Il grido di Pan, di Matteo Nucci: un corpo a corpo tra umano e animale
Profondamente immerso nelle acque della filosofia e della retorica, Il grido di Pan di Matteo Nucci non è certamente un libro per tutti, ma alla portata di tutti è senz’altro il dialogo intorno al quale si sviluppa e cioè il rapporto tra l’essere umano e la sua animalità. Da questo punto di vista, infatti, il saggio offre non pochi spunti di riflessione che meritano di essere colti anche solo per aprire un dibattito con l’attualità e con ciò che rappresenta oggi la “natura umana”, ben lontana dalla consapevolezza della sua dimensione animale. A partire, ad esempio, dalle tre scene di animalismo antropomorfizzante che aprono le rispettive tre parti in cui è diviso il libro, ciascuna chiusa, poi, da una scena in cui un animale risolve il percorso avviato dalla scena di apertura, facendo emergere le contraddizioni e le ipocrisie della modernità.
Come provare a ristabilire, allora, il dialogo tra l’essere umano e la sua animalità?
Per farlo, Matteo Nucci sceglie di partire dalle origini del “pensiero” e della sapienza, soffermandosi in particolar modo sul ruolo assunto da Parmenide, Eraclito ed Empedocle, dunque da coloro che, con l’oscurità delle proprie parole, più si sono avvicinati alla sapienza. Secondo Nucci, infatti, la loro oscurità sarebbe stata voluta, un mezzo che, attraverso un linguaggio poco chiaro e parole vaghe, invita il lettore a ragionare sul proprio posto nel mondo, essere umano tra gli animali, e sulla propria mortalità.
Da questo punto di vista, infatti, i primi pensatori non potevano essere definiti filosofi: il primo filosofo vero e proprio che fa da spartiacque tra un prima rappresentato dalla sapienza oscura e un dopo rappresentato dalla sapienza irraggiungibile è Socrate con la sua ricerca di chiarezza e rifiuto dell’oscurità. Eppure, Nucci dedica molte pagine al tentativo di penetrare nelle parole volutamente enigmatiche dei primi pensatori, per sostenere l’idea che la vera sapienza fosse insita proprio nell’oscurità, coincidente con la perdita del logos e della ragione. In questo senso, l’oscurità diventa per tutti una sfida da cogliere o accettare.
A ben vedere il logos, nella sua accezione antica di “parola e pensiero”, è ciò che ci distingue in quanto esseri umani e che Nucci oppone all’animalità, considerando il suo possesso quasi una condanna, perché è lo stesso logos che spinge a porsi domande esistenziali, a indagare la morte e allo stesso tempo a volerla razionalizzare o allontanare il più possibile da noi. Della finitezza umana, infatti, solo l’uomo è consapevole proprio per via del logos e a tal proposito sono diversi i miti che Nucci usa come paradigma per illustrarlo. Tra i più significativi quello di Edipo e della Sfinge, del re Mida e del Minotauro.
Con un linguaggio astratto, a tratti vago e oscuro proprio come gli antichi filosofi, e uno stile tortuoso, probabilmente frutto di una scelta ragionata da parte dell’autore, Nucci traspone su carta la sensazione di trovarsi davvero in un labirinto, permettendo — o costringendo — il lettore a perdersi tra le parole come nel labirinto del Minotauro.
Più volte nel corso della trattazione, infatti, l’autore invita a perdersi nel labirinto del logos, il cosiddetto “labirinto della mente”, fino a non percepire più i confini della realtà e le coordinate spazio-temporali, perché solo in questo modo — dunque morendo e poi rinascendo — ci si può avvicinare alla natura animale sopita e comprendere il senso ultimo della vita.
“Perché la sfida per la sapienza non ammetteva vie di mezzo. Perderla significava morire. Oggi siamo portati a vedere questa sfida assoluta per la vita e per la morte come il portato di un mondo antico e scomparso. Ma ciò accade perché non riflettiamo abbastanza sulle storie che conosciamo da sempre e che abbiamo ormai relegato nella dimensione fiabesca di ciò che è lontano dal reale. Tutto sta nel ridar vita a quelle storie e scoprirne il senso con cui evitiamo di fare i conti.”1
Sembra, insomma, che egli voglia porsi sulla stessa linea dei filosofi antichi nel richiamare alla memoria la potenza di quella “medicina dell’anima” che precede la scienza di Ippocrate, quella che prevedeva vere e proprie esperienze di pre-morte: era durante tali esperienze che il paziente, costretto a digiunare o stare nascosto a lungo senza acqua e cibo in condizioni al limite della sopravvivenza, sperimentava terribili visioni e allucinazioni che gli davano la possibilità di “guarire” e “rinascere”. Non diversamente, dunque, da quanto accadeva agli iniziati dei riti misterici, che dopo l’esperienza iniziatica potevano considerarsi a tutti gli effetti “rinati”.
Accettazione della morte e della natura umana, che non ha senso ricondurre a qualcosa di estraneo, di lontano, rigettando l’idea stessa di morire come “inumana”. È questo ciò che Nucci propone e auspica, non senza una certa morale di fondo, che diventa talvolta esplicita:
“[…] Perché in ogni tempo noi umani possiamo rompere le coordinate spazio-temporali della quotidianità che ci impone di vivere guardando soltanto ai nostri interessi individuali e privati, pur di sentir vibrare la nostra animalità mortale e il tutto unico (che sempre è) di cui siamo parte. In ogni tempo possiamo superare la nostra finitezza, fare una profonda esperienza di morte, capace di spingerci a rinascere e trasformare davvero le nostre brevi vite.”2
O ancora quando chiede agli esseri umani di ascoltare il cosiddetto grido di Pan, da cui il testo prende il titolo. In quanto dio della natura, legato agli istinti animali e alla terra, il grido di Pan è il grido della natura stessa che si ribella contro chi la offende, generando il terrore del dio che piuttosto invita all’abbandono a essa, al ciclo delle nascite e delle morti in cui siamo immersi.
Emblematica, infatti, è l’attenzione rivolta al confronto con la società attuale che percorre tutto il saggio. Durante lo sviluppo delle argomentazioni e attraverso l’ausilio di scrittori come Friedrich Dürrenmatt, Ernest Hemingway, Konstantinos Kavafis e Federico García Lorca, Nucci porta avanti le proprie tesi, talvolta infilando tra le righe proprio qualche critica nei confronti delle recenti tendenze attualizzanti dei miti antichi o delle idealizzazioni della società classica, fino ad avanzare una critica finale che vede nell’attuale esaltazione dell’“animale Disney” l’emblema della differenza con quel mondo, dove non c’è spazio per l’esperienza, per la perdita di sé. Infine, con un finale piuttosto enfatico e drammatico, dichiara che “Pan è morto”, per rinascere a sua volta e che il suo grido non si è esaurito. Piuttosto dal panico che genera
“Si salva solo chi ritrova il respiro, abbandonandosi al respiro animale della terra”.3
Note:
1 M. Nucci, Il grido di Pan, Einaudi, Torino 2023, p. 17.
2 Ivi, p. 108.
3 Ivi, p. 156
Il libro recensito è stato cortesemente fornito dalla casa editrice.