, altri a comandare” (Aristotele, Politica, I, 1254a, p. 85).
Data la pervasività di questo modello politico, non c’è da sorprendersi che venga analizzata, attraverso lo stesso comparto concettuale, l’amministrazione familiare. I rapporti di potere presi in esame sono tre: padrone-schiavo, marito-moglie, padre-figlio. Al primo sono dedicate molte pagine. Chi è il padrone? Cosa lo rende riconoscibile?
“Il padrone […] è definito non dal possesso di una particolare scienza, ma dalla sua condizione. […] La capacità di un padrone si rivela non nell’acquisto dei servi, ma nell’uso di essi” (Aristotele, Politica, I, 1255b, p. 99).
Essenzialmente, il padrone si serve di qualcuno. Ciò non richiede competenze scientifiche rilevanti. Il grado di razionalità impiegato in questa relazione politica è minimo. D’altra parte, gli schiavi sono non-umani, utensili animati, cose dominabili. Non appartengono a sé stessi: sono proprietà del padrone. Possono ambire ad essere solo:
“uno strumento che serve all’azione” (Aristotele, Politica, I, 1254a, p. 85).
Tra il governante e il governato, in questo caso, intercorre lo stesso rapporto che c’è tra l’anima e il corpo e tra l’uomo e la bestia. Il compito di chi obbedisce, nell’ambito della padronanza, è, infatti, permettere l’uso del proprio corpo. Questo rapporto di potere esiste in natura? Esistono individui che sono destinati a comandare o ad essere comandati?
Per Aristotele, sì. Quindi, stante la naturalità della gerarchia, come si spiegano le ingiustizie, le violenze e gli abusi? Con quale criterio si stabilisce chi deve comandare e chi deve essere comandato? La virtù è la discriminante: se la virtù di qualcuno è nell’esser schiavo, egli deve essere schiavo; così per il padrone. In definitiva:
“tocca al migliore comandare ed essere padrone secondo la virtù che gli è propria” (Aristotele, Politica, I, 1255a, p. 93).
Se ne deduce che l’errore consiste nel fatto che il peggiore comanda non secondo la virtù che gli è propria. Dunque, a generare ingiustizie, violenze e abusi non è la gerarchia in sé ma una sua specifica manifestazione. Con questo escamotage, Aristotele disinnesca ogni obiezione alla funzionalità della padronanza, direzionando il biasimo verso la mancanza di virtù. Il principio naturale è valido. La sua applicazione è scorretta. Di conseguenza, si interviene sulla seconda e mai sul primo.
Veniamo ora al rapporto uomo-donna, nella sua variante marito-moglie. Il potere si esercita, in questo caso, come se si stesse governando una città, formata da individui teoricamente uguali. Di fatto, ci si alterna nelle cariche: alcune volte, si comanda, altre volte, si obbedisce. Però:
“quando alcuni comandano e altri obbediscono, si cerca di introdurre una differenza e nella figura esteriore e nel linguaggio e nei titoli d’onore” (Aristotele, Politica, I, 1259b, p. 123).
La diversità tra governanti e governati si conserva anche in un contesto apparentemente egualitario. Chi comanda si appropria di un capitale simbolico: figura esteriore, linguaggio, titoli d’onore. Il marito si comporta allo stesso modo nei confronti della moglie.
“Il sesso maschile è per natura atto al comando più del sesso femminile” (ibid.), quindi l’uomo è legittimato ad attribuirsi i segni del potere, che marcano la sua superiorità. Il maschio ha l’apparenza del potente, parla la lingua del comando e riceve il riconoscimento sociale dovuto al migliore. Infine, esaminiamo il rapporto padre-figlio. Il padre è come un re per il figlio: utilizza, per governare, l’amore e l’amicizia. Il genitore è diverso dal fanciullo, ma fa parte della sua stessa stirpe, proprio come il re rispetto ai suoi sudditi.
Come mai lo schiavo, la donna e il bambino vengono dominati diversamente? Non potrebbe esserci un’unica forma di dominio valida per tutti i sottoposti? Ciò che differenzia i dominati, dunque anche i tipi di dominio, è la facoltà deliberativa, cioè la capacità decisionale, che si applica alle cose possibili.
“Lo schiavo non ha affatto la facoltà deliberativa, la femmina ce l’ha ma incapace e il fanciullo ce l’ha, ma imperfetta” (Aristotele, Politica, I, 1269a, p. 127).
In base al deficit di potere del governato, il governante agisce differentemente. Lo schiavo, la moglie e il figlio hanno, d’altronde, qualcosa in comune. Devono tacere. Aristotele, citando il verso di Sofocle: “ornamento è per la donna il silenzio” (Sofocle, Aiace 293), afferma che questo motto deve valere per tutti, tranne che per l’uomo. Egli parla per sé e a sé. Sente solo la propria voce. È sordo a tutto il resto.
Riferimenti bibliografici
Aristotele, Politica, a cura di Carlo Augusto Viano, RCS Libri S.P.A., Milano, 2015
Sofocle, Aiace in I tragici greci. Eschilo, Sofocle, Euripide, Newton Compton editori s.r.l., Roma, 2013