SCRIPTA MANENT I
Scritti per non essere letti:
i più antichi testi in latino arcaico

Articolo a cura di Gianluca Colazzo e Mariano Rizzo

Scripta manent, ossia “ciò che è scritto rimane”: questa massima latina, tra le più note e abusate, serve a indicare come la parola scritta sia in grado di resistere allo scorrere del tempo, a differenza del dato orale, in quanto com’è altrettanto noto verba volant. Tuttavia, volendo essere sarcasticamente critici, si potrebbe affermare che anche l’informazione registrata per mezzo degli alfabeti sia in realtà ben poco resistente, poiché soggetta a interpretazioni, lacune e contaminazioni che possono stratificarsi nel corso dei secoli e adulterare l’essenza del messaggio: trattando dunque di parola scritta, c’è qualcosa che si può ritenere non volatile?
Oggi la scrittura è un mezzo di comunicazione con regole consolidate e valide a livello pressoché oggettivo; gli strumenti elettronici hanno inoltre causato un progressivo allontanamento tra lo scrivente e la materia scrittoria, che appare sempre più un prodotto artificiale, standardizzato e depersonalizzato. Siamo dunque portati a dimenticare che la scrittura è la summa di una serie di fenomeni storici e socio-culturali, nonché di una certa disposizione fisica e psicologica, tutti elementi che appaiono in controluce se si prende in esame la sua evoluzione storica.
Adottiamo quindi il motto Scripta manent per denominare questa serie di approfondimenti nei quali partiremo dal dato paleografico per approdare, nella maniera più agile e priva di tecnicismi possibile, ai contesti entro i quali la scrittura si è evoluta e dunque alla vicenda umana, la nostra vicenda.

Il latino arcaico
Questo articolo, come la maggior parte dei testi che vi capiterà di leggere finché rimarrete nell’Occidente contemporaneo, è stato scritto adoperando l’alfabeto latino, nelle forme che si diffusero nei territori dell’Impero tra I e V secolo d.C.; a quei tempi, però, la lingua latina e le relative forme grafiche erano già pienamente canonizzate e avevano alle spalle molti secoli di evoluzione. Se andiamo un po’ più indietro nel tempo, alla ricerca delle origini della nostra scrittura, troviamo un panorama ben diverso.
Ci troviamo nel Lazio centrale intorno al secolo VII a.C.: la società latina, il cui centro nevralgico è Roma, si trova all’interno di un processo di formazione che durerà ancora a lungo. Si stringono rapporti sociali e commerciali con i popoli limitrofi, si sviluppa una fervida spiritualità e una tecnologia piuttosto avanzata; sebbene si possano già riscontrare stratificazioni sociali piuttosto nette, siamo ancora ben lungi da una vera e propria identità collettiva; sono anzi ben visibili le componenti genetiche dei popoli che la compongono: etruschi, oschi, coloni greci. Un mosaico di genti che nel corso dei secoli hanno cercato un compromesso tra le loro differenti lingue, un modo per comprendersi reciprocamente. Si sviluppa così il latino arcaico, un linguaggio che riflette in sé elementi di numerosi altri idiomi e che nel periodo da noi preso in esame è ancora in via di formazione: alcune consuetudini si sono consolidate e altre sono state abbandonate, e così accadrà fino all’età Repubblicana, quando si sarà trasformato nel latino classico che oggi studiamo.
Il carattere di provvisorietà di questa lingua fa sì che per lungo tempo essa non sia insegnata né appresa: la letteratura rimane ancorata alla tradizione greca, dunque si impara a leggere e scrivere essenzialmente quella lingua; inizia a profilarsi una minima produzione intellettuale autoctona, ma le poche tracce ci sono pervenute mediante trascrizioni più tarde. Semmai, in questo periodo si avverte la necessità di fissare nel tempo la memoria di atti pratici della convivenza civile, come i contratti di compravendita per evitare truffe, le rudimentali norme giuridiche e quelle religiose. Sulla scorta della scrittura magnogreca e di quella etrusca, che a quel tempo vantavano già una gestazione lunga più di un secolo, si elabora un sistema alfabetico autonomo, che si evolve di pari passo alla lingua: ha così origine la scrittura latina, quella che ancora oggi adoperiamo.

Un oggetto che parla: la Fibula Prenestina

La Fibula Prenestina, copia dal Museo Nazionale Romano presso le Terme di Diocleziano. Foto di Mariano Rizzo

Il nostro viaggio nella storia della scrittura latina parte da un oggetto tutt’altro che monumentale: una fibula, un manufatto d’uso comune paragonabile a una spilla da balia rinvenuto alla fine del secolo XIX nell’area archeologica di Praeneste, nei dintorni di Palestrina, oggi conservato al museo etnografico Pigorini di Roma. È bene precisare sin da subito che l’autenticità di questo reperto è stata oggetto di un’annosa diatriba terminata solo nel 2011, quando l’esame con strumenti ad alta tecnologia ha stabilito al di là di ogni dubbio che l’iscrizione presente sul manufatto è in effetti il documento in latino arcaico più antico attualmente rinvenuto, databile tra il secolo VII e il VI a.C. Sulla staffa della fibula è sgraffiata una breve iscrizione che tradotta in italiano suonerebbe grossomodo così:

Manio mi ha fatto per Numerio

latino arcaico
Foto di Mariano Rizzo

Questi scarsi trenta caratteri sono per noi una vera miniera di informazioni, dalle quali possiamo intuire che il latino del secolo VII a.C. fosse una lingua ancora priva di stabilità, estremamente flessibile, influenzata dalle lingue italiche e dal magnogreco; così il suo alfabeto geometrico e dalle forme ancora incerte, scritto peraltro in senso sinistrorso come si usava in tempi molto antichi. Volendo però andare oltre il dato paleografico e filologico, cosa possiamo apprendere dalla Fibula Prenestina?
In passato è stato suggerito che lo scambio in questione potesse essere un dono e che dunque la frase andrebbe letta come una dedica, non diversa da quella che oggi scriveremmo sul frontespizio di un libro: in realtà la Fibula Prenestina appartiene alla categoria degli “oggetti parlanti”, manufatti che recano scritta una frase mediante la quale essi stessi, parlando in prima persona, informano il lettore di cosa siano e per chi o per quale scopo siano stati realizzati; questa pratica era già in uso presso gli etruschi e perdurerà fino alle soglie del Medioevo. Nella maggior parte dei casi gli oggetti parlanti riportano il nome dell’artigiano che li ha creati, molto più raramente quello di un donatore. Potrebbe dunque trattarsi di una sorta di “marchio di fabbrica” mediante il quale Manio desiderava farsi pubblicità: del resto le fibule erano monili destinati tipicamente a uomini dell’alta società, che le utilizzavano come fermaglio per le loro toghe; non riesce difficile immaginare gli amici di Numerio incuriositi dall’oggetto, che tra l’altro vanta una forma raffinatissima, rivolgersi all’orafo per farsene fare una simile. Eppure anche questa ipotesi è probabilmente da scartare.
Della categoria degli oggetti parlanti fanno parte anche manufatti molto meno nobili rispetto alla Fibula: nomi di artigiani sono leggibili su mattoni e tubazioni in argilla e coccio, destinati a essere interrati o murati e dunque non più visibili; la stessa iscrizione sulla Fibula non è leggibile se non a distanza molto ravvicinata. Infine, dobbiamo considerare che non è scontato che gli aristocratici del secolo VII sapessero leggere altre lingue oltre al greco, anche quando si trattava della propria.

La Fibula Prenestina del Museo Preistorico Etnografico Luigi Pigorini a Roma, foto di Pax:Vobiscum, CC BY-SA 3.0

Per un artigiano, invece, saper leggere e scrivere voleva dire avere un vantaggio sui concorrenti che non ne erano in grado: immaginate dunque cosa significasse, a livello psicologico, la consapevolezza di essere depositari di un linguaggio padroneggiato quasi esclusivamente da politici e clero, precluso a molti colleghi e soprattutto ai propri ricchissimi clienti. Incidere il proprio nome sulla Fibula, per Manio, significava legare indissolubilmente l’oggetto alla sua identità di orafo e letterato, è proprio il caso di dirlo, ante litteram. Probabilmente Numerio e i suoi amici nobili non hanno mai saputo il significato della scritta sulla Fibula Prenestina, ma per il solo fatto che ci fosse avranno pensato a Manio come a una persona in gamba e a un professionista con una marcia in più.

Il potere magico della scrittura: il Vaso di Dueno

Le Iscrizioni di Dueno come trascritte da Heinrich Dressel, in un’immagine presa dal testo Hermes. Zeitschrift für classische Philologie 16 (1881), da DigiZeitschriften. Pubblico dominio

Prima che si stabilisse senza ombra di dubbio l’autenticità della Fibula Prenestina, il primato di iscrizione più antica è stato attribuito di volta in volta a quelle presenti su numerosi oggetti; uno tra questi è il cosiddetto ‘Vaso di Dueno’, rinvenuto nello scavo di un’antica cisterna sul Quirinale utilizzata in seguito come discarica, più o meno coevo alla Fibula e oggi esposto agli Staatliche Museen di Berlino. Si tratta di un kernos, una singolare tipologia vascolare di tradizione greca che vede la fusione di più recipienti in uno solo, in questo caso tre; lungo la tripla curvatura del vaso corre, in senso sinistrorso, un’estesa iscrizione nella stessa lingua e col medesimo alfabeto adoperati per la Fibula, la cui esplicazione è però molto più problematica e ancora oggi in discussione; nel corso degli anni sono state offerte svariate interpretazioni, quasi tutte concordi nel considerare questo manufatto una sorta di ex-voto. La lettura più conosciuta e suggestiva è la seguente:

Chi mi dona scongiura gli dei che nessuna vergine ti stia vicina se non vorrai essere soddisfatto da Tuteria. Dueno mi ha fatto e per opera mia non torni il male nelle mani di Dueno.

Il vaso di Dueno è quindi un altro oggetto parlante e la sua iscrizione va divisa in due parti: nella prima leggiamo una maledizione scagliata da Tuteria, amante rifiutata, che con un’ardita perifrasi augura al destinatario del vaso continue e numerose défaillance sessuali; nella seconda parte il vasaio Dueno, forse timoroso delle ripercussioni che tale anatema potrebbe avere su chi ha realizzato il vaso (e scritto la frase!), ne prende le distanze. Attenzione però: la parola Dueno, un tempo interpretata come il nome dell’artigiano, in tempi più recenti è stata ritenuta una forma arcaica dell’aggettivo bonus; dunque il vero significato della seconda frase dovrebbe essere Un [uomo] buono mi ha fatto, e per opera mia non torni il male nelle mani del buono.

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Le Iscrizioni di Dueno, foto di Gfawkes05, CC BY-SA 4.0

Prendendo per buona questa interpretazione sorgono però alcuni dubbi: come può una maledizione esser stata scritta in maniera tanto palese senza il rischio che il dono venisse rifiutato dal destinatario? E come può il vasaio essersi sentito libero di apporre il proprio nome su un oggetto creato per gente di ceto sicuramente più alto del suo? La risposta è semplice: come avveniva per la Fibula, né il donatore né il ricevente dovevano saper leggere. Il potere magico non stava infatti nel significato, ma nel significante: mentre un’orazione vocale moriva nel momento stesso in cui veniva pronunciata, una preghiera trascritta era collegata indissolubilmente al proprio supporto, perdurava nel tempo e di conseguenza sembrava avere un valore permanente e più forte. Per la soddisfazione di Tuteria che, trascrivendo la sua maledizione, forse pensava di causare al suo amato un’impotenza perpetua!

Davanti agli occhi di tutti: il Cippo del Foro

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Il Cippo del Foro, copia dal Museo Nazionale Romano presso le Terme di Diocleziano. Foto di Mariano Rizzo

I due oggetti presi in esame fino a questo momento fanno capo alla sfera privata di un ceto sociale piuttosto alto; ma qual era, in età monarchica, il rapporto tra scrittura e popolo? Per rispondere a questa domanda analizzeremo un terzo manufatto: il cosiddetto Cippo del Foro, conosciuto ai più come Lapis Niger. In realtà con questa denominazione si indica l’area archeologica dove questo blocco di pietra fu rinvenuto, la quale si trova nei Fori Imperiali in prossimità della Curia Iulia, un ampio spazio lastricato con lastroni di basalto nero (da cui il nome) dove anticamente si credeva fosse sepolto Romolo. Questa zona dei Fori, non visibile se non per ragioni di studio, è attualmente soggetta a minuziosi lavori di messa in sicurezza che mirano a renderla fruibile entro la fine del 2020.
Oggi il Cippo si trova al di sotto del piano di calpestio, reimpiegato come pilastro di sostegno a seguito di una riorganizzazione dell’area; sui quattro lati reca incisa un’iscrizione rinvenuta purtroppo con gravi lacune, che è stata ricostruita così:

Chiunque [violerà questo luogo] sia maledetto. Chi lo insozzerà, [dovrà corrispondere una multa] al re. Il banditore proclamerà [che chi passa con i propri] cavalli li debba tenere [fermi tirando] le redini [finché il rito non sia] completato […].

L’analisi paleografica ci permette di stabilire che il testo sia un po’ più recente rispetto agli altri due, e che dati all’inizio del secolo VI a.C.; a sostegno di questa tesi, tra l’altro, c’è l’andamento bustrofedico delle linee di testo: a un rigo sinistrorso se ne alterna uno destrorso e così via. L’iscrizione registrerebbe il divieto di violare un luogo sacro, seguito da norme comportamentali da seguire durante i rituali che esso ospitava; un testo di carattere pubblico, quindi, che ci porta a ipotizzare che in origine il cippo godesse di una miglior collocazione, visibile a chiunque passasse nei pressi.

Il Lapis Niger, foto (ritagliata dall’originale) di Giovanni Dore, CC BY 3.0

A questo punto, però, occorre fare alcune considerazioni: abbiamo visto che in età monarchica erano ben pochi a leggere e scrivere; inoltre una delle parole più facilmente leggibili e interpretabili nel testo del Cippo è kalatorem, resa in traduzione come banditore: si tratta in effetti di un araldo che si occupava di bandire le norme sacre da osservare; in effetti lo stesso Cippo sembra informarci che quanto scritto sarebbe stato comunque ribadito prima di ogni rito. Che senso avrebbe avuto, pertanto, trascrivere delle leggi che nessuno avrebbe letto, le quali in ogni caso sarebbero state ripetute a gran voce?
Anche in questo caso la risposta è piuttosto semplice: in un’epoca in cui la scrittura era inaccessibile a chi si trovava al di fuori della cerchia politico-religiosa, essa finiva per diventare l’immagine della casta, caricata di tutti i valori e del potere che questa deteneva. Non c’era alcun bisogno che una persona fosse in grado di leggere l’iscrizione sul Cippo: bastava sapere che essa fosse scritta per collegarla mentalmente al rex e ai sacerdoti, e capire per estensione che quel luogo fosse sacro e bisognasse starne alla larga.

Tra i secoli VII e VI a.C., in conclusione, possiamo affermare che il potere del neonato alfabeto latino risiedesse nella sua capacità di suggestionare il lettore, o meglio il non-lettore, semplicemente mediante il suo aspetto, la sua presenza, la sua stessa essenza, collegata a concetti trasversali riassunti nelle sue forme grezze e angolose. Siamo ancora ben lontani dalla “scrittura totale” che di lì a qualche secolo avrebbe trasformato le mura, le colonne e i monumenti di Roma e del suo Impero nelle immense pagine che tuttora ci tramandano la memoria di nomi ed eventi; la presenza di una scrittura nata in loco, simile a quelle dei progenitori eppure autonoma, in ogni caso sarà uno degli elementi imprescindibili per la formazione della identitas romana. Ma questa storia ve la racconteremo un’altra volta.

 

BIBLIOGRAFIA

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CENCETTI G., Lineamenti di storia della scrittura latina, Bologna 1954.
CHERUBINI P. – PRATESI A., Paleografia latina. L’avventura grafica del mondo occidentale, Città del Vaticano 2010.
PETRUCCI A., Breve storia della scrittura latina, Roma 1992.
PETRUCCI A., Prima lezione di paleografia, Roma 2009.

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