Ambizioso, visionario e creativo nella sua capacità di riscrivere la grammatica del mondo, Giulio Cesare giganteggia con intramontabile prestigio nell’orizzonte culturale dell’occidente. La fascinazione che il personaggio ha esercitato sull’immaginario collettivo è tale che autori estremamente distanti nel tempo, nello spazio e nel sentire hanno voluto cimentarsi con il racconto delle sue imprese, offrendo punti di vista e chiavi di lettura straordinariamente intriganti.
«Questo noi dovremmo imparare dai Greci, a rivestire i miti di una bellezza tale da farli diventare veri, da far crescere palme solo perché lo ha detto un poeta»:
dal mondo della divulgazione televisiva intorno ai temi dell’antichità, Cristoforo Gorno si è recentemente cimentato con il romanzo storico (Io sono Cesare, Rai Libri, 2019), producendo la godibile narrazione di un mito in carne e ossa, quel Giulio Cesare assurto a simbolo, nella percezione comune, di strategia politica tanto acuta da far impallidire l’attuale dibattito pubblico. Numerose sono le questioni che una lettura del genere solleva: dalle amare considerazioni sull’opportunità della guerra – e persino della necessità dei suoi risvolti traumatici – alle riflessioni sul ruolo della comunicazione, che nel vortice della rivoluzione digitale agisce sull’opinione pubblica avvalendosi di canali e velocità precedentemente inimmaginabili, limitando di contro l’assennata consuetudine di ponderare, valutare, esaminare prima di esprimersi e prendere vincolanti decisioni.
L’immaginazione di Gorno ci consegna un uomo che, quasi presentendo ciò che il destino ha in serbo, sigilla come eredità per Ottaviano un memoriale denso e meditativo (alla dimensione pubblica dei Commentari si sostituisce qui il discorso in prima persona, ad accrescere l’intimità del lascito). Il tema del tempo, finora centrale per lo stratega nell’accezione di attimo da cogliere per sfruttare le opportunità favorevoli, si carica adesso di significati che afferiscono all’intero portato dell’esistenza; il senso della fine che si appresta è accompagnato da vaghe percezioni e un preoccupante sentore, proprio come accade nel play shakespeariano, Julius Caesar, costellato di segni, visioni, premonizioni.
Il testo del drammaturgo inglese fa tesoro, in effetti, della lezione plutarchea, mediata attraverso una traduzione cinquecentesca, e per mezzo di illuminanti intuizioni trasforma in poesia il racconto dello storiografo greco, proiettando nel passato romano lo sgretolarsi delle certezze che caratterizza il Seicento, secolo di profonde e significative trasformazioni. Assecondando il brivido metafisico che percorre l’uomo al cospetto dello spazio infinito, Shakespeare ritrae la caduta di un mito, ma con sorprendente lungimiranza si domanda quanti secoli vedranno rappresentata da attori quella grandiosa scena, in regni ancora non nati e con linguaggi ancora sconosciuti.
A ben vedere dunque il Bardo ammanta di antico domande e verità che appartengono all’età elisabettiana, al suo smarrimento, alle sue irrisolte inquietudini; con maestria egli tratteggia la volubilità di una folla che si lascia ammansire, irretire, infuocare dall’abile oratoria di Antonio. Non stupisce che la teatralità che risiede in una tale vicenda non manchi di essere recepita nei secoli successivi, attraverso riscritture e rappresentazioni di ogni genere. Di particolare interesse risulta il testo composto due anni fa da Fabrizio Sinisi, per la regia di Andrea De Rosa (Giulio Cesare. Uccidere il tiranno, Nardini Editore, 2017), dal momento che si sofferma sul portato politico della cospirazione e invita gli spettatori a elaborare l’esperienza della dittatura, interrogandosi in merito ai fatti del Novecento e ai loro tragici sviluppi.
Secondo i congiurati, è necessario arginare l’impudenza di Cesare, i cui gesti senza scrupoli dimostrano la volontà di approfittare dell’agonia della Repubblica per attribuirsi un ruolo egemonico: porre un freno alla deriva totalitaria, attentando alla vita del tiranno, violando la sacralità del suo corpo, significa per loro agire nell’interesse dello Stato. Eppure, chi insegue la libertà sarà costretto a fare i conti con gli ambigui risvolti che insidiano quel sogno e il suo contrario, e ad accorgersi di quanto un popolo possa amare la subalternità a un padrone, legittimandone il potere.
«Eravamo ciechi, ciechi per scelta, / contenti di esser ciechi, / ora quel tempo è finito: / gli dèi non ci sono più, / ci siamo solo noi»: il disincanto di Cassio si respira nell’intero corso della pièce, contagia gli interrogativi che si rincorrono e svelano il disorientamento di questi nostri giorni precari. «Nessuno di noi sa / che forma avrà la vita, / che forma avremo noi / quando riemergeremo / al mondo da quest’incubo. / Un tempo nuovo inizia»,
sentenzia definitivo Antonio, sancendo con risolutezza, nonostante le inevitabili incognite, una cesura tra quel che è stato e ogni possibile futuro.
Corpo divino che rinnega la sua umanissima origine, e tuttavia oltremodo terrestre nella sua vulnerabilità, la figura del tiranno solleva questioni insolute e, nei nodi irrisolti della nostra storia, ammonisce in merito alle contraddizioni di un passato che non smette di accadere.