Nel 2015 il giovane regista greco Yorgos Zois ha girato il suo primo lungometraggio, Interruption, riadattando in chiave post-contemporanea l’Orestea eschilea, in un teatro di Atene. Zois si è esplicitamente ispirato ad un fatto di cronaca, l’attentato avvenuto il 23 del 2002. Per tre giorni, all’interno del Theatre Center Dubrovka di Mosca, 40 ribelli ceceni (di cui 18 donne) presero in ostaggio 912 persone tra gli spettatori (di cui 100 bambini in età scolare), il cast e lo staff[1]. L’evento è oggi ricordato come Crisi del teatro Dubrovka.

La sera del 23 ottobre c’era il tutto esaurito per il musical «Nord Ost», una satira sulla vita in Russia ai tempi di Stalin, quando, nel bel mezzo dello spettacolo, i terroristi fecero irruzione sul palcoscenico e lungo le vie di esodo. Gli attentatori erano uomini armati e donne vestite con veli sul volto alla maniera musulmana, con cinghie imbottite di bombe legate al busto, che minacciarono di far saltare tutto se la loro richiesta di far cessare l’occupazione russa in Cecenia non fosse stata esaudita.
Il capo dei sequestratori era Movsar Baraev, nipote di un ribelle ceceno. In realtà, però, l’attentato fu organizzato da Shamil Basayev, che creò (agli inizi guidata da Aslan Aliyevich Maskhadov) le Brigate Islamiche[2] all’interno della resistenza cecena. Nei primi minuti di assedio in pochi riuscirono a salvarsi, mentre altri furono rilasciati durante i seguenti negoziati tra terroristi e Governo russo.
Purtroppo la maggior parte degli ostaggi visse per tre giorni a stretto contatto con i terroristi, bloccata nel proprio posto in platea, sopravvivendo col cibo dei distributori automatici e usando il pozzo dell’orchestra come bagno. Dopo 56 ore, le forze armate russe Specnaz pomparono un agente chimico stordente che comportò la morte di 129 persone e di 39 ceceni ribelli, fermati prima che potessero azionare gli esplosivi. I loro corpi senza vita sono stati ripresi dalle tv di tutto il mondo, in particolare le foto delle donne ribelli morte con ancora le bombe legate ai loro corpi, secondo quanto riportato da Anne Nivat[3]. I media, successivamente, entrarono in possesso di una videocassetta nella quale i sequestratori registrarono le loro richieste, in particolare uno di loro affermò la volontà di immolarsi per la causa:

«Ogni nazione ha diritto al suo destino. La Russia ha sottratto questo diritto alla Cecenia e oggi vogliamo rivendicare questi diritti, che Allah ci ha dato, nella stessa maniera in cui li ha dati a qualsiasi altra nazione. Allah ci ha dato il diritto alla libertà e il diritto a scegliere il nostro destino. Gli occupanti russi hanno inondato la nostra terra con il sangue dei nostri bambini. Le persone sono ignare degli innocenti che stanno morendo in Cecenia: i leader religiosi, le donne, i bambini e i deboli. Quindi, abbiamo scelto questo approccio. Questa scelta è per la libertà del popolo ceceno e non c’è differenza nel luogo in cui moriamo, quindi abbiamo deciso di morire qui, a Mosca. E porteremo con noi le vite di centinaia di peccatori. Se moriamo, altri verranno e ci seguiranno — i nostri fratelli e le nostre sorelle disposti a sacrificare le loro vite secondo il modo di Allah, per liberare la loro nazione. I nostri connazionali sono morti ma la gente dice che loro, i nostri connazionali sono terroristi e criminali. Ma la verità è che la Russia è il vero criminale.»[4]

Una scena dal film Interruption

Sulla scena teatrale di Interruption l’essenziale cubo di cristallo che sovrasta il palcoscenico rappresenta la reggia di Argo. La scenografia-casa, costruita da Spyros Laskaris, è illuminata con luci al neon poste sotto il pavimento a quadri, così da creare contrasti e ombre innaturali su volti che diventano inquietanti.
Il contenitore ha la funzione di limitare in quattro pareti, come in un ring, una situazione di conflitto: in nero, senza altri accessori di scena, risulta un allestimento contemporaneo nel quale uno dietro l’altro gli attori si preparano al dialogo, al confronto e allo scontro.
Tutto ha il colore del nero e del bianco per dare risalto alle figure attoriali, e caratterizzare l’interiorità di un male di vivere presente nella maggior parte degli attori. All’interno della casa troviamo i protagonisti della tragedia greca.

Di seguito, l’articolo prosegue con dettagli delle scene e della trama.

Interruption
Una scena dal film Interruption

Il film comincia con la presentazione dell’Orestea attraverso brevi frasi in bianco su sfondo nero che sintetizzano la trama.

Dei fuochi vengono accesi nella notte.

Il re Agamennone ritorna dalla guerra di Troia dopo dieci anni.

È accompagnato dall’amante Cassandra.

Sua moglie Clitennestra trama con il suo amante Egisto e l’assassinio di Agamennone.

Suo figlio Oreste ritorna dall’esilio per vendicarlo ed uccide sua madre Clitennestra.

Dopo l’omicidio, Oreste viene inseguito dalle Furie.

Il dio Apollo fa addormentare le Furie permettendo ad Oreste di fuggire ad Atene.

Inizia il processo ad Oreste.

Per la prima volta nella storia, il popolo di Atene deciderà il suo destino.[5]

(testo greco in nota)

Interruption comincia con la visione di “fuochi” in un gioco di sfocati visivi e di illuminazione per cui si adottano lampade led al neon elettroluminescenti di colore bianco, portate a mano dagli stessi attori, per evidenziare porzioni singole della vita di Argo, per informare e richiamare l’attenzione sulle singole gestualità sceniche. Il bianco delle luci, quasi a simboleggiarne il fuoco abbagliante contrasta i colori dell’abbigliamento scuro dei due assassini, mentre illumina in un gioco di chiaro-scuro la pelle argentea di Cassandra e quella opaca di Agamennone (Pavlos Iordanopoulos). Questi giochi di luci e questo uso sfocato dell’obiettivo, mosso come un occhio umano “stanco” di guardare l’orrore per cui preferisce “staccarsi” da una vista così difficile da sostenere, si insidiano per tutta l’opera, immergendo gli eventi extra scenici nell’oscurità totale.

Interruption
Una scena dal film Interruption

Il teatro è immerso nel buio, mentre pian piano luci sfocate lampeggiano, un ronzio intermittente si propaga al suono di passi in avvicinamento: i primi fuochi che avvisano dell’imminente arrivo del re. In primo piano si scorge un primo viso, una donna con chignon e rossetto rosso, messa lentamente a fuoco secondo una ripresa che segue la donna mentre si avvicina a qualcuno che tossisce.
La camera stacca sul volto di un uomo di 40 anni, con barba folta, dallo sguardo perspicuo, vestito in abito scuro, che scambia sguardi ambigui con la donna, in segno di attenzione: si tratta di Clitemnestra (Romanna
Lobach) ed Egisto. Si inquadra il profilo della donna seguendola, in un nero stagliato sullo schermo, debolmente illuminata, mentre poi il suo volto conduce lo spettatore ad osservare un vecchio e la sua accompagnatrice: Agamennone e Cassandra.
Il re sembra non possedere più un’autorità, piuttosto ricopre il ruolo di un fantasma, di un quasi morto, per quanto non osservi la moglie, focalizzandosi, invece, su un vuoto da cui traspare l’idea di un corpo e non più di un essere umano. A tal proposito il corpo di Agamennone è totalmente nudo.
Clitemnestra annusa il collo del marito, quasi in uno spasmo, forse per voler riconoscere l’identità di colui che le ha procurato del male, poi tasta il petto villoso e si abbassa verso la pancia sporca di terra e verso le natiche: la nudità indica l’inizio e la fine di un uomo, in mostra per ciò che è diventato, uccisore di uomini e uccisore di una figlia, resuscitato da una guerra disastrosa per cui ha dovuto pagare con la propria anima.
La sua nudità serve a ricordare un passato bestiale e Clitemnestra glielo rievoca attraverso il gesto dell’annusare, come un cane che annusa il suo padrone. Il nudo potrebbe anche preannunciare il modo in cui Agamennone muore per mano della moglie, in una vasca durante il bagno.
In questi attimi, tuttavia, non si vive il pathos tragico, infatti tutto è algido, immobile, come se gli attori volessero solo dare una parvenza di violenza, trasmutata dall’idea che si ha della tragedia greca, e mantenere la scena muta. Non c’è alcun tipo di elaborazione del lutto o del dolore, contrariamente a quanto avviene nel monologo di Clitemnestra in Eschilo, invece qui tutto si tiene distante, appena rivelato. La nudità di Agamennone si spezza dinanzi la sacerdotessa Cassandra in veste androgina, pelle chiarissima, capelli biondissimi e corti che osserva spaventata la scena in fieri. La regina proferisce queste parole verso Agamennone:

CLITENNESTRA Amore mio, marito mio, non mi riconosci? Ti ho aspettato per dieci anni. Sono tua moglie. Non mi riconosci? Chi è questa straniera? Questo è il tuo primo regalo per me, dopo tutti questi anni?

Clitennestra prende la pistola passata da Egisto.

Non c’è luce più diffusa per una moglie in pena che vede il proprio marito tornare da lei vivo.

Clitennestra spara un colpo in testa ad Agamennone.

Oreste… Oreste… Oreste…

Oreste giunge in scena.

Tuo padre è morto. E la sua stessa sorte attende anche me.

Agamennone presenta i tratti di un soldato di ritorno a casa dal fronte di guerra, colpito da stress post-traumatico acuito dalla forte età avanzata. Il re non riconosce la moglie, né la reggia, anzi rispecchia gli effetti di guerra come paralisi fisica, perdita di parola e attacco di panico. Clitemnestra, invece, paradossalmente esprime il desiderio di accogliere il marito, come avviene nella tragedia eschilea, per poi subito accusarlo di tradimento. Non c’è alcuna menziona ad Ifigenia o ad altri motivi adducenti l’operazione di assassinio. Avanza l’ipotesi che Cassandra possa essere un regalo di guerra dinanzi ad un uomo che non riconosce neanche sé stesso, retto in piedi dalla stessa concubina, che non si accorge del passaggio di pistola sotto i suoi occhi dalla mano di Egisto a quella della sua carnefice.
La frase di chiusura, «non c’è più luce diffusa per una donna in pena che vede il proprio marito tornare da lei vivo», prima che Clitemnestra azioni il grilletto, dà una spiegazione chiara dell’assassinio: non c’è alcuna speranza o alcuna possibilità di altra scelta, l’unica inequivocabile è la tragedia, senza rimorsi, senza salvezza o catarsi. Agamennone deve morire, ancora una volta, per permettere a Clitemnestra di avere la sua vendetta e far svolgere senza intoppi la trama della tragedia greca.

Lo sparo è un rumore assordante. Cala una seconda volta il silenzio. Si accendono le luci del cubo e ritroviamo sei attori, meno Agamennone, disposti ognuno su un lato della stanza: Clitemnestra, Egisto, Oreste, Pilade e Elettra; Cassandra è al centro della reggia, in quanto straniera e intenta ad inveire contro gli assassini con una profezia.

CASSANDRA Ma prima che io parta per il fatidico viaggio, lasciami formulare la mia ultima profezia. Gli dèi non permetteranno che i nostri assassinii rimangano impuniti. La progenie verrà da lontano, in cerca di vendetta.

Le luci, d’improvviso, si spengono; si intravedono i profili neri degli attori bloccati nella reggia, il fondale bianco per le luci d’emergenza.  Gli attori si guardano a vicenda, non comprendono cosa stia accadendo. Ombre in movimento all’interno del cubo, mormorii, finché dal fondo della platea non vagano nuove ombre minacciose: gli attori come il pubblico non comprendono se la dinamica sia parte dello spettacolo o no, la finzione si mischia alla realtà. Altri sconosciuti emergono dalle fila della platea, in particolare la camera segue in un lungo piano sequenza un giovane uomo che si dirige al microfono principale e pronuncia:

CORIFEO Buonasera. Ci scusiamo per l’interruzione. Lo spettacolo riprenderà al più presto.

Dal piano sequenza si passa al primo piano del personaggio illuminato frontalmente, che avrà il ruolo di Corifeo del nuovo Coro, formato da sequestratori.

CORIFEO La scorsa notte siamo usciti e io ho ballato con una ragazza fino all’alba. Abbiamo bisogno de vostro aiuto per andare avanti. Coloro che vogliano unirsi a noi sul palco sono i benvenuti.

Il Corifeo (Alexandros Vardaxoglou), un giovane uomo molto magro, dal viso adunco e dagli occhi malati, si sposta in postazione regia. Il nuovo Coro assume la funzione di regista, in possesso di armi vere acquisisce una particolare funzione di comando, quasi dittatoriale, per cui da ora in poi ogni azione scenica si modulerà sulle nuove regole imposte dalla circostanza del sequestro, sebbene il pubblico non ne sia ancora cosciente. Il Coro “criminale” è un personaggio collettivo che, in concomitanza con la fabula eschilea, pone gli stessi dilemmi di Oreste, cioè se non ci sia la probabilità di cambiare l’epilogo tragico, senza spargere gocce del sangue materno. Per far ciò vengono prelevati dal pubblico, a caso, dieci spettatori che si uniscono, letteralmente, al Coro di terroristi. Una volta sul palco, il Corifeo cerca un’interazione con i nuovi attori improvvisati e le intervista una ad una.

CORIFEO Il pubblico accolga i partecipanti con un caloroso applauso. Prologo. I partecipanti facciano un passo avanti e si presentino.

Nel primo atto, il Corifeo fa muovere i partecipanti sul palcoscenico, in modo che essi comincino ad avere familiarità con gli spazi scenici. I partecipanti, così come gli spettatori, sono ignari della messa in scena operata dai terroristi. La camera, però, inquadra gli attori chiusi nella reggia dando modo, a chi guarda il film, di rompere lo schermo della passività e rendersi consapevole della verità dei fatti.

CORIFEO Primo atto. Dopo la morte di suo padre Agamennone, Oreste ritorna dal suo esilio, attraversa le campagne. (I terroristi cominciano a far camminare i partecipanti su tutta la piattaforma scenica). La strada per tornare a casa è lunga. Oreste sente dei passi. Comincia a camminare più spedito. Oreste scappa dal pericolo. Corre sempre più veloce. Deve raggiungere la tomba di suo padre prima del crepuscolo. (Si abbassano le luci in una tonalità blu indaco). La notte è sopraggiunta. Oreste si nasconde. Oreste vede una luce nel buio. (Si accendono le luci della reggia).

Durante il running, i partecipanti corrono sempre più freneticamente, ridendo, guardandosi, spinti in un moto bacchico verso una meta indefinita, dettata esclusivamente dalle parole del Corifeo. Solo la parola sussurra i movimenti, dà vita alle scene.

Nel cubo, in cui sono ancora rinchiusi i veri attori dell’Orestea, si diffonde del fumo bianco che, si può ipotizzare, ricorda gli agenti chimici gettati dalla Polizia di Stato russa nel teatro di Dubrovka nel 2002.

A questo punto della scena, quattro sono gli elementi presenti stabilmente:

  1. I terroristi del Coro, con il loro Corifeo, che macchinano e manovrano la scena in maniera impercettibilmente violenta.
  2. I partecipanti al gioco teatrale, ignari, sorridenti, ormai attori in carne e ossa della scena, pronti per essere sacrificati per un Bene superiore.
  3. Gli attori iniziali dell’Orestea, imprigionati nella casa cubo, pericolo reale per il Coro perché potrebbero svelare l’arcano copione, non programmato, mettere dunque in allarme la platea.
  4. Gli spettatori in sala o coloro che assistono al film Interruption che man mano si va avanti si immedesima sempre più con ciò che accade ai partecipanti.

Questo comporta, inoltre, che il regista abbia fatto uso di più espedienti drammaturgici, riconducibili al teatro pirandelliano, del “dramma nel dramma”: lo spettacolo agisce su più piani narrativi che mischiano il verosimile al vero.

  1. Il primo piano è il vero dell’Orestea, operato dagli attori veri.
  2. Il secondo piano è il verosimile dal Coro criminale insieme ai partecipanti.
  3. Il terzo piano è il falso in cui il Corifeo muove forzatamente le pedine per ricreare una nuova Orestea.
  4. Il quarto piano consiste nel riconoscimento dello spettatore che accetta che tutto sia vero in funzione di una recita, il cui scopo è raccontare un sottotesto politico riflesso in un antico contesto sociale.

La finzione scenica e, più precisamente, l’immedesimazione degli attori nei vari ruoli (come per il Corifeo che ha il triplo ruolo di attore-regista, Corifeo e terrorista) è una pratica antica il cui scopo è persuadere o ingannare il pubblico per mezzo di un travestimento credibile. Già nel perduto Telefo di Euripide, il protagonista Telefo, re di Misia, figlio di Eracle e dell’arcade Auge, resistente oppositore contro i soprusi achei, mentiva riguardo la sua identità, vestendo i panni di un mercante greco coperto di stracci, derubato e ferito dai pirati durante il cabotaggio lungo la Misia, configurando un travestimento che muovesse alla compassione chi ne ascoltasse, e strappava il piccolo Oreste (Christos Stergioglou) dalle mani di Clitemnestra, minacciando di tagliargli la gola[6].

Si potrebbe operare un confronto tra Interruption e il Telefo, sebbene anacronistico e in contesti differenti, a proposito di come il pubblico reagisca dinanzi lo svelamento di una falsa identità, con l’aggravante dell’essere un’identità pericolosa[7]. La domanda sorge spontanea: Clitemnestra è sempre stata circoscritta al ruolo di madre perfida e ingannatrice, così descritta nel monologo della nutrice in (Coefore, 748-762), interessata soltanto alla vendetta, oppure come emerge nel Telefo già in Euripide, addirittura prima, se ne avesse la considerazione di una donna perbene?
È possibile, oggi, configurare Clitemnestra quale figura pericolosa, una terrorista che si nasconde dietro la maschera della buona moglie e madre e poi, per vendetta, mina l’ordine familiare, disprezzando parte della prole e accettando la sua uccisione per mano del figlio?

Queste domande su Clitemnestra sgorgano nel film Interruption del regista Zois, in cui la uxoricida prende coscienza del suo ruolo di donna, dopo aver saggiato i due travestimenti principali del femminile, cioè di madre e di moglie. Nel momento in cui uno dei partecipanti veste i panni di Oreste, non c’è alcuno scampo per Clitemnestra e per la sua messa in scena: ecco che tocca a lei svelare le sue menzogne.

Interruption
Una scena dal film Interruption

Nel secondo atto la vera attrice Elettra (Maria Kallimani) viene prelevata dal cubo e portata con violenza al centro del palco, su di lei è puntata la pistola. Elettra non è da sola, giungono gli altri partecipanti e, pur volendo scappare dal pericolo, l’attrice è bloccata dai criminali che la minacciano con lo sguardo di stare al gioco.

CORIFEO Elettra cerca di riconoscere suo fratello Oreste. Elettra tocca e annusa i capelli di Oreste, devono essere uguali ai suoi. (Elettra gira intorno ai partecipanti, toccando e annusando la loro pelle e i loro capelli) Elettra ancora non riesce a riconoscere suo fratello. Ma c’è un dettaglio inconfondibile. Oreste ha una cicatrice. Elettra cerca questo segno. (I partecipanti mostrano le loro cicatrici) Elettra trova la cicatrice. Lasciateli soli.

Dopo l’intenso riconoscimento di Oreste con la sorella Elettra, di tipo letterale e anche metaforico, perché l’attrice vorrebbe a tutti i costi divulgare l’inganno, sebbene forze esterne ne impediscano il reale disvelamento, Elettra è riportata in gabbia, mentre i partecipanti siedono in cerchio. Il Corifeo chiede loro cosa ne pensino dell’omicidio di Oreste e chiede se si possa evitare in qualche modo.

CORIFEO Ma stasera la rappresentazione avrà un finale alternativo. Voi discuterete su come Oreste si sarebbe comportato al giorno d’oggi. Oreste ascolterà i vostri pareri e deciderà cosa fare.

PARTECIPANTE I. Penso che ce quel detto che di sente sempre: la tragedia trascende la realtà del nostro presente. Per esempio pensate alla famosa cena di carne umana di Tieste in cui il fratello del nonno di Oreste, Tieste, scusate, in cui il nonno di Oreste invita Trieste ad un banchetto facendogli mangiare i suoi stessi figli. È una cosa a cui difficilmente ci si può rapportate al giorno d’oggi. È questo che voglio dire.

PARTECIPANTE II. Temo che ci siamo allontanati troppo dal nostro tema. È una brillante analisi filologica e sono sicuro che il loro albero genealogico si sviluppa ulteriormente. Ma qui la nostra questione è come ci comporteremmo oggi. Che cosa fareste nei panni di Oreste.

PARTECIPANTE I. Quello che posso dire è che oggi, l’omicidio, o meglio la decisione dell’omicidio non è un’opzione. Togliere la vita a qualcuno è una possibilità da non prendere neanche in considerazione, in nessun caso, questa è la mia opinione.

PARTECIPANTE II. Credo che l’uomo, a quel tempo, avesse una più stretta connessione con la natura, con la vita. Oggi ci sono altri modi per ottenere giustizia. Penso che Oreste debba vendicare suo padre ma in maniera più civile. Dovrebbe assumere un buon legale e fare causa a sua madre, riducendola sul lastrico.

PARTECIPANTE III. Parlando da avvocato, devi suggerire che bisogna sempre sentire entrambe le parti in causa. Clitennestra ha sofferto molto di più rispetto al dolore procurato agli altri. Se Oreste avesse fatto un passo indietro, l’avesse guardata e ascoltata, mi piace credere che le avrebbe risparmiato la vita.

PARTECIPANTE IV. Oreste. Ti prego, non uccidere tua madre. La madre è sacra.

PARTECIPANTE V. Scusate, ma io non riesco a capire questo dibattito. Ci hanno chiesto di trovare un altro finale per esaminare il mio sotto una nuova luce. Oggi a chi importerebbe che suo padre o sua madre abbia ucciso suo padre, o che suo nonno abbia mangiato i suoi fratelli. Non riesco proprio a capire… Per me queste sono tutte cose che appartengono al passato. Penso che dovremmo vedere le cose in modo diverso oggi. Adattare al nostro tempo. Perché conserviamo questi vecchi miti? Chi ce li impone? Io non credo in alcun mito.

PARTECIPANTE VI. Vorrei poter dire la stessa cosa, ma il mito è importante: mostra che ogni personaggio ha la propria verità. Clitennestra ha la sua, lo stesso vale per Agamennone e anche Oreste. Disapprovo il farsi giustizia da soli, in qualsiasi circostanza, ma se mettiamo il mito nel contesto di quel periodo, allora bisogna compiere l’omicidio. Ma oggi, direi che bisogna essere indipendenti dalle opinioni degli altri, da quello che gli altri si aspettano che tu faccia. Oggi Oreste dovrebbe abbandonare il proprio ruolo.

CORIFEO Il dibattito è concluso.

Il terzo atto muta prospettiva visiva: chi guarda il film lo fa attraverso gli altri spazi del teatro, per mezzo del suono delle voci e delle musiche elettroniche. C’è qualcosa che inquieta lo spettatore: la hall, i bagni, le scale del teatro sono deserte. Il tempo deontologico della rappresentazione teatrale riempie e sconfina oltre il palcoscenico o la sala proiettando questa nuova Orestea, ragionata sulle leggi civili, negli altri ambienti teatrali.
Per chi guarda la situazione è sempre più un connubio intrecciato di finzione e realtà: ci si chiede dove siano tutti i lavoratori del teatro, nessun corpo, tutto tace. Si spezza quel religioso silenzio sostituito dall’idea che l’inverosimile stia pian piano svanendo, che quegli uomini possano essere un vero pericolo.
Il teatro stesso veste i finti panni di un luogo in cui tutto può risolversi pacificamente secondo la giustizia sociale della legge, contrariamente alla sua missione primigenia di dare vita ad un conflitto, uno scontro corporale e verbale, mettere in scena ciò che fuori non è realizzabile, perché no, anche un omicidio. In questo contesto lo spazio scenico decide della vita e della morte dei protagonisti e lo fa per purificare quanti si chiedono il senso di dar ancora voce ai miti.

Alla fine la prova affidata ai partecipanti di reinterpretare un nuovo finale dell’Orestea, sembra avere successo.

CORIFEO (Rivolto ad un partecipante) Avevi mai interpretato Oreste?

PARTECIPANTE-ORESTE No, mai.

CORIFEO Ti identifichi con lui?

PARTECIPANTE-ORESTE Si.

CORIFEO Bene. Margarita? E tu? Le tue impressioni?

PARTECIPANTE III Mi sento un po’ in imbarazzo, è un po’ che ci penso, perché… perché abbiamo finito il dibattito senza essere giunti ad una vera conclusione. Credo che… quello che abbiamo fatto…fosse non sia poi così avvincente per il pubblico che ci ha guardato. Poiché il mito ci sovrasta, dopotutto. Anche io stasera, con Kostantinos, anche se sembra crudele sono venuta qui per vedere Oreste che uccide la madre.

Il Corifeo non sembra troppo soddisfatto del risultato e vuole che tutti lo rifacciano daccapo. I veri Clitemnestra, Egisto e Pilade vengono scarcerati dalla reggia e condotto dinanzi il pubblico. La vera madre e il finto figlio si incontrano.

CLITENNESTRA Chi siete?

PARTECIPANTE-ORESTE Buonasera.

CLITENNESTRA Chi siete?

PARTECIPANTE-ORESTE Ci scusiamo per l’interruzione. Portiamo brutte notizie.

EGISTO Diteci.

PARTECIPANTE-ORESTE Tuo figlio Oreste è morto.

CLITENNESTRA Amici… Forestieri…Voi… voi siete…i benvenuti in questa casa… (Ridendo) Scusate, perdonatemi vi prego, ma non riesco a capire cosa sta succedendo.

PARTECIPANTE-ORESTE Che cosa non capisci? (Punta la pistola contro Clitennestra) Madre?

CORIFEO Oreste chiede consiglio a Pilade.

PARTECIPANTE-ORESTE Pilade, cosa dovrei fare? Pilade, cosa dovrei fare? Pilade, cosa dovrei fare?

CLITENNESTRA (comincia a cantare) Sometimes you feel like a motherless child. Sometimes, I know you feel like a motherless child. Sometimes, I know you feel like a motherless child. Long away, from…

Partecipante-Oreste spara un colpo contro Clitennestra

L’attrice cade in terra, il colpo sembra averle dato una morte vera, ma non c’è sangue. Il cadavere di Clitemnestra è trascinato dietro le quinte: la camera, spostata sul corpo caldo della defunta, diventa gli occhi della madre uccisa e osserva gli attori ritrasformarsi in spettatori poiché l’acme della tragedia si è compiuta. Tutto è andato secondo i piani della trama.

La scena prosegue, con il Partecipante-Oreste che fugge via dal teatro vuoto in preda al rimorso di (non) aver ucciso (l’attrice che interpreta) Clitemnestra: il partecipante si era fin troppo immedesimato nella parte, da cominciare ad odiare persino l’attrice e spararle.
I piani del vero e del verosimile si fanno sempre più cupi e ciò è oggettivamente segnato dal plot di luci che marcano il buio della sala, sempre più spaventata ed eccitata all’idea di nuove uccisioni, e la luce del palcoscenico impregnata di paura, irriconoscibile ad occhi umani. Per spiegare questa accettazione del pubblico a ciò che vede essere una realtà teatrale costruita ad hoc per la serata, si può far riferimento alla scena del vecchio che si dirige tranquillamente in bagno, mentre i partecipanti che credono di essere liberi di uscire dal teatro, sono rincorsi e fermati con le pistole: è l’unico momento inquadrato fuori dallo spazio teatrale in cui i terroristi bloccano chiunque tenti di scappare, ed è qui che chi guarda scorge un velo di verità e voyeuristicamente continua ad abbeverarsi di violenza, quasi annullandosi dinanzi lo schermo.
Lo spettatore in teatro così come quello in sala non smette di guardare, in lui non scatta il moto propulsivo alla ribellione per vederci più chiaro, non chiede che questa operazione termini, anzi è pronto a sacrificare altre vittime pur di credere alla sospensione della realtà. Il pubblico, metaforicamente, è un sonnambulo che accetta ogni condizione loro offerta dal regista perché ci crede ciecamente, forte del fatto che lo spettacolo prima o poi si rivelerà menzogna.

Sul finale il film si configura alla maniera dell’Amleto di Shakespeare (1600), in quanto il Corifeo pronuncia l’amara sentenza di uno spettacolo ormai finito, rivelando di essere Oreste che ha macchinato il tutto con il solo scopo di accorciare il legame di colpe tra chi agisce e chi guarda.

Il pubblico, come il re Claudio, commette peccato di hybris nel momento in cui non fa nulla per impedire gli omicidi, dunque è complice e assassino insieme. Tutti si sono identificati nel Partecipante-Oreste, anzi è stato sostenuto affinché compisse l’atto esecrabile, pur avendo trattato le conseguenze legali che ne conseguono al giorno d’oggi. Dunque non c’è salvezza? Così sembra gridare questo Oreste. Così con la camera che lo segue a precedere, il Corifeo-Oreste si rivolge al vero attore Oreste.

CORIFEO-ORESTE Così sei rimasto solo. Oreste. Dove sono tutti? Dove sono andati? Dov’è la tua gente? Invocali. Dov’è Pilade? Dov’è Elettra? Guardali. Nascosti nel buio. Quella è la tua gente Oreste. Questo è il tuo pubblico. Ti hanno abbandonato. Non hai che me, Oreste. Hai paura di me Oreste? Noi altri due abbiamo qualcosa in comune. Non possiamo sfuggire al nostro destino. Mi riconosci? Ti ricordi di me? Ci siamo già incontrati noi due. Non ricordi? Dove mi hai già incontrato? Chi sono io? Cerca di ricordare.

Io sono Yorgos. Ho ventotto anni. Studio matematica, non credo in Dio.

Io sono Miltos, ho ventinove anni e sono omosessuale, sono cresciuto in Brasile e sono giunto qui a nove anni.

Dimmi Oreste, chi preferisci che io sia? Rispondi. Rispondi! Chi preferisci che io sia?

Ho ventotto anni, ho una sorella gemella. Mia madre è morta quando avevo nove anni. Io sono Dimitris.

Ho trentadue anni, sono un elettricista e abito a Kifissia. Io sono Argyris.

Ho quarantotto anni e adoro suonare la chitarra, la batteria, la fisarmonica.

Un momento. Mi serve un momento.

Oreste! Oreste! Chi sono? Chi preferisci chi io sia? Io non sono nessuno. Nessuno. Non abbiamo più bisogno di te, Oreste. Gli Oreste non servono più. Nel mondo non abbiamo più bisogno di nessuno. Noi siamo onnipotenti, abbiamo tutto. Siamo qui a rivendicare quello che ci spetta. Non abbiamo bisogno di nessuno, capisci? Proprio nessuno! Questo mondo ci appartiene. (L’Oreste attore aggredisce il Corifeo)

CASSANDRA Lascialo. Lasciateci andare. Basta… Smettetela, vi prego…Lasciateci andare via ora. Lasciateci andare.

Oreste invoca l’aiuto del dio Apollo, il pubblico russo del 2002 invoca l’aiuto della polizia: le Furie si addormentano, i terroristi ceceni lasciano andare alcuni ostaggi e vengono storditi dai gas. Questa scelta teatrale non solo si spiega con la volontà di liberare dal rimorso le Erinni / criminali, alleggerendone il peso delle colpe di cui si sono macchiati, ma è il tentativo di costringere gli attori ad immergersi in uno stato di profondo risveglio dalla realtà. È il momento di quiete, in cui lo spettatore può riconoscere l’ombra del pericolo e scappare.

Le porte del Tempio sono aperte. Sullo schermo, in un blu sfocato, compare l’attrice Clitemnestra e sussurra con una voce ovattata, abbracciata da un suono metallico:

CLITENNESTRA Svegliatevi. Svegliatevi e guardatemi. Sono Clitennestra, vi sto apparendo in sogno. Oreste è partito e voi state ancora dormendo. Cosa state aspettando? Fate il vostro dovere.

Il Corifeo è seduto da solo in platea. Il pubblico, come nell’evento del 2002, è sparso sugli spalti al secondo piano in attesa della liberazione. In sottofondo si sentono grida, le voci di chi sta cercando di scappare ma viene bloccato in uno scontro fisico, una scena paragonabile all’inno delle Erinni che suscitano il terrore in chi, guardandole, soffre per un rimorso, da cui nessuno sfugge. Parte del pubblico crede ancora di trovarsi in una recita. Dinanzi all’ennesimo applauso del pubblico e all’ennesima delusione verso un pubblico imbelle e passivo, il Corifeo si spara un colpo in testa. Il tentativo di redarguire chi guarda è fallito, l’atto di terrorizzare e produrne un effetto catartico non è riuscito a compiersi. L’ennesima battuta finale della tragedia, obbligata a chiudersi nel sangue. Alcuni degli spettatori alzatisi per andare via, credono in realtà che sia un colpo di scena perciò si rimettono a sedere. In questo momento sociale di crisi dell’Occidente, nei rapporti e nella famiglia, il corpo diventa una sorta di altro in cui coabitare; è proprio la perdita della carne dell’altro che spinge il soggetto a preoccuparsi del corpo per ridare alla carne la sua esistenza[8].

Il corpo del Corifeo, inoltre, con la morte perde il centro di potere sulle cose e le cose cadono in un isolamento e in quelle distanze da cui nessuno potrà riportarle all’ordine designato dal corpo stesso. Per cui la morte ridesta il sapore tragico dell’infedeltà allorché la morte dell’altro mi tocca. Sebbene muoia un terrorista, il pubblico ne è così affezionato ormai, da contemplarne la morte. Dopotutto quel Corifeo ha protetto gli spettatori dal vedere chiaramente la realtà, è diventato una parte della loro infedeltà alla vita. Così chiarisce Mehl:

L’infedeltà è per noi il più straordinario approccio con la morte. Nei due casi il corpo scade al rango d’oggetto, ma nel caso dell’infedeltà, questo oggetto resta uno strumento al servizio di un’intenzione. È ciò che noi proviamo dicendo all’infedele “sarebbe stato meglio se fosse morto davvero!”, lasciando intendere in tal modo che il suo corpo non ci rivela un’assenza assoluta, ma un’assenza che si ride di noi e ci sfida, e che è dunque, in sostanza, un modo doloroso e paradossale della presenza equivoca, perché si serve di un corpo per nascondersi invece che per rivelarsi. Inoltre l’infedele e persino traditore possono sempre pentirsi, la loro “morte” può non essere definitiva, mentre l’assenza del morto è disparata: presto il corpo stesso testimonierà segni non equivoci ch’esso ha perso ogni unità, che non è più nemmeno un oggetto. L’infedele è un assente solo per me, il morto è un assente per tutti.[9]

Clitemnestra è una terrorista giustificabile: ha optato per la vendetta perché non vi era altra maniera di contrattaccare uno Stato, rappresentato dal re come istituzione, non domandandosi se fosse un’azione di bene o male, ma cercando un riscatto personale. Dodds, sulla questione del libero arbitrio, dice che «Quando un uomo agisce in modo contrario a quel sistema di disposizioni coscienti, che, si dice, egli conosce, il suo atto non è propriamente suo, gli è stato imposto»[10].

Proprio come Oreste, il protagonista ricerca nella vendetta un modo per far ascoltare la rabbia e frustrazione, contro una madre che gli ha imposto una vita all’oscuro dalla verità, rintanato lontano dalla famiglia, celato agli occhi del mondo.

Il Coro, ivi modellato da Zois sul coro della tragedia grecα, ha lo scopo di condurre Oreste alla ricerca di una purificazione dalla vendetta, secondo il costume greco. Riflette così Eva Cantarella sulla vendetta coltivata nella società greca:

Nelle culture allo stato tribale, a ogni atto offensivo si risponde con una vendetta. Là dove, in assenza di un potere sovraordinato, l’equilibrio sociale è basato sull’equilibrio fra gruppi, la vendetta è una necessità alla quale non si sfugge. Pensiamo al comportamento offensivo più grave, l’omicidio. La vendetta consente in primo luogo di ristabilire un equilibrio numerico, che l’omicidio ha alterato. […] In Omero, comunque, la situazione è già più evoluta. La cultura eroica ha rivestito di motivazioni etiche le necessità materiali, inserendo la vendetta nell’ottica dell’onore. Ogni oltraggio subìto diminuisce la τιμή, lede la considerazione sociale della vittima e del suo gruppo. Solo facendo vendetta chi ha subìto un torto dimostra di essere più forte e valoroso dell’offensore. E l’epica non si stanca di incitare alla vendetta, insistendo senza sosta su questa prospettiva.[11]

E ancora:

La vendetta […] era l’arma che assicurava la τιμή. Da essa non dipendeva solo l’onore individuale, ma anche e soprattutto la riconferma di posizioni di privilegio sociale che non dovevano essere discusse (quella degli ἄγαθοι), di subalternità altrettanto indiscutibili (quella del popolo, il δήμος […]) e – all’interno di queste gerarchie – l’equilibrio nei rapporti di potere tra le famiglie nobili. In altre parole, la vendetta era garanzia dell’equilibrio sociale. Ma questo non toglie che, anche in un mondo dominato da questi valori, siano già percepibili i primi tentativi di limitare, controllandolo, l’uso indiscriminato della forza.[12]

In aggiunta si intravedono casi di una vendetta collettiva tramite lapidazione:

Uccidendo con la pietra, il popolo esprimeva la sua rabbia, manifestava il giusto desiderio di vendicarsi nei confronti di chi, […] aveva provocato dei danni alla collettività: rendeva esplicito e attuava in altre parole – un principio della morale sociale, secondo il quale chi provocava un male ai concittadini meritava una punizione.[13]

Cantarella si spinge oltre e nota un vero e proprio influsso religioso nella vendetta, tanto da sostenere che la violenza fisica fosse un atto di culto, un rito propiziatorio o purificatorio.

«L’uccisione del colpevole immolato agli dèi era dunque atto di espiazione, gesto catartico, atto di culto volto a ristabilire quella che i romani chiamavano la pax deorum»[14].

E chi meglio del personaggio di Clitemnestra nell’Agamennone concepisce questa rivendicazione dell’uccisione come atto rituale e il riscatto che segue nel suo cuore, dopo l’uccisione del marito? Il problema seguente è la mancata accettazione della ποινή, cioè del prezzo del sangue espiato con l’omicidio, da parte della famiglia offesa, cioè Oreste ed Elettra. Ed è proprio qui che intende intervenire Zois, nel finale del film, con il coro di criminali proponendo un’alternativa giuridica sia a Clitemnestra che ad Oreste a proposito di un concetto moderno come il libero arbitrio.
Dodds pensa che i personaggi omerici non si posero mai tale questione, piuttosto distinguevano le azioni normali da quelle compiute in stato di Ate: «queste ultime le fanno risalire, indifferentemente, o alla propria moira o alla volontà di un dio, secondo che considerano la cosa dal punto di vista soggettivo od oggettivo»[15].

Innanzitutto è necessario capire qual è il rapporto che Zois ha voluto ricreare tra il coro di terroristi e il coro tragico. Come sostiene Nietzsche, la tragedia greca ha origine dal coro, («è nata dal coro tragico e […] originariamente era solo coro tragico e nient’altro che coro»[16]), infatti ne indaga la natura, ponendo una critica prima ad Hegel, il quale vedeva nel coro una sub species di «rappresentanza costituzionale del popolo»[17], e poi a Schlegel, che considerava il coro uno «spettatore ideale»[18], in questi termini:

Temiamo che la nascita della tragedia non sia da chiarire né con la stima dell’intelligenza morale della massa, né con il concetto di uno spettatore privo di spettacolo, e riteniamo questo problema troppo profondo perché possa essere sia pur sfiorato da considerazioni così banali.[19]

Dunque, il Coro greco nasce per assolvere alla funzione di catarsi dell’uomo greco[20]: si tratterebbe di una catarsi che conduce all’idea di trost, cioè di un ritrovamento di sé stessi e della propria natura contrariamente all’erlösung in cui è insito il concetto di un abbandono dell’essere a sé stesso.

Per il finale della sceneggiatura il regista inserisce l’elemento del deus ex machina, noto elemento della drammaturgia euripidea, consistente nello scioglimento del finale tramite intervento divino[21]. Giunge sul palco una ragazza, il cui compito è mettere fine all’emorragia delittuosa. Sostituisce le molteplici figure del Corifeo, di Oreste e di Elettra.

DEUS EX MACHINA Buonasera. La scorsa notte ho ballato con un ragazzo fino all’alba. Noi siamo il Coro. D’ora in poi, stasera saremo la vostra guida.

Saranno i cittadini di Atene a decidere.

Coloro che lo ritengono colpevole (rivolta al cadavere del Corifeo) alzino la mano.

Coloro che lo ritengono innocente alzino la mano. (Tutti alzano la mano).

Terzo atto: gli attori e il Coro si spogliano.

Il tutto si corrode in una carica aggressiva: il Coro di Erinni punisce i vivi per celebrare i morti. Oreste è morto, pur essendo stato salvato dal giudizio divino, per cui a pagarla saranno gli attori del pubblico, i morti di Dubrovka. La scena è costruita diversamente dalle Eumenidi, in cui le Erinni minacciano di condurre il vendicatore vivo negli Inferi per sottometterlo lì alla punizione che gli spetta. Sicuramente un aspetto resta: nell’Orestea, significativamente nella parodo dell’Agamennone, la Erinni è presentata come ministra di Zeus nell’atto di punire coloro che si sono macchiati di infrazioni, così nelle Coefore la Erinni è associata all’azione di Oreste prossimo ad uccidere la madre, atto presentato come espressione della giustizia divina ctonia[22]. Nel film il Coro assume la funzione regolatrice di giustizia, assolta grazie alla voce di Clitemnestra che li ha svegliati dal sogno.

Il film è una tragedia greca, in fondo vive un’aporia: Interruption si pone all’interno di un linguaggio che nega ciò che afferma per mezzo di scelte fintamente empatiche, svelte e per nulla popolari, destinate a una delucidazione del senso scenico con cui crea un legame indissolubile.

Poi arriva la pioggia sul Coro: un risultato che pare avulso dal bisogno di ricostruire una comunità di persone, come auspicato dal deus ex machina. Neanche la pioggia risolve i contrasti e lava le coscienze. Il Coro si è trasformato in Eumenidi, ma solo perché ha cessato di esistere, quando la sua guida è morta, morendo così ogni effettiva resa della minaccia terroristica: ciò è stato possibile anche grazie alla condivisione di un linguaggio segmentato di finzione e realtà.

Interruption
La locandina del film Interruption, per la regia di Yorgos Zois, prodotto da Pan Entertainment, EZ Films, JDP (2015) e distribuito da Tycoon Distribution

Note:

[1] Per un maggiore approfondimento si consulti il sito: http://www.pravdabeslana.ru/nordost/dokleng.htm

[2] Esse contrappongono al nazionalismo laico di Maskhadov (che ha portato la Cecenia a una relativa indipendenza e ne è stato presidente laico), l’ideologia integralista wahhabita (un movimento che propone una rigida lettura del Corano) e la guerra santa per la “liberazione dagli infedeli” nelle repubbliche del Caucaso russo. Si veda https://www.focus.it/cultura/curiosita/che-cosa-e-accaduto-al-teatro-dubrovka-di-mosca-nel-2002

[3] NIVAT 2006, pp. 413-415.

[4]  Gunmen release chilling video archiviato il 23 novembre 2007 in Internet Archive.

[5] «Φωτιές ανάβουν μέσα στη νύχτα.

Ο βασιλιάς Αγαμέμνων επιστρέφει από την Τροί μετά από δέκα χρόνια πόλεμου.

Συνοδεύεται από την ερωμένη του Κασσάνδρα.

Η γυναίκα του Κλυταιμνήστρα συνομωτεί με τον εραστή της Αίγισθο και σκοτώνυον του Αγαμέμνονα.

Ο γιος τον Ορέστης εκδικείται για τον Θάνατο του πατέρα του και σκοτώνει τη μητέρα του Κλυταιμνήστρα.

Μετά τον φόνο, ο Ορέστης, καταδιώκεται από τις ερινύες.

Ο Θεός Απόλλωνας τις κοιμίζει και ο Ορέστης, δραπετεύει στην Αθήνα.

Η δίκη τον Ορέστη ξεκινάει.

Για πρώπη φορά στην Ιστορία, την απόφαση δεν θα την πάρει ένας δικαστής αλλά ο λαός της Αθήνας».

[6] In merito alla pratica del travestimento dell’attore nell’antichità e all’individuazione del vero e del verosimile si veda il contributo di INGROSSO 2020, pp. 60-89.

[7] Cfr. INGROSSO 2020, p. 4.

[8] In una pagina dedicata al significato del cadavere Galimberti scrive: «Noi comprendiamo la morte quando evitiamo di interrogare un corpo per non udire il suo silenzio, quando teniamo lontano la nostra vita dalle ragioni in cui potremmo incontrare quel silenzio, rivelativo di un corpo degradato a oggetto, ricaduto nella condizione di “cosa”, essendo la cosa ciò che riposa in un’assoluta ignoranza di sé e del mondo. Ecco cosa avviene con la morte, non la separazione dell’anima dal corpo, ma la separazione del corpo dal mondo, per cui il mondo non esiste più come luogo in cui il corpo si proietta e si progetta, ma solo come terra che irrimediabilmente lo ricopre. Per questo con la morte i corpi cambiano nome e diventano “salme”, “cadaveri”, perché se il corpo è la totalità delle relazioni significanti il mondo, per cui si definisce in relazione all’aria che respira, all’acqua che beve e al cibo che mangia, con la morte diventa “cosa”, che con le altre cose ha solo un rapporto di indifferente esteriorità. Come dice Sartre, a differenza del corpo, “il cadavere non è più in situazione”; la sua espressione, stupefatta, serena, discreta, non ha più nulla di psichico, perché non è più corpo che vive ma semplice vestigio condannato a esprimere il puro passato di una vita che nessun futuro potrà mai più riprendere. Per questo, di fronte al cadavere, cessa ogni rancore.

È interessante constatare che, fra le numerose opere dedicate al problema della morte, il cadavere è rimosso quasi sistematicamente. E non crediamo per una pura e semplice dimenticanza, perché il cadavere per definizione c’è, e il fatto di esserci sottolinea proprio il non-esserci-più di un corpo in situazione. Fra tutti gli animali, l’uomo è l’unico ad avere un mondo come correlato del proprio corpo, come luogo dei propri progetti e delle proprie proiezioni, per cui, fra tutti gli animali, è anche l’unico che, non sopportando la vista di un corpo separato dal suo mondo, lo seppellisce, introducendo, come dice E. Morin “una breccia bio-antropologica tra sé e l’animale”, in cui è espressa un’autentica specificità dell’uomo. Non è forse vero che, presso gli antichi, il cadavere più pericoloso non era quello avanzato nella putrefazione, ma quello a cui non era stata resa la dovuta sepoltura, per cui restava in vista, quasi a testimoniare, con la sua freddezza minerale, la differenza assoluta tra il corpo e il cadavere, tra vita e la morte a cui nulla si oppone, nulla almeno che la possa rendere intelligibile? L’esposizione del cadavere, che risulta persino così difficile da nominare (la “salma”, le “spoglie”, i “resti”), tiene a coloro che gli sono intorno un discorso senza soggetto e senza contenuto che, simile al discorso dell’altra parte di noi stessi, rinvia selvaggiamente ciascuno a quell’originaria individualità che la morte scompone. Sotto la pelle, infatti, incomincia quella sorta di uguaglianza fisiologica per cui l’osso dell’uno assomiglia all’osso dell’altro, la carne dell’uno a quella dell’altro, in quella contrazione dello spazio, per cui i cadaveri si possono accostare o addossare senza che l’uno con l’altro si disturbino. Eppure i morti non si trovano mai al loro posto e ossessionano l’inconscio dei sopravvissuti che si sforzano di scordarli; di qui il tentativo di ogni cultura di rifiutare la riduzione del corpo a cadavere, integrando simbolicamente nella vita collettiva il calore del corpo raggelato nel cadavere. La mummia, lo scheletro, il teschio, l’anima, che della vita del corpo è la più raffinata metafora, rappresentano ciò che nella realtà umana non è più visibile, né palpabile, le sue credenze, i suoi valori, la sua “cultura”. Contro le conseguenze negative della decomposizione, tutte le comunità umane reagiscono tentando, a livello culturale, di rovesciare i termini della spietata equazione della natura che, come dice Darwin, “uccide più di quanto non conservi”». GALIMBERTI 1987, pp. 257-259.

[9] BUTLER 2003, p. 83.

[10] DODDS 1993, p. 29.

[11] CANTARELLA 2002, p. 26.

[12] CANTARELLA 2002, pp. 60-61.

[13] CANTARELLA 2002, p. 73.

[14] CANTARELLA 2002, pp. 91-92.

[15] DODDS 1993, p. 10-11.

[16] NIETZSCHE 2003, p. 109.

[17] HEGEL 1976, p. 1353.

[18] SCHLEGEL 1809, p. 58.

[19] NIETZSCHE 2003, p. 111. E ancora Nietzsche scrive: «Il Greco si è fabbricato per questo coro le impalcature aeree di un finto stato di natura e vi ha collocato finti esseri naturali. La tragedia è cresciuta su questo fondamento e certo già per questo è stata fin dal principio dispensata da un penoso ritratto della realtà! Con questo non si tratta di un mondo fantastico posto arbitrariamente fra il cielo e la terra, bensì di un mondo ugualmente reale e credibile come, per il Greco religioso, l’Olimpo con tutti i suoi abitanti. […] Forse acquisiamo un punto di partenza per la nostra considerazione se pongo l’affermazione che il Satiro, il finto essere naturale, rispetto all’uomo civile sta nello stesso rapporto che la musica dionisiaca alla civiltà Di quest’ultima Richard Wagner dice che viene annullata dalla musica come il lume dalla lampada dalla luce del giorno. Nella stessa maniera, credo, l’uomo civile greco si sentiva annullato al cospetto del coro dei Satiri: e l’effetto immediato della tragedia dionisiaca consiste nel fatto che lo Stato e la società, in generale gli abissi fra uomo e uomo, cedono ad un preponderante sentimento di unità, che riconduce al cuore della natura.» NIETZSCHE 2003, p. 112.

[20] «La consolazione metafisica-lasciata alla fine in noi, come già qui accenno, da ogni vera tragedia-per cui in fondo alle cose la vita è, nonostante tutto il variare delle apparenze, potenza indistruttibile e gioiosa, appare con corposa chiarezza come coro di Satiri, come coro di esseri naturali che pero così dire vivono incorrotti dietro ogni civiltà e, nonostante tutto il variare delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi. Con questo coro si consola il Greco meditabondo e dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più grave, che con sguardo tagliente ha contemplato lo spaventoso processo d’annientamento della cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà della natura, e corre il pericolo di aspirare ad una buddhistica negazione della volontà. Lo salva l’arte, e attraverso l’arte lo salva a sé-la vita». NIETZSCHE 2003, p. 112-113.

[21] Si rimanda agli studi di NEWIGER 1989; BELARDINELLI 2000.

[22] Cfr. DI BENEDETTO – MEDDA 2018, pp. 114-115.

 

BIBLIOGRAFIA

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Di Benedetto – E. Medda (a cura di), Eschilo. Orestea, Milano 2018.

E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, tr. di Virginia Vacca De Bosis, Firenze 1993.

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J. Newiger, Ekkyklema e mechané nella messa in scena del dramma greco, «Dioniso» 59, 1989, pp. 173-185. (Ekkyklema und Mechané in der Inszenierung des grichischen Dramas, «Würzburger Jahrbücher für die Altertumswissenschaf» 16, 1990, pp. 33-42 = Drama und Theater. Ausgewählte Schriften zum griechischen Drama, Stuttgart 1996, pp. 96-106).

F.W. Nietzsche, La nascita della tragedia, a cura di Vincenzo Vitiello, Milano 2003.

A. Nivat, The Black Widows: Chechen Women Join the Fight for Indipendence-and Allah, «Studies in Conflict & Terrorism», 29, 2006, pp. 413-419.

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