Allo scoccare della mezzanotte di capodanno 2020, Goodreads ha divulgato una lista contenente i titoli dei libri più attesi del nuovo anno. Il primo titolo, scintillante e grassettato, la faceva da padrone sulla pagina web, seguito dall’eloquente didascalia: American Dirt, “the book of the year”. Una definizione che probabilmente si deve al commento entusiasta di un’autorità come Stephen King, la cui frase di decisa approvazione troneggia in quarta di copertina.
Il tanto chiacchierato presunto libro dell’anno, American Dirt, per l’appunto, vergognosamente tradotto da Feltrinelli con il titolo ‘Il sale della terra’ — privo di senso e connessioni con il romanzo — è l’oggetto di una controversia che va ben oltre la penosa traduzione italiana del suo titolo (e mi auguro solo di quello!).
Il romanzo racconta la storia di una donna messicana e di suo figlio che, perseguitati da un gruppo di narcotrafficanti che hanno già sterminato il resto della loro famiglia a causa di un articolo di denuncia scritto dal marito della protagonista, decidono di emigrare in USA. Una storia di migrazioni, dunque, e, di conseguenza, di vicissitudini e sofferenze, che hanno luogo per lo più tra Acapulco e la linea di confine con gli Stati Uniti. Il problema — sembrerebbe — di questo libro è che racconta la storia di due personaggi messicani, ma è stato scritto dall’americanissima e decisamente bianca Jeanine Cummins.
“Stop telling our stories” è la frase ricorrente che si legge sia sulla pagina di Goodreads del libro, sia fra i tweet di commento al post di Oprah Winfrey che, entusiasta del romanzo, lo ha inserito fra le letture del suo club. Semplificando un po’ la questione, Il Post, il 29 gennaio 2020 ha infatti intitolato un articolo così: “Bisogna essere messicani per scrivere un romanzo dal punto di vista di un migrante messicano?”.
Rispondo subito, prima che ci si impelaghi in lunghe disquisizioni sul senso e la natura della cosiddetta cultural appropriation: no, non bisogna essere messicani per scrivere un romanzo dal punto di vista di un migrante messicano. L’arte (e presumiamo che la letteratura appartenga a questa categoria) deve essere libera, la narrativa è finzione e può (anzi, spesso deve) fondarsi sulla ricerca e sulla sperimentazione. Per cui, con buona pace di chi si sente usurpato della prerogativa di raccontare un certo tipo di storia, Jeanine Cummins aveva tutto il diritto di scrivere di quello che voleva. Qualunque scrittore, in realtà, ha il diritto di scrivere di ciò che gli pare. Ma ha il sacrosanto dovere — e a questo dovere Cummins, ahimè, non sfugge — di farlo bene. Di documentarsi, di non scrivere idiozie, banalità e schifezze melense, di non banalizzare, offendere, e soprattutto di non distorcere e fuorviare. È per questo motivo principalmente che American Dirt non è, non può e non deve essere il libro dell’anno: l’intento, pur nobile, di scrivere una storia che empatizzi con chi soffre emigrando, crolla drammaticamente di fronte alla quantità di cliché, storture e inesattezze che il romanzo contiene.
Il libro è infarcito di luoghi comuni di ogni tipo, che, se pur involontariamente, finiscono per far sembrare l’autrice un tantino razzista. Perché si è concentrata, verrebbe da chiedersi, solo sulla parte messicana di questo viaggio della speranza? Perché non ha parlato invece di quanto avviene al confine, dei bambini separati dai genitori e trattenuti in campi di detenzioni per minori — l’ormai chiacchieratissimo aberrante stratagemma statunitense finalizzato a fare da deterrente per l’immigrazione — su cui forse una cittadina americana come Jeanine Cummins avrebbe potuto dire qualcosa di meno stereotipato di quanto sia stata in grado di fare per il racconto resto del viaggio, pieno di personaggi messicani cattivissimi e piuttosto monocordi? Perché invece, per rendere il tutto più originale, non ha approfondito la storia personale di ossessione morbosa del boss Javier per la protagonista? Se proprio si doveva cavalcare l’onda del dolore dei migranti, ormai esposto al mondo dai media, non lo si poteva fare in modo originale, personale e documentato? Il vago sentore di sciacallaggio mi ricorda un po’ il terribile Mare al mattino di Margaret Mazzantini, brevissimo e sfornato in fretta, a sfruttare atrocemente e banalmente il tema dell’immigrazione libica e dei morti in mare, divenuto caldo nel 2011. A scacciare quest’ombra da American Dirt, non sembra bastare la nota finale dell’autrice, che, in una sorta di excusatio non petita accusatio manifesta, ci racconta dei suoi 5 anni di ricerche e si giustifica per aver scritto di una materia in cui non è esattamente competente, accampando come scusa qualche antenato portoricano e il marito irlandese dal passaporto che poteva scadere da un momento all’altro. Le ricerche di cui parla nella nota, purtroppo, non sono state sufficienti alla realizzazione di un prodotto letterario credibile e convincente.
Estremamente disturbante, a mio avviso, è l’inserzione di parole in spagnolo nel bel mezzo dell’inglese: ad esempio, “tonight is dificíl” che significa? Chi parlerebbe mai in questo modo? L’esito finale di questo fastidioso espediente (se così lo possiamo chiamare) è quello di ridurre lo spagnolo ad una lingua sussidiaria, quasi una lingua infantile, un repertorio di Lallwörter, che va bene usare giusto ogni tanto per sottolineare qualche parola carina, spaventosa o affettuosa (un po’ come dire “fai la nanna, tesoro, se dormi non ti farai la bua”).
Tutto questo è ancor più irritante perché il libro, nel suo insieme, non è poi mal scritto. A scanso di equivoci, è bene dichiararlo: senza dubbio American Dirt non sarà il libro dell’anno e probabilmente non passerà alla storia della letteratura, ma non è tout court un brutto libro. È scritto in un inglese più che decoroso (certo, con qualche ripetizione noiosa: quante volte ho dovuto leggere il verbo to duck!) e ha indubitabilmente un buon ritmo incalzante, motivo per cui non trovo difficile credere ad Oprah quando dice di non essere riuscita — come ha dichiarato su Twitter — a mettere giù il libro. Malgrado qualche innegabile falla nell’intreccio (com’è possibile che la protagonista talvolta sia così stupida? Perché i narcos non la trovano nonostante sappiano grosso modo dove si trova?), pagina dopo pagina, la storia si lascia leggere abbastanza bene. Il romanzo scorre veloce, e ad un certo punto sembra anche in qualche modo godibile, nonostante la caterva di inesattezze e il vago ma irritante elemento patriottico (si spera involontario!) per cui gli Stati Uniti paiono essere la panacea di tutti i mali.
Questo è, in effetti, probabilmente, il problema più grave di American Dirt: si fanno dei rapidi cenni alle deportazioni e alle famiglie separate, la protagonista ne è per un attimo spaventata, ma scaccia presto il pensiero dolente di queste prospettive agghiaccianti; il personaggio che queste tragedie le ha vissute in prima persona ne parla a cuor leggero, racconta la propria detenzione in breve e con distacco, pare non averne ricavato traumi. Poi, alla fine, quando i migranti sopravvissuti riescono ad arrivare in USA, tutto si risolve, i problemi più grossi sono ormai alle spalle, al nord (el norte, nel distorto ed irritante alternarsi di lingue) si vive molto meglio. L’ingenuità — e mi auguro non la mala fede o la propaganda — dietro questa idea è quanto meno imbarazzante, se pensiamo alla realtà dell’America di Trump.
Molti di questi problemi sono stati già abbondantemente ed efficacemente sottolineati da Miriam Gurba nella sua recensione al romanzo, in cui si parla anche della poca cura che l’autrice ha dedicato alla scelta delle espressioni spagnole, a quanto pare non esattamente conformi all’idioma messicano.
Infine, un problema cruciale, legato ad American Dirt, riguarda l’editoria, e forse qui Jeanine Cummins di colpe ne ha un po’ meno, se si eccettua quel “cavalcare l’onda” cui facevo cenno poco fa. Pubblicare American Dirt toglie davvero spazio alle vere voci messicane? Per rispondere, magari dovremmo distinguere la fiction dal report. È in quest’ultimo genere che gli autori messicani comprensibilmente riescono a dare il meglio (si veda, ad esempio, l’ottimo Lost Children Archive di Valeria Luiselli), ma è pur sempre vero che anche nella narrativa fittizia, una componente personale aiuta e arricchisce. E non c’è dubbio che romanzi non necessariamente autobiografici, scritti su un tema di questo tipo da autori messicani, produrrebbero senza dubbio risultati migliori.
Possiamo, dunque, sperare che la lunga controversia e il polverone mediatico che circondano il romanzo di Cummnins, allertino gli editori (che sia per soldi o per rinnovata sensibilità letteraria e umana) e favoriscano la pubblicazione di più romanzi di autori messicani. Quella di American Dirt — in definitiva un prodotto commerciale più che artistico — è senz’altro un’occasione sprecata, ma ci auguriamo almeno che grazie alla notevole esposizione meritatamente o immeritatamente ricevuta, possa portare buoni frutti e attirare l’attenzione su quanto di buono si può leggere nella letteratura messicana contemporanea!
1 Comment
Io l’ho trovato stupendo