Népmese napja, la Giornata della fiaba popolare ungherese

 

Csontváry Kosztka Tivadar, Magányos cédrus (“Il cedro solitario”), olio su tela (1907), Csontváry Museum. Foto di Szilas in pubblico dominio

Il 30 settembre ricorre l’anniversario della nascita di Benedek Elek (1859-1929), scrittore, traduttore, giornalista, pedagogista ed etnografo ungherese che dedicò la sua vita alla raccolta delle fiabe popolari da lui definite «tesori dell’anima del popolo ungherese». Per la sua intensa attività di raccolta, scrittura e traduzione di fiabe popolari, Benedek viene ancora oggi ricordato come il nagy mesemondó, il grande narratore di fiabe. Dal 2005, su iniziativa della Magyar Olvasástársaság (“Società ungherese di lettura”), il 30 settembre è divenuto, proprio in onore di Benedek, la Giornata della fiaba popolare (népmese napja), che coincide con la Giornata mondiale della traduzione.

Cresciuto ascoltando i racconti popolari degli anziani della natia Kisbacon, paesino della Transilvania passato alla Romania in seguito al Trattato di Trianon (4 giugno 1920), Benedek maturò ben presto uno spiccato interesse per la cultura popolare, in particolar modo per la favolistica ungherese. Fin da giovane prese parte ad alcune spedizioni etnografiche in compagnia dell’amico Sebesi Jób grazie al quale entrò in contatto con la Kisfaludy Társaság, società letteraria di cui divenne membro dal 1900. Le fiabe raccolte in questo frangente vennero pubblicate nel 1882 in Székelyföldi gyűjtés (“Raccolta della terra dei secleri[1]”). Benedek si dedicò anche alla traduzione e alla riscrittura di fiabe classiche, tratte principalmente dalle Mille e una notte e dalle Kinder- und Hausmärchen dei Gebrüder Grimm che confluirono in varie raccolte intitolate Kék, Piros, Ezüst, Arany mesekönyv (“Libro di fiabe azzurro, rosso, argento, d’oro”). La sua opera monumentale fu Magyar mese- és mondavilág (“Mondo delle fiabe e delle leggende ungheresi”), raccolta originariamente in cinque volumi, pubblicata tra il 1894 e il 1896 in occasione dei festeggiamenti del Millennium, i mille anni di presenza degli ungheresi nel Bacino dei Carpazi.

Benedek Elek, foto di ignoto (1924) in pubblico dominio

Il contributo di Benedek Elek fu fondamentale per promuovere il rinnovamento della letteratura ungherese nei secoli XIX e XX: a lui spetta il merito di aver creato il vero e proprio canone della fiaba popolare ungherese. Il suo primo pensiero fu quello di rendere le fiabe popolari ungheresi accessibili a tutti, in modo che potessero essere lette con diletto da giovani e anziani che ne avrebbero tratto «beneficio per l’anima». Si chiese pertanto quale fosse la lingua da impiegare nei testi delle fiabe, in quanto ciascuna era trasmessa in una variante dialettale differente. All’epoca non erano ancora stati pubblicati studi sulle tecniche traduttologiche, ma ciononostante Benedek rese unitari i testi delle fiabe sia dal punto di vista stilistico che linguistico e lo fece non impiegando la lingua ungherese standard in sostituzione ai dialetti, bensì si adoperò per creare una nuova variante che potremmo chiamare Benedek Elek-i népnyelv (la “lingua popolare di Benedek Elek”). Essa ha come base l’ungherese moderno di uso comune ma viene arricchita con un gran numero di elementi dialettali, quali modi di dire, proverbi, oppure semplicemente con espressioni arcaicizzanti tipiche della cultura popolare. Per Benedek era essenziale “consegnare” alle nuove generazioni la favolistica ungherese quale testimone della quotidianità, degli affanni e delle gioie del proprio popolo. “Consegnare” è volutamente rimarcato, in quanto è lo stesso Benedek a impiegare questa espressione (átad in ungherese) nel peritesto di chiusura alla raccolta Magyar mese- és mondavilág, intitolato Itt a vége (“Questo è tutto”). Consegnare le fiabe alle nuove generazioni è un modo per sensibilizzare la loro anima e trasmettere i valori del popolo ungherese in quanto:

Il popolo ungherese ha riversato anche nelle fiabe le eccellenti caratteristiche che lo contraddistinguono da ogni altro popolo: la sua immaginazione coraggiosa che vola in alto, ma tenendo ben saldi sani princìpi lontani dalla smoderatezza e dall’esagerazione; il suo umorismo inesauribile, le sue narrazioni geniali; il suo amore per il linguaggio costumato che offende molto di rado la pudicizia e il sentimento morale; […].[2]

Secondo Benedek le pubblicazioni rivolte ai ragazzi costituivano uno dei generi letterari più difficili, in quanto anche lo scrittore più geniale avrebbe fallito se al talento non avesse affiancato un profondo sentimento e un immenso amore per il mondo fanciullesco. Nella sua teoria pedagogica che ebbe modo di formulare “operando sul campo” come editore di riviste per ragazzi, i giovani dovevano incontrare la letteratura tradizionale in compagnia di genitori, pedagoghi e scrittori ai quali spettava il compito di favorire la loro lelkesítés, ovvero entusiasmarli e incoraggiarli nella lettura. In questo ambito Benedek affermò si operare come magvető (“seminatore”) e gyűmölcsfaültető (“piantatore di alberi da frutto”) in grado di fornire al seme o alla pianticella il giusto nutrimento letterario affinché possa sviluppare radici profonde e dare buon frutto, forgiando la propria identità. Era pertanto fondamentale che la letteratura fosse di alta qualità, in modo che potesse essere impiegata non solo tra le mura domestiche, ma anche negli istituti scolastici che allora non disponevano di testi adeguati per la formazione dei ragazzi. Durante la sua breve esperienza politica (1887-1902), Benedek ebbe modo di presentare in Parlamento le questioni che più gli stavano a cuore, ovvero quelle relative alla letteratura giovanile, poesia popolare, lingua nazionale e all’istruzione pubblica. Nello specifico egli insistette nella necessità di finanziare la scuola pubblica e le case editrici, settori che versavano in condizioni misere, nonché la necessità di disporre di buone traduzioni di opere letterarie straniere in ungherese, al fine di educare i ragazzi alla fratellanza attraverso un’educazione multiculturale.

In onore all’operato di Benedek, desidero proporvi una fiaba popolare ungherese da lui raccolta e da me tradotta in lingua italiana, unendo pertanto le due passioni (la favolistica e la traduzione) che fino all’ultimo sostennero la “stanca mano” di Elek apó (“nonno Elek”) per trasmettere la letteratura e il folklore ungherese.

 

 

Réka királyné sírja (“La tomba della regina Réka”), contenuta in Magyar mese- és mondavilág

 Nel famoso bosco di Rika[3], sulla sponda del ruscello Rika[4], sotto una gigantesca roccia riposa Réka, la moglie di Attila.

Vi ho già raccontato che il potente re degli unni, ogni volta che ritornava dalla battaglia, si ritirava nel bosco di Rika. Gli piaceva abitare qui. Nel bosco di Rika si trovava il colle di Hegyes-tető[5]: qui si ergeva il palazzo di Attila dove abitava con la moglie Réka e i tre figli belli e prodi.

Un giorno Réka fece attaccare quattro focosi puledri alla carrozza dorata foderata di velluto e si fece condurre tra le siepi e i fossati del bosco di Rika.

Proprio mentre i destrieri stavano galoppando sulla collina di Bikás-tető[6], un toro inferocito venne incontro alla carrozza, muggendo in modo terribile. I destrieri si spaventarono, galopparono per monti e valli, attraverso siepi e fossati, ad un tratto la carrozza si capovolse, e la regina Réka precipitò nel ruscello di Rika, morendo di una morte orribile.

Ad Attila fu portata la notizia, come pure il corpo morto della regina Réka. Un panno nero a lutto avvolse la corte di Attila: era morta la regina che il popolo amava intensamente.

La camera ardente per la regina Réka durò tre giorni. Nel frattempo la triste novella venne portata in ogni luogo abitato dagli unni: da ogni dove venivano uomini, donne, bambini per vedere ancora una volta, seppur nella bara, la buona regina.

La regina Réka fu sepolta il quarto giorno e nel momento della sepoltura tutte le persone vennero allontanate dal bosco di Rika, affinché nessuno sapesse dove Réka sarebbe stata sepolta. Il corpo venne posto in una tripla bara: la prima era dell’oro più puro, la seconda di bell’argento chiaro e la più esterna di metallo.[7] Dopodiché quattro schiavi sollevarono la tripla bara e la portarono giù, lungo la sponda del ruscello di Rika, e qui la misero sotto l’enorme roccia dove ancora oggi si trova – la può vedere chiunque vi si rechi –, scavarono una fosse molto profonda e vi posero la tripla bara. Poi ricoprirono per bene la fossa, nascondendola con zolle erbose: non rimase traccia che qualcuno vi fosse stato sepolto.

Nel frattempo Attila se ne stava sul colle di Hegyes-tető da solo e quando si presentarono al suo cospetto i quattro schiavi, li abbatté con la propria spada, gettandoli giù dalla cima.

La regina Réka poteva dormire in pace, nessuno avrebbe disturbato la sua tomba. Prima che giungesse qualcuno, le belve del bosco avevano già divorato i cadaveri dei quattro schiavi e di essi non era rimasta neppure la polvere.

Questa enorme roccia si trova ancora oggi lungo la sponda del ruscello Rika, sotto di essa dorme pacificamente la regina Réka, nessuno turberà la sua silenziosa tranquillità.

 

 

Bibliografia di riferimento

Zanchetta 2020. Benedek Elek, C’era una volta o forse non c’era. Fiabe cosmologiche ungheresi, traduzione e cura di Elisa Zanchetta, Vocifuoriscena, Viterbo 2020.

La copertina del libro C’era una volta o forse non c’era… Fiabe cosmologiche ungheresi che traduce e analizza fiabe popolari con testo ungherese a fronte, tratte dall’opera Magyar mese- és mondavilág di Benedek Elek: il volume è a cura di Elisa Zanchetta e pubblicato da Vocifuoriscena nella collana Bifröst

Note:

[1] Ungherese székely (plurale székelyek). A differenza della concezione occidentale di Attila, gli ungheresi, e in particolare i secleri, sono molto fieri delle loro supposte origini unne. Molte e svariate sono infatti le ipotesi relative alle origini dei secleri, alcune delle quali vorrei menzionare brevemente. Anonymus nei Gesta Hungarorum (1200-1210 ca.) scrisse che i secleri facevano parte delle genti di re Attila che avevano aiutato i magiari a stabilitisi nel bacino dei Carpazi, precedendoli e sconfiggendo i popoli presenti in quest’area; secondo un’altra leggenda, i secleri sarebbero stati i tremila prodi che Csaba, il figlio prediletto di Attila, avrebbe lasciato nel Bacino dei Carpazi (definito Attila földje, “terra di Attila”) affinché occupassero il suolo mentre lui sarebbe ritornato in Scizia a prendere i magiari che non avevano voluto in precedenza seguirlo (cfr. la fiaba A Hadak útja, “La via delle schiere”, contenuta nel volume Magyar mese- és mondavilág).

[2] Zanchetta 2020, pp. 349-350

[3] Rika-erdő.

[4] Rika-patak.

[5] Letteralmente “cima del monte”, rilievo (482 m) situato lungo l’ansa del Danubio dal quale si può godere di una splendida vista del territorio circostante.

[6] Letteralmente “cima del toro”, collina (300 m) che si trova nella città di Eger in Ungheria settentrionale, capoluogo della provincia di Heves.

[7] Secondo Prisco di Panio, fu Attila a essere posto in una tripla bara, l’interna d’oro massiccio, l’intermedia d’argento massiccio e l’esterna di ferro e poi adagiata in una semplice fossa di cui non sarebbe rimasta traccia alcuna. Anche Jordanes riferì che nottetempo «seppellirono il suo corpo in terra, sigillando le sue bare, la prima con l’oro, la seconda con l’argento e la terza con la forza del ferro» (cit. in Scalabrini 1997). Questa informazione è ripresa anche nella fiaba intitolata A hadak útja (“La via delle schiere”), anch’essa contenuta nella raccolta di Benedek Elek, la quale narra invece che la bara sarebbe stata posta sul fondale di un corso d’acqua (probabilmente il ruscello di Rika?). Nella riscrittura della leggenda di Attila fornita da Komjáthy István (1917-1963) nel suo Mondák könyve (“Libro delle leggende”, 1964), sarebbe stato un sogno di Réka (qui nella variante Ríka) a predire come sarebbe stata la sepoltura del marito: «Attila koporsója: Napkirály hajfonata, Hold mosolya és Éjfél pillantása legyen» («La bara di Attila dovrà essere [come] la treccia del Re del Sole, il sorriso della Luna e l’occhiata della Mezzanotte»). Al che il saggio Torda, che secondo alcune leggende sarebbe stato il capo unno padre di Bendegúz, nonché nonno di Attila, fornisce la seguente interpretazione: «Attilának a föld alatt is palotát kell epíteni. Koporsóba kell tenni. Hármas koporsóba. Aranyba, ezüstbe és vasba. Ezt jelenti Napkirály hajfonata, Hold mosolya és Éjfél szempillantása» («Bisogna costruire un palazzo per Attila anche sottoterra. Deve essere sepolto in una bara, una tripla bara d’oro, d’argento e di ferro. Questo sta a significare treccia del Re del Sole, sorriso della Luna e occhiata della Mezzanotte»).

Népmese napja
Népmese napja, la Giornata della fiaba popolare ungherese

 

In occasione della Giornata della fiaba popolare ungherese 2022, aggiorniamo l’articolo con la versione integrale di una fiaba, Il miglio d’oro (traduzione a cura di Elisa Zanchetta):

Il miglio d’oro

C’era una volta un pover’uomo. Questo pover’uomo aveva tanti bambini quanti i fori di un setaccio, perfino uno in più. Due minuscoli buoi dalle corna storte e due pezzettini di terreno costituivano la sua unica ricchezza. In uno seminò miglio, mettendoci i due bambini a sorvegliare. Un giorno i vicini dissero al pover’uomo:

«Ehi, vicino, ti è germogliato miglio d’oro».

«Ma dai! Andate pure a vedere,» disse il pover’uomo, «io finora non me n’ero neppure accorto.»

Ordinò con impeto ai ragazzi che custodissero con attenzione quella preziosa manna, perché se fosse mancato uno stelo, sarebbero morti dell’orribile morte dei morti. Il giorno stesso irruppe una cornacchia che si portò via uno stelo. Oh, buon Dio, il figlio minore si dette all’inseguimento, corse attraverso fossati e cespugli, ma invano, non riuscì ad acchiappare la cornacchia. Il povero bambino corse fino a ritrovarsi in un’immensa macchia. Mentre procedeva, scorse un grande fuoco, accanto ad esso un óriás1 talmente enorme da far spavento che se ne stava lì accoccolato. Quell’óriás aveva il naso che gli arrivava fino alle ginocchia. Il bambino si infilò dietro la sua schiena, ma in quell’istante l’óriás starnutì così forte che il vento originatosi lo scagliò a dodici passi di distanza. Piangeva il povero bambino, singhiozzava amaramente.

«Mmm,» mormorò tra sé l’óriás, «che razza di voce umana sento?», e tese le orecchie in ogni direzione per capire da dove veniva quel pianto. Si voltò e inciampò proprio nel bambino.

«E tu, mezza cartuccia, come sei fino qui?»

Il bambino raccontò, tremando e piagnucolando, quale sventura gli era capitata e che ora non osava ritornare a casa. All’óriás fece spezzare il cuore e lo tenne con sé, come un figlio.

Passò molto, molto tempo e il bambino divenne un prode giovanotto. Un giorno l’óriás gli disse:

«Orbene, figliolo, ti ho allevato e ora è giunto il momento che tu prenda moglie!».

«Invero non sarebbe male, babbo óriás,» disse il giovanotto, «ma chi mai posso sposare in questa immensa foresta?»

«La troverai al di fuori di qui. All’estremo limitare del bosco c’è un lago nel quale ogni santo mezzogiorno si fanno il bagno tre principesse. Vacci e mentre loro si faranno il bagno, ruba la veste della minore. Qualsiasi cosa ti urleranno, non ti voltare, altrimenti saranno guai.»

Il giovanotto si incamminò e veramente le tre principesse si stavano facendo il bagno in quel luogo. Ciascuna di loro era bella come una fata. Ovvio che gli sarebbe piaciuto fare il bagno con loro, ma si fece forza, si buttò pancia a terra e strisciò tra i cespugli fino a dove le principesse si erano tolte le vesti.

E ora, giovanotto, quale appartiene alla minore?, si chiedeva tra sé.

Non se ne stette a lungo a scegliere, ma ne prese uno a caso e dopo di che, via, scappa e fuggi!, se la diede a gambe. Gli era capitato di prendere proprio la veste della maggiore. Le fanciulle si accorsero che qualcuno era fuggito con una loro veste, corsero tra i cespugli e videro che aveva preso quella della maggiore. Iniziarono a gridare a squarciagola:

«Non fuggire, folle! Guarda che bella pelle abbiamo!».

Il giovanotto, come fosse stato stregato, dimenticò il consiglio dell’óriás e si voltò. Le fanciulle lo raggiunsero, lo conciarono per le feste e il giovanotto dovette tornare a casa senza la veste. Il giorno seguente andò allo stesso modo. Il terzo giorno l’óriás gli disse:

«Ascoltami bene, se domani non prenderai la veste della minore e ti volterai a guardare, ti impalerò la testa!».

Questa volta il giovanotto non prese più la cosa per burla. Sapeva che con l’óriás non c’era da scherzare. Il terzo giorno si intrufolò di nuovo tra i cespugli, scelse la veste della principessa minore e fatto ciò, – via, scappa e fuggi! -, si mise a correre come se gli avessero preso entrambi gli occhi. Le fanciulle si diedero all’inseguimento, ripetendo fino allo stremo: «voltati, ehi, guarda che bella pelle abbiamo!», ma ovviamente non si voltò. Quando videro che non funzionava, presero a lamentarsi, a maledirlo: ma potevano maledirlo fin che volevano, lui non si voltò. Cosa fare, cosa non fare, la principessa più giovane fuggì di corsa inseguendo il giovanotto, in preda a una grande tristezza, inoltrandosi nella macchia. A un certo punto giunsero alla casa dell’óriás. La principessa piangeva, piangeva ancora, ma poco alla volta il pianto svanì. Le piaceva quel giovanotto per bene. In un principe non avrebbe cercato qualcosa di diverso.

Trascorsero tre giorni e l’óriás disse al figlio adottivo:

«Orbene, figliolo, ora hai anche una moglie e ti affido a Dio. Vai, andate a vedere mondi e paesi, perché una coppia così giovane non si può nascondere in un seme di canapa».

Detto ciò, soffiò in un fischietto e in un batter d’occhio si radunarono volatili in quantità così sterminata e impenetabile allo sguardo. Perché, detto tra noi, l’óriás era il re degli uccelli. Liberò subito uno stormo di cornacchie e ordinò loro di uccidere un bufalo. Non aveva ancora terminato di dirlo che una grande pelle di bufalo era distesa a terra. L’óriás vi cucì con diligenza i giovani e ordinò ai corvi di portarli sul loro dorso e di non osare fiatare fino a quando non sarebbero giunti al castello di vetro.

Volavano i corvi veloci come il vento, senza neppure fiatare fino a quando furono giunti ai piedi del castello di vetro. Ma quando alzarono gli occhi verso quel castello di vetro terribilmente alto, si voltarono verso la giovane coppia e dissero che non ce l’avrebbero fatta senza prima riposare.

Poi sbuffarono un po’, si avviarono e volarono, volarono sempre più in alto, tanto che la stella della sera si poteva raggiungere con un buon slancio, ma quando stavano per giungere sulla cima del castello, le loro energie si esaurirono e dovettero rassegnarsi a scendere.

Che grande tristezza! L’óriás li avrebbe scuoiati vivi se non fossero stati capaci di giungere nel castello di vetro. Mentre si affliggevano in questo modo, un corvo se ne uscì dicendo:

«Ovviamente potremmo portare su i giovani in un contenitore più leggero!».

«Eccome!», dissero gli altri.

Ai piedi del castello c’era un mulino. Entrarono e chiesero al mugnaio una botte, all’interno della quale fecero accomodare la giovane coppia. Misero i cerchi per chiudere le assi e dopo di che si misero per via. Partirono all’alba e allo scendere della sera erano fortunatamente giunti sulla sommità. Posero la botte sul tetto del castello e si misero a dare colpi da un lato e dall’altro. I cerchi saltarono via e uscì la giovane coppia. Andarono immediatamente dal re del castello di vetro che era il re nero in persona. Entrarono nella grande sala di vetro e si presentarono al cospetto del re:

«E voi chi siete, cosa fate, qual buon vento vi porta?», chiese il re.

«Vostra maestà reale, mettiamo la nostra vita e la nostra morte nelle vostre mani,» disse il giovanotto, «noi siamo venuti per cercare servizio.»

«Allora siete giunti al momento giusto: proprio ora ho licenziato il mio primo cocchiere e la camiera da camera, assumerò voi al loro posto. Riguardo a te, fanciulla, non dovrai fare nient’altro che spazzare ogni mattino le sei sale, ma non cercare di entrare nella settima, altrimenti morirai dell’orribile morte dei morti.»

E così trascorsero due, tre giorni, ma a un tratto fu presa da tale curiosità che non riuscì in alcun modo a trattenersi, così entrò nella settima stanza.

Signore mio, Creatore del cielo e della terra, cosa videro i suoi occhi! Un uomo talmente calvo da far ribrezzo se ne stava seduto in una botte, solo la testa sbucava.

La povera fanciulla si spaventò, tanto che per poco non si dava alla disperazione. Avrebbe voluto fuggire di corsa, ma l’uomo calvo le rivolse la parola con una voce lamentevole, flebile:

«Non fuggire, non avere paura di me, bellissima fanciulla, ma liberami piuttosto!».

«E tu chi sei e cosa fai?», chiese la fanciulla.

«Io sono il calvo fatato, il re nero mi ha sottratto la mia terra e mi ha fatto rinchiudere in questa botte, affinché non vedessi mai più il sole benedetto. Ascoltami, fiore meraviglioso, rimuovi i cerchi della botte e sarò al tuo servizio!»

La supplicò e la implorò a tal punto che il cuore della fanciulla s’intenerì e rimosse un cerchio. La botte andò subito in pezzi e il calvo fatato uscì.

«Ascoltami bene,» disse alla fanciulla, «per te ora “il miglio è bruciato”, ma anche per me, dunque andiamo, spingiamoci fin dove arriva lo sguardo!»

Ma la fanciulla insistette che non se ne sarebbe andata senza il primo cocchiere, perciò il calvo fatato la prese e la portò con sé con la forza. Il giorno seguente il re nero andò nella settima sala ed ecco che del calvo fatato non era rimasta neppure la polvere! Cercarono la cameriera, ma neppure lei si trovava, era come se la terra l’avesse inghiottita. Il primo cocchiere, udito ciò, disse al re nero:

«Vostra maestà reale, metto la mia vita e la mia morte nelle vostre mani: non posso più rimanere qui, devo andare a cercare mia moglie».

Il povero giovanotto si mise per via, superando sette volte sette paesi, attraversando mondi e paesi. Mentre camminava, si imbatté in un castello alla cui finestra se stava appoggiata una bella donna. Guarda e riguarda ed era davvero sua moglie.

Dio mio, sembrava gli avessero disteso il tappeto rosso: quale gioia! Aveva un occhio che piangeva e l’altro che rideva. Dopo essersi incontrati decisero di fuggire. Il calvo fatato era a caccia e chissà quando sarebbe ritornato a casa. Fecero fagotto e si misero per via, ma proprio in quell’instante il castello risuonò forte.

«Oh, caro Gesù! È tornato a casa il calvo fatato e ora moriremo dell’orribile morte dei morti!», gridò spaventata la donna.

Cosa fare, cosa non fare, svelta svelta fece nascondere il marito sotto il letto.

Giunse il calvo fatato e iniziò a fiutare in giro.

«Ehi, donna, sento odore di umano qui dentro!»

«Anima mia, mio signore, calvo fatato, di certo qui non c’è anima viva.»

Ma il calvo fatato non credette alla donna, si avvicinò al letto e prendendolo per i capelli, tirò fuori il povero giovanotto da sotto il letto.

«Allora, mezza cartuccia, quale scegli tra questi tre mali: che ti getti in acqua, che ti bruci oppure che ti tenga recluso fino alla fine dei tuoi giorni?»

«Non fargli nulla, calvo fatato, non ti ricordi che mi avevi promesso di servirmi, dato che ti avevo fatto del bene?»

La donna tanto pianse e tanto si lamentò che il calvo fatato lasciò andare il povero giovanotto.

Andò la povera testolina, attraverso monti e valli e, sul fare della sera, giunse a una casupola. Vi entrò e trovò un’anziana signora, la salutò:

«Dio vi dia la buona sera, nonnina!».

«Sei fortunato ad avermi chiamata “nonnina”, altrimenti ti sarebbe andata male. Ma perché t’incomodi, qual buon vento ti ha condotto qui?»2

Narrò in quale grande guaio si trovava.

«Caro figliolo, di certo non è un gran guaio, ma ti do un consiglio che forse ti rallegrerà. Recati dal re rosso ed entra al servizio come cocchiere! Dal re rosso un anno dura tre giorni e se saprai servire questi tre giorni con onestà, tutto volgerà per il meglio. Stammi a sentire! Il re rosso ha centoventi cavalli, uno dei quali è la figlia del re, la quale ha un’indole talmente maligna che quando chiuderai gli occhi, lei scomparirà dalla mandria e allora il re ti farà impalare.»

Il povero giovanotto ringraziò per il buon consiglio, si recò alla corte del re rosso dove venne subito assunto come cocchiere. Il re rosso gli disse:

«Ecco qui i miei centoventi cavalli, giovanotto, te li affido, e stasera stessa andrai con essi in campo aperto, dove trascorrerete la notte sotto le stelle. Ma ti anticipo che uno di loro scomparirà ogni notte in modo inspiegabile, rincasando solamente il giorno successivo. Se metterà nel sacco anche te, ne vedrai delle belle».

Scese la sera e il povero giovanotto condusse i centoventi cavalli nel campo. Ma ecco che allo scoccare della mezzanotte udì una qualche voce. Era qualcuno che ripeteva: «Sdraiati, János, sdraiati, János!».

Guardò dappertutto, ma non vide anima viva. Pensò fra sé che si sarebbe sdraiato per vedere cosa sarebbe accaduto, ma che avrebbe tenuto gli occhi semiaperti. Ma ecco che – Vergine Maria, san Giuseppe! -, un puledro si trasformò d’un tratto in pesce e guizzò nel lago. Ovviamente il giovanotto non perse tempo, tirò immediatamente fuori una briglia e la gettò sul pesce, così imbrigliato lo estrasse dal lago. Continuava a dimenarsi, ad agitarsi convulsamente, ma il giovanotto non allentò la presa, non si lasciò sfuggire di mano quel diavoletto di principessa, così ella fu costretta ad assumere nuovamente le sembianze di puledro. Il mattino seguente la mandria fu condotta a casa: neppure un cavallo mancava. Il re rosso entrò nella scuderia e con una trave staccata picchiò di santa ragione il puledro che sia era lasciato acchiappare. La notte seguente, il diavoletto di principessa si trasformò in cigno, si alzò in volo fino su fin nel settimo cielo da dove si lasciò cadere sotto forma di nuvoletta. Ma il giovanotto non dormiva neppure quella volta, acchiappò anche la nuvoletta con la briglia e anche il giorno seguente andò a casa con la mandria senza alcun problema. Questa volta il re riempì il puledro di talmente tante botte che stramazzò al suolo. La terza notte si nascose sotto terra, giù nel settimo strato della terra, ma il giovanotto lo inseguì e lo riportò in superficie.

Quando giunsero a casa il re disse:

«Figliolo, è trascorso l’anno di tre giorni, cosa desideri, perché finora non c’era stato stalliere che sapesse tenere a bada quel puledro».

Il giovanotto disse di non volere denaro, ma che si sarebbe accontentato anche di quel ronzino bolso che pascolava attorno al letamaio. Tuttavia quel puledro era táltos3 e in precedenza aveva detto al giovanotto di scegliere solo lui se voleva riprendersi la moglie. Il re scoppiò in una risata, ma pensava fra sé, se finora hai avuto più cervello, io non ti sforzerò. Il giovanotto salì in groppa a quel cavallo bolso, uscirono a tentoni dalla corte e quando furono fuori, il cavallo pelle e ossa divenne un destriero dal manto d’oro e con un balzo comparve nella corte del calvo fatato che anche allora era a caccia. Il cavallo táltos disse:

«Ora conducimi nella stalla, dammi tre mastelli di frumento, tre secchi d’acqua, poi vai, bada alle tue faccende, ma quando nitrirò, vieni con tua moglie, perché vorrà dire che sarà tornato il calvo fatato».

I giovani non riuscirono a chiacchierare a lungo, perché a un tratto udirono un nitrito così possente da far tremare pure la terra. Scesero di corsa nella stalla, salirono in groppa al cavallo táltos e via, rapidi come un vento di bufera!

In quell’istante giunse il calvo fatato. Cercò la donna, ma non la trovò da nessuna parte. Andò nella stalla e lo chiese al suo cavallo táltos.

«Padroncino, puoi cercare tua moglie, ma oramai l’hanno portata via sul dorso di un cavallo táltos. Posso mangiare, bene e pure dormire, ma non li raggiungeremo nell’altro mondo.»

All’udire ciò il calvo fatato disse:

«Non dirmi questo, dobbiamo raggiungerli, anche se fossero volati fin su nel cielo».

Detto ciò, montò in sella al cavallo e cavalcò, dapprima sulla terra, e poi nell’atmosfera, con tale impeto da scatenare una grande battaglia celeste.

Solo quando superarono i confini del paese al galoppo, videro la giovane coppia.

«Ora, cavallino caro, mostrami cosa sai fare!», gli gridò il calvo fatato, e il cavallo táltos prese uno slancio tale che la distanza che li separava dagli altri divenne di soli sette cubiti.

Si originò un vento così forte che il povero giovanotto cadde da cavallo.

«Non temere, padroncino, reggiti forti a me!», lo rassicurò il cavallo táltos. E sentite un po’ che meraviglia! In alto il cielo si spalancò e il táltos vi si infilò come una freccia.

Il calvo fatato vide ciò e con tutte le sue forze urlò:

«Signore, mio Creatore, spalanca anche a me il cielo!».

Ma il cielo si richiuse davanti a lui e il calvo fatato precipitò a terra con il cavallo e tutto, così che ogni suo ossicino e ogni sua particella si ridussero in polvere.

Bibliografia

Diószegi 1978. Diószegi Vilmos, A pogány magyarok hitvilága, Akadémiai kiadó, Budapest (1a ed. 1967).

Vargyas 1977. Vagyas Lajos, Honfoglalás előtti, keleti elemek a magyar folklórban, Történelmi Szemle, 20, pp. 107-121

1 Figura di gigante, assente dalle credenze popolari magiare, ma preservata nelle leggende che attribuiscono agli óriások la capacità di trasformare sé stessi oppure gli esseri umani in pietre.

2 Come sostiene l’etnografo ungherese Solymossy Sándor (1864-1945), si tratterebbe di una formularità diffusa dal mondo arabo al Caucaso e che conserverebbe tracce di una formula di adozione tipica del sistema matriarcale (Vargyas 1977, p. 119).

3 táltos ló, cavallo táltos. Si tratta solitamente di un ronzino brutto, magro, sciancato e scabbioso che pascola in un immondezzaio oppure sguazza nello sterco. Egli è dotato di tre, cinque o nove zampe e possiede capacità soprannaturali, quali volare, comprendere il linguaggio umano e parlare lui stesso, sputare e aspirare fuoco. Nelle fiabe popolari l’eroe deve servire il proprietario di tale cavallo e chiederlo come ricompensa per il suo fedele operato. Solo dopo averlo lavato, strigliato e avergli dato il nutrimento che a lui si addice (sovente si parla esplicitamente di brace ardente in grande quantità), il ronzino si metamorfosa in un destriero dal manto prezioso, capace di condurre l’eroe a sconfiggere l’antagonista. Nella ricerca etnografica, il táltos ló rappresenta il tamburo sciamanico impiegato dal táltos (lo “sciamano” nella tradizione ungherese) nell’esercizio delle sue funzioni (si veda Diószegi 1978, pp. 69-79, di prossima pubblicazione in lingua italiana presso Vocifuoriscena).

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